È tornato quarant’anni dopo in un mondo completamente cambiato. Un mondo molto più grande, come testimoniano le 206 candidature al IX Premio internazionale di direzione d’orchestra “Guido Cantelli”, da 38 paesi in quattro diversi continenti, nonostante la pandemia. Dall’altra parte del mondo arriva la vincitrice, Tianyi Lu, cinese di nascita e neozelandese di passaporto, da qualche anno emigrata in Europa.
– Leggi anche: La direzione d'orchestra è (finalmente) donna
A trent’anni, Tianyi Lu vanta già esperienze anche significative e curriculum di tutto rispetto. Oggi è “female conductor” in residenza alla Welsh National Opera e direttore principale della St Woolos Sinfonia nel Regno Unito, e fino allo scorso dicembre è stata direttore assistente alla Melbourne Symphony Orchestra.
All’indomani della vittoria al “Cantelli” con Tianyi Lu abbiamo parlato dei difficili inizi, di come sia cambiata la professione di direttore d’orchestra e di come una donna si confronti con un ruolo tradizionalmente riservato agli uomini.
Sei nata a Shanghai, cresciuta in Nuova Zelanda e ora europea per scelta. Per di più all’inizio della tua biografia scrivi: «Making a name for herself across multiple continents». Un’autentica cittadina del mondo.
«È vero: sono molto "multiculturale". La mia famiglia allargata vive in Shanghai, la città dove sono nata. Quando avevo cinque anni, i miei genitori decisero di trasferirsi in un paese di lingua inglese: poteva essere il Canada oppure l'Australia o ancora gli Stati Uniti e invece ottennero il visto dalla Nuova Zelanda. Dunque è quasi per caso che i miei si sono spostati laggiù. All’epoca ero troppo piccola per sapere dove ci stavamo trasferendo. Ero soltanto felice di andare in un posto dove c'erano un sacco di gelati, come i miei genitori mi avevano detto per convincermi a partire. Seriamente, i miei genitori volevano farmi crescere in un ambiente sano e che offrisse maggiori opportunità per il mio futuro. La vita da emigranti non è stata facile e per questo sono loro riconoscente. Senza quella decisione, non credo mi sarei mai dedicata alla direzione d'orchestra».
Nella tua famiglia c’è qualche musicista o qualche ascendente musicale?
«I miei genitori non sono musicisti: sono entrambi ingegneri, anche se mia madre ha dovuto abbandonare quella professione in Nuova Zelanda. Nonostante le difficoltà, volevano fortemente che studiassi uno strumento musicale. Già da molto piccola avevo mostrato un grande amore per la musica: ballavo, cantavo, facevo dei piccoli spettacoli. A cinque anni cantavo gli ultimi successi pop ai nonni. Più tardi ho cominciato a studiare il pianoforte, con qualche sacrificio dei miei per farmi fare delle lezioni private».
Famiglia a parte, quanto ti ha aiutato crescere in un paese come la Nuova Zelanda?
«Crescere in Nuova Zelanda, grazie soprattutto alla scuola, mi ha offerto esperienze straordinarie. Ho avuto la fortuna di frequentare una scuola superiore per sole ragazze, nella quale tutte noi studentesse avevamo l’opportunità di ricoprire anche ruoli di responsabilità. L’idea che le donne dovessero e potessero fare tutto è stata molto importante per me. Già da molto giovane ho acquisito la consapevolezza di poter fare qualsiasi cosa avessi voluto, solo lavorando sodo».
«L’idea che le donne dovessero e potessero fare tutto è stata molto importante per me».
«Ho anche avuto la fortuna di avere un insegnante di musica favoloso, Peter Thomas, che mi ha incoraggiata a scrivere musica. Ho così cominciato a comporre, studiavo flauto, suonavo nell’orchestra della scuola e cantavo nel coro. Insomma, la musica ha occupato gran parte dei miei anni di formazione scolastica. Solo quando ho dovuto iniziare l’Università ad Auckland mi sono trovata ad affrontare la decisione difficile di far diventare la musica una professione. Una scelta non facile per una famiglia di emigranti. Per me i miei genitori desideravano una professione più stabile, come l’avvocato, il commercialista, il medico o l’ingegnere. Non sapevo bene cosa mi riservasse il futuro ma avevo chiarissima la consapevolezza che, se non avessi fatto qualcosa legato alla musica, me ne sarei pentita per tutta la vita».
