«Un teatro per tutti»

Parla Davide Livermore alla guida del Palau de le Arts di Valencia

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Il Palau de les Arts di Valencia celebra quest'anno i dieci anni dalla fondazione, una ricorrenza che ha un significato più che simbolico, visto che si è chiusa l'era di Helga Schmidt e c'è stato un cambio di gestione al vertice. Il nuovo direttore, Davide Livermore, ha infatti intrapreso il suo mandato con la consapevolezza che, dopo i successi e i risultati artistici raggiunti in questi anni dall'opera valenziana, sia ormai giunto il momento di aprire una nuova tappa per questa istituzione, continuando sempre sulla linea tracciata dalla passata sovrintendenza, ma cercando di aggiustare il ruolo di questo teatro a una nuova fase.

Davide Livermore, in che cosa consiste il suo progetto per il Palau de les Arts?

«Io dico spesso che questo teatro (in realtà sono ben quattro le sale che abbiamo a disposizione) è come un'astronave atterrata in questa città. Bisogna che Valencia senta l'importanza di questa presenza e che quest'area di cultura e spettacolo diventi un punto di riferimento per i cittadini. L'esempio che non mi stanco mai di fare è quello dell'Opera di Sidney: ecco, io vorrei sviluppare la mia attività in questa direzione, cioè facendo diventare questa astronave qualcosa di vicino, aprirla al pubblico il più possibile».

Nello specifico, che cosa significa?

«Abbiamo già iniziato a cambiare i prezzi e i tipi di abbonamento per fare in modo che l'opera sia uno spettacolo accessibile e appetibile per chiunque. Quando mi sono insediato ho detto che era mia intenzione fare sì che anche l'ultimo ragazzo del barrio più disagiato avesse la possibilità di venire nel mio teatro, proprio come ebbi occasione di fare io, nato in un quartiere non privilegiato, grazie alle politiche culturali della città di Torino ai tempi della mia giovinezza. La Bohème con cui abbiamo aperto la stagione ha visto un 99% di occupazione, e un sorprendente 50% di pubblico nuovo, cioè di gente che non era mai venuta prima all'opera. Poi vogliamo aprirci a collaborazioni con le altre istituzioni culturali cittadine, come il museo di arte contemporanea, la federazione delle bande e anche con il Palau de la Música, ovvero l'auditorio e l'orchestra sinfonica della città. Con quest'ultima istituzione c'era stata in passato una rivalità quanto mai deleteria e, in fondo, ingiustificata, dato che ci occupiamo di repertori diversi. Comunque da quest'anno posso dire che i rapporti sono ottimi e nel segno di una costruttiva collaborazione. Faccio solo un piccolissimo esempio: il concerto con cui abbiamo festeggiato l'anniversario lo scorso 8 ottobre coincideva con un importante concerto celebrativo al Palau de la Música, ebbene noi abbiamo cambiato l'orario del nostro, per permettere ai cittadini di assistere a entrambi».

Questo teatro e l'intero progetto della città delle arti e della scienza sono stati da alcuni accusati di megalomania. Che cosa pensa al riguardo e qual è il bilancio di questo primo decennio di attività?

«Il bilancio non può che essere molto positivo, perché sotto la gestione di Helga Schmidt è nato dal nulla un teatro d'opera di primo livello, con produzioni esemplari, un'orchestra tra le migliori d'Europa, una macchina teatrale e organizzativa di grande qualità, senza contare la presenza e il lavoro appassionato di grandissimi artisti che hanno fatto di questo luogo un punto di riferimento per la lirica. Questo, è vero, ha comportato un grande investimento di denaro, ma il risultato che ha dato è qualcosa di sostanziale e durerà nel tempo come base di conoscenze e prestigio su cui costruire appunto una nuova tappa. Da un lato i finanziamenti sono crollati a un terzo di quelli iniziali, dall'altro è arrivato il momento di aprire, come ho detto prima, il teatro alla città, di non pensarlo solo come vetrina di eccellenza internazionale, ma di lavorare perché la gente di Valencia lo senta suo e lo renda vivo. In questo modo sparirà anche l'impressione di megalomania del progetto iniziale, che era certamente ambizioso per una città come Valencia dove si fa da sempre tantissima musica, ma dove l'opera lirica non aveva una grande tradizione».