I tuoi genitori non si sono opposti alla tua scelta di diventare musicista?
«Opposti no, ma mi hanno interrogato moltissimo per capire quanto fossi motivata. Hanno provato a farmi riflettere sulla mia determinazione con ottimi argomenti. Sinceramente è stata durissima per tutti, anche per me, perché non ero completamente sicura, soprattutto su come costruire una carriera in Nuova Zelanda. In quel momento non pensavo proprio alla direzione d’orchestra: non avevo mai visto una donna dirigere un’orchestra di professionisti e non pensavo fosse possibile. Sognavo di diventare un compositore come John Williams, di dedicarmi alla composizione di colonna sonore».
«Non pensavo proprio alla direzione d’orchestra: non avevo mai visto una donna dirigere un’orchestra di professionisti e non pensavo fosse possibile».
«O magari volevo entrare in un’orchestra, perché mi piaceva moltissimo quell’ambiente. Ero letteralmente innamorata del suono dell’orchestra già dai tempi della scuola. Per questo ho deciso di studiare flauto dall’età di tredici anni, e, dopo il pianoforte, ho anche studiato contrabbasso e violino soprattutto per conoscere meglio gli strumenti e riuscire a comporre con consapevolezza».
Quando è scattato l’interesse per la direzione d’orchestra?
«Nel mio secondo anno di università, ho composto un pezzo per l'orchestra della mia scuola superiore. In quell'occasione, il mio vecchio insegnante mi convinse che dovevo essere io a dirigerlo. Non avevo la minima idea di come fare, e lui mi insegnò velocemente i rudimenti della direzione. Mi rifugiai in bagno per dire una preghiera ma mi sentivo carica, piena di energia. Avevo diciannove anni, non avevo idea di cosa stessi per fare, ma ero determinatissima a far suonare al meglio le ragazze dell'orchestra, nonostante si trattasse di un pezzo difficile. In tre settimane di prove, siamo riuscite a entrare in finale e a vincere il primo premio a un festival. Durante l'esecuzione, sul palcoscenico, ricordo molto chiaramente quel suono e di essermi sentita così a mio agio, quasi come fossi stata a casa. Vedere la gioia sui volti delle ragazze dell’orchestra dire: "Wow! Ce l'abbiamo fatta! Non pensavamo fosse possibile!” è stato davvero il massimo. Ma nemmeno in quell'occasione ho pensato di trasformare quell’esperienza in una professione».
Ma a un certo punto è successo. Cosa ti ha convinto a dedicarti interamente alla direzione?
«Dopo aver frequentato un workshop di direzione d’orchestra con Eckehard Stier alla Auckland Philharmonia Orchestra, Eckehard mi disse che avevo un grande talento per la direzione e mi chiese: “Non vorresti costruirci una carriera?” Era la prima volta che qualcuno mi ci faceva pensare anche se, come ho detto, non avevo mai visto una donna dirigere. “Pensi che sia possibile?” gli chiesi e lui ovviamente mi rispose che in Europa ce n’erano, promettendo di darmi lezioni private e di farmi partecipare a ogni singola prova d’orchestra e concerto della stagione. E così è cominciata l’avventura».
Un viaggio che, almeno per ora, ha cancellato la composizione: non ti manca?
«Una volta ottenuto il mio diploma in flauto, ho anche deciso che non sarei diventata una compositrice: amo scrivere musica ma non penso di avere abbastanza esperienza di vita per riuscire a dire qualcosa di interessante. Magari quando sarò più vecchia avrò qualcosa da dire. Per ora mi interessa di più studiare le composizioni di altri e soprattutto amo dare loro vita, dare vita alle idee di altri musicisti».
A un certo punto, decidi di lasciare anche la nuova Zelanda e ti trasferisci in Australia…
«In quegli anni non esisteva in Nuova Zelanda la possibilità di avere una buona formazione in direzione d'orchestra. Per questo mi sono trasferita a Melbourne, dove ho studiato con un insegnante ottantasettenne, John Hopkins, che mi ha davvero cambiato la vita. In quella fase mi interrogavo su cosa fosse un direttore d'orchestra, su cosa volesse dire leadership e anche su cosa volessi essere io. Tutti i modelli di ruolo che avevo visto in televisione fino ad allora erano uomini bianchi e piuttosto vecchi, normalmente molto forti, molto dittatoriali, che urlavano spesso all’orchestra e non riuscivo davvero a identificarmici. Mi chiedevo se non ci fosse un altro modo di esercitare quel ruolo e pensavo che forse la mia personalità non fosse adatta a quella professione».
«Tutti i modelli di ruolo che avevo visto in televisione fino ad allora erano uomini bianchi e piuttosto vecchi, normalmente molto forti, molto dittatoriali, che urlavano spesso all’orchestra e non riuscivo davvero a identificarmici. Mi chiedevo se non ci fosse un altro modo di esercitare quel ruolo».
Cosa hai imparato soprattutto in quella prima, vera esperienza formativa?
«John mi ha insegnato soprattutto che la qualità più importante per un direttore d’orchestra è l’umiltà. Se sei in tensione è perché il tuo ego entra in gioco. Quando sei un direttore d'orchestra, sei un servitore, sei al servizio dei musicisti e della musica che stai dirigendo. John mi ha fatto anche conoscere il libro L’arte del possibile di Benjamin Zander, l’attuale direttore musicale della Boston Philharmonic Orchestra. Quel libro mi ha cambiato la vita per le sue idee geniali. Una è che il potere del direttore consiste nel rendere potenti gli altri. Non sei tu in una posizione di comando: è piuttosto la posizione di comando che ti dà la possibilità di rendere altri potenti. La prima volta che sono salita sul podio per dirigere un concerto, ho amato soprattutto il sentimento di ogni singola persona nell’orchestra che si sentiva grande per aver raggiungere qualcosa di importante, più importante di quanto potesse immaginare. È questo che mi ha procurato la gioia più grande. Quelle riflessioni mi hanno convinto che, dopotutto, la direzione d’orchestra poteva essere la mia professione».
Quando hai maturato l’idea di trasferirti in Europa?
«Abbastanza presto. Una scelta obbligata visto che in Europa è stata creata così tanta musica classica e ci sono così tante orchestre e direttori d’orchestra eccellenti. A dire il vero ho anche considerato la possibilità di andare a studiare negli Stati Uniti, ma quel Paese è troppo caro e troppo “sparso”. Ho spedito domande a praticamente tutte le scuole in Europa e, per caso, sono arrivata a Cardiff, al Royal Welsh College of Music and Drama. David Jones ha visionato i miei video e ci ha visto qualcosa: mi ha assegnato la borsa di studio senza nemmeno un’audizione, alla quale probabilmente non avrei potuto partecipare per il costo proibitivo dei voli da Melbourne per l’Europa».
Come ricordi Cardiff?
«Mi sono subito innamorata di quel posto: è così simile alla Nuova Zelanda ma dall'altra parte del mondo! Nei tre anni a Cardiff ho viaggiato dovunque in Europa: in Russia, Estonia, Germania, Finlandia, Svizzera per prendere parte a masterclass, per seguire a prove, per incontrare direttori d'orchestra, per assistere a concerti. Ogni momento libero l’ho passato in qualche posto lontano da Cardiff per cercare di imparare e assorbire il più possibile. Una vera indigestione di informazioni! Anche con molte contraddizioni anche nel metodo di insegnamento, nella tecnica di direzione orchestrale. La direzione d’orchestra non è come studiare uno strumento, dove basta esercitarsi per produrre un bel suono o un certo effetto. È qualcosa di molto più astratto: puoi solo guardarti allo specchio o in un qualche video, ma non sai davvero come funziona finché non ti trovi davanti a un’orchestra. E con la complicazione che quando sei giovane, le opportunità di riuscire a dirigere un’orchestra vera sono davvero scarse».