Lei ha scelto al suo fianco due direttori d'orchestra italiani, Roberto Abbado e Fabio Biondi. Come è vissuta lì la presenza di questo triumvirato italiano?

«Nel modo più naturale: tanto io, quanto Abbado e Biondi, siamo prima di tutto artisti, e come tali la gente ci riconosce qui, non quindi come italiani. Il mio modo di gestire il teatro poi è quanto di più lontano da certe abitudini familistiche e da clan, per cui non ci sono state tracce di polemiche. Dirò di più, la mia nomina è percepita come apolitica e strettamente legata a ragioni artistiche, quale di fatto è, essendo io un forestiero. Io sono stato nominato da un governo di destra che ha appoggiato la mia idea di teatro pubblico, ora che al governo c'è una giunta di sinistra, questa idea è ancora più attuale. Posso dire, insomma, che sto sviluppando questo mio progetto con grande libertà».

Di questi tempi si parla molto dei vari nazionalismi che risorgono in Spagna: non subisce pressioni per favorire questo o quell'artista solo perché è della comunità autonoma valenziana?

«No, questo non è successo. Io però penso che un teatro debba valorizzare anche le forze locali, perché è un'emanazione della comunità. Per fare un esempio, quest'anno ho commissionato un'opera a un giovane talento di questa città, ma attivo anche all'estero, Francisco Coll. In questo io seguo la scuola di Carlo Majer che al Regio di Torino ha fatto debuttare tanti torinesi: non è solo un compito doveroso per un teatro, ma è anche un modo per garantirsi la presenza del pubblico, perché una nuova opera di un artista locale attira per forza di cose più gente. Detto ciò, io penso anche che per un artista sia impossibile sviluppare la propria personalità stando unicamente nella propria città e che sia giusto andare via, ma avendo la possibilità di ritornare a casa ogni tanto. Comunque, la questione mi fa anche sorridere: io ho nominato primo direttore ospite Ramón Tebar, un bravissimo direttore valenziano che sta facendo una grande carriera in America e nel resto di Spagna, ma che nessuno aveva mai chiamato a dirigere qui nella sua città! Voglio anche aggiungere che Valencia è una città molto aperta. Anche la presenza della lingua locale è meno ideologizzata che a Barcellona e non ha assunto il carattere di sfida al potere centrale, ma è vissuta con grande naturalezza e non crea barriere. Questa qualità, oltre alla sua apertura sul mare Mediterraneo, mi ha suggerito l'idea di trasformare il Festival del Mediterrani, che purtroppo dall'anno scorso non si fa più per ragioni di soldi, in un progetto di collaborazione con altri teatri d'opera di città che si affacciano sullo stesso bacino. Al momento ci sono contatti con Palermo e Montecarlo, e mi piacerebbe riuscire a coinvolgere istituzioni anche di paesi arabi, per dimostrare la possibilità della cultura di unire i popoli».

E da italiano, qual è la sua impressione della vita culturale in Spagna di questi tempi?

«Da quando tre anni fa fui nominato direttore del Centro di perfezionamento Placido Domingo qui a Valencia, e poi grazie alla mia attività di regista, ho avuto modo di farmi un'idea più precisa: posso dire che, rispetto all'Italia, qui nonostante i tagli, la crisi e i sacrifici è rimasta l'illusione di fare arte, illusione nel senso di entusiasmo. In Italia, tolte alcune realtà isolate (penso al Rossini Opera Festival, che però è un festival e non un teatro stabile) si è persa la speranza e si va avanti in modo un po' cinico. Anche nel pubblico si percepisce una diversa predisposizione, qui si sente ancora molto l'idea che andare a teatro sia una festa e un'occasione speciale».

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