Di recente ci sono stati episodi in cui le orchestre hanno attaccato alcuni direttori d’orchestra anche celebri con l’accusa di bullismo o di autoritarismo. Credi ci sia un’evoluzione “generazionale” nel modello del direttore d’orchestra, da autoritario a democratico?
«Come stare sul podio è un tema che mi ha fatto riflettere a lungo. Tradizionalmente è vero che ci si aspettava che il ruolo del direttore d’orchestra fosse di un certo tipo. Cioè, c'è un motivo per cui Karajan aveva quell'immagine di uomo di potere, anche politico. Nel corso del tempo, una maggiore sensibilità ai diritti umani ma anche il peso sindacale dei musicisti hanno fatto molto per cambiare la cultura; nel senso che, ad esempio, non è più accettabile trattare male i musicisti dell’orchestra. Credo sia un elemento generazionale ma anche legato a come si è trasformata la nostra società, che è diventata più inclusiva e varia. Personalmente, non posso dire di non avvertire una dissonanza fra quello che ci si aspetta da me e chi sono davvero io. Insomma, penso che le cose stiano cambiando ma il cambiamento dipende molto anche da noi».
Comunque, non puoi negare che fa parte del ruolo del direttore d’orchestra esercitare un’autorità sull’orchestra, non può essere uno fra i tanti dell’orchestra. Non credi?
«Credo che da persona guida puoi soprattutto influenzare il tono della prova e per me questo è molto positivo. Almeno, io so lavorare solo così. Riconosco che molti direttori d’orchestra, docenti e mentori mi hanno detto: "Solo la paura funziona". Una volta, un direttore d'orchestra mi ha perfino detto: “Perché sorridi sempre? Perché sei sempre gentile? Non va bene così! Devi far capire all'orchestra chi sei.” Andrà bene per loro, ma per me il suono più bello che un’orchestra può produrre o le cose migliori che un essere umano può fare non vengono mai dalla paura».
«Riconosco che molti direttori d’orchestra, docenti e mentori mi hanno detto: "Solo la paura funziona". Una volta, un direttore d'orchestra mi ha perfino detto: “Perché sorridi sempre? Perché sei sempre gentile? Non va bene così!».
«Ovviamente non tutta la musica esprime bellezza o felicità ma bisogna riuscire a creare con l’orchestra la giusta energia per ogni prezzo, e può anche esserci una grande oscurità. Imporre la disciplina può sicuramente produrre risultati, ma le più grandi opere d’arte, si raggiunge solo con l’amore, la libertà e la gioia».
Come si riesce a far aderire un gruppo di ottanta o più musicisti a un’idea unica di interpretazione?
«La parola chiave è: empatia. Empatia è la chiave di tutto. È la capacità di mettere da parte le tue idee e cercare di capire perché gli altri si sentono in un certo modo. Se si comportano male con te è perché soffrono. Puoi fare qualcosa per alleviare quella sofferenza? Qualche volta non ce la fai perché hai solo una settimana di prove e i problemi sono più grandi di te. Io sento davvero la responsabilità di dover creare qualcosa di bello e di positivo. Ogni volta è un esperimento diverso, un’esperienza diversa ma anche un'occasione di imparare. Spero di aver sempre la capacità di imparare via via che invecchio».
Fra i tuoi molti maestri di direzione d’orchestra, ci sono anche tre grandi nomi come Bernard Haitink, Daniele Gatti e Gustavo Dudamel: cosa hai imparato da ognuno loro?
«Provo a dirlo in poche parole. Bernard Haitink non insegnava molto. Dimostrava piuttosto, oltre ad avere un’incredibile capacità di ascolto e di concentrazione, probabilmente per l’età. Era come un maestro di Tai Chi, che riesce a minimizzare il movimento ottenendo il massimo del risultato. Mi ricordo come stava sul podio: mentre un giovane direttore si muove moltissimo, lui era quasi immobile ma riusciva a ottenere esattamente quello che voleva e i musicisti erano sempre felici di suonare con lui. Con Daniele Gatti ho imparato tutto quello che non conoscevo. La sua conoscenza e la sua capacità di pensare all'insegnamento mi hanno sorpreso moltissimo. Di solito una masterclass è molto tecnica, ma Gatti passava ore fino alle prove parlandoci di musica. In quella settimana ad Amsterdam un paio di anni fa, ero arrivata pensando di aver raggiunto il livello massimo e poi lui ha aperto il soffitto e mi ha fatto vedere il cielo! Mi ha fatto capire che c'erano ancora moltissime cose che dovevo ancora imparare. Gustavo Dudamel l'ho incontrato una sola volta. A Los Angeles ho lavorato soprattutto con altri direttori d'orchestra. Quando lo vedi dirigere è molto energetico, ma è una persona con i piedi ben piantati per terra! Mi ha sorpreso quanto sia una persona concreta, così come mi ha colpito la sua incredibile memoria visiva».
La Welsh National Opera ti ha nominato “Female-Conductor-in-Residence” e nel 2016 alla Dallas Opera sei stata scelta nel programma per direttori d’orchestra donna del Linda and Mitch Hart Institute for Women Conductors. Non è un po’ sminuire il tuo ruolo di musicista circoscrivendolo in qualche modo a un recinto solo femminile?
«Di recente c’è stata una grande attenzione mediatica al fatto che sono poche le donne che si dedicano alla direzione d’orchestra e alle molte iniziative che fanno obiettare a molti perché le donne debbano avere un “trattamento speciale”. Vero è che se si guarda ai numeri, nel 2015 soltanto l'1,5% di donne occupavano posizioni di leadership nelle orchestre britanniche e in alcuni paesi erano anche meno. Negli scorsi anni la situazione è migliorata molto ma quella percentuale è salita al 6% ma molto spesso è inferiore al 5%. Credo che si possa convenire sul fatto che questi siano numeri spaventosi per qualsiasi professione».
«Le organizzazioni che si occupano concretamente di diseguaglianza di genere lo fanno con l’intenzione di portare alla luce il problema, con la speranza che un giorno questi programmi e opportunità non abbiano più ragione di esistere».
«E se guardiamo alla storia, in fondo non sono passati molti anni da quando le donne hanno ottenuto il diritto di voto, di proprietà e persino di essere padrone del proprio corpo e in alcuni luoghi non è ancora così. Nonostante i grandi progressi, la strada da percorrere è ancora lunga. La storia insegna anche che i cambiamenti sociali non avvengono senza azioni positive o persino iniziative per cambiare. E per cambiare serve tempo. Le organizzazioni che si occupano concretamente di diseguaglianza di genere lo fanno con l’intenzione di portare alla luce il problema, con la speranza che un giorno questi programmi e opportunità non abbiano più ragione di esistere. Quindi, no, non penso che queste opportunità sminuiscano il mio ruolo di musicista. Credo piuttosto che svolgano un più ampio ruolo a livello sociale».
So di avventurarmi in un terreno scivoloso e potenzialmente sessista, ma ti chiedo: esiste un modo femminile di dirigere l’orchestra? Percepisci una qualche differenza?
«Permetti anche a me di avventurarmi in un terreno scivoloso e di chiederti: c’è un modo maschile di dirigere? Direttori d’orchestra donne sono diverse almeno quanto gli uomini direttori d’orchestra. Prendi Carlos Kleiber e Herbert von Karajan: sono entrambi uomini, ma non è possibile forse pensare a due personalità anche musicali più diverse. Lo stesso vale per Marin Alsop e Mirga Gražinytė-Tyla: completamente diverse. È come pensare all'uomo e alla donna come due categorie diverse e opposte ma in effetti siamo tutti molto diversi. Se mi fai questa domanda dovresti prima definire cosa vuol dire essere donna e dovresti ammettere che la definizione comprende un intero spettro di possibilità e di diversità. Se poi aggiungiamo l’orientamento sessuale, l’identità di genere, le preferenze sessuali e quant’altro, non possiamo non vedere che siamo tutti all'interno di uno spettro. La mia sfida personale al mondo e specialmente al mondo musicale è questa: ci sarà un giorno in cui, mi auguro, non daremo etichette alle persone perché non ci appartengono. Se potessimo allargare di più lo spettro dell'arcobaleno, avremo così tanti colori in più e così tanti modi diversi di vedere il mondo che il mondo stesso sarebbe un luogo molto più ricco».
Veniamo alla tua carriera fino a oggi: moltissima musica sinfonica, ma l’opera è assente. Mancanza di interesse o solo un caso?
«Direi che è un caso, ma dipende anche dalle opportunità che esistono per chi inizia il mestiere. Spesso le masterclass durano una settimana ed è inevitabile concentrarsi su un pezzo sinfonico. Per l'opera, di solito, è più facile se sei pianista e hai la possibilità di lavorare in un teatro tedesco, ma quello non è mai stato il mio percorso. Personalmente, credo che i più grandi direttori d'orchestra del passato lo siano stati sia nell’opera che nel sinfonico. E non è un caso perché entrambi i generi si aiutano a vicenda, si tengono per mano, e pongono sfide diverse all'interprete. Per quanto mi riguarda mi auguro di avere la possibilità di lavorare in entrambi i campi perché è essenziale per sviluppare la mia personalità di musicista».
Veniamo al Premio Internazionale di Direzione d’Orchestra “Guido Cantelli”, un importante riconoscimento per la carriera nella direzione d’orchestra. Cosa ti ha spinto a partecipare?
«Ti confesso che non avevo molte aspettative quando ho deciso di partecipare al concorso. Ero soprattutto elettrizzata dall’idea di tornare a fare musica dopo sei mesi chiusa in casa e soffrendo moltissimo la mancanza del fare musica con altri. Il “Cantelli” è stato soprattutto un modo per tornare a concentrarmi sulla musica dopo il periodo del lockdown durante il quale sono stata semplicemente incapace di guardare una partitura. Il “Cantelli” ha rappresentato un traguardo importante che mi ha dato una grande forza. Ero così felice di ritrovarmi di nuovo fra musicisti, che per la foga ho spezzato la bacchetta alla prima prova del concorso dirigendo il Coriolano di Beethoven! Esplodevo letteralmente di energia dopo sei mesi di inattività forzata».
Impressioni?
«È stato come essere in famiglia. L’orchestra del Teatro Regio di Torino è stata davvero generosa e accogliente nella settimana del concorso, dando il meglio con ciascuno di noi concorrenti. Il clima è stato molto amichevole anche con gli altri concorrenti: abbiamo parlato molto di musica, scambiato idee, condiviso i pasti, raccolto i complimenti dopo le prove...».
Quanto è importante per un giovane direttore d’orchestra vincere un concorso come questo?
«I concorsi sono un gioco buffo. Possono essere occasioni importanti perché attirano l’attenzione dei media, sono un veicolo importante di conoscenze e in un certo senso danno una misura, una base che ti fa avere la fiducia delle persone. Quel che conta davvero rimane comunque perché fai musica e la direzione che intraprendi. Per quanto mi riguarda, c'è anche una parte di me che ha bisogno di sfide anche a livello psicologico: riesco a essere generosa anche in una competizione? Riesco ancora a dare affetto o a essere gentile? Riesco a mantenermi calma anche se sbaglio partitura appena prima di una prova (mi è successo al secondo round del “Cantelli”)? Essere messi sotto pressione è un ottimo modo per migliorare se stessi».
La pandemia non dà tregua ma l’attività musicale si sta lentamente riprendendo. Dopo il “Cantelli” quali saranno i tuoi impegni?
«Al momento sto preparando un altro concorso, il Concorso “Solti” a Francoforte sul Meno. La situazione è ancora complicata e arrivano proposte qualche volta legati a cancellazioni, come un concerto che ho in programma in Norvegia. Alla fine dell’anno sarò a Belfast, Ulster, per un concerto già previsto da tempo. Per l’opera dovrò aspettare ancora: con la Welsh National Opera stavamo preparando una Carmen, che è andata in scena per sole due recite prima della pandemia. Al momento la situazione è molto incerta perché il Welsh Millenum Centre, la “casa” della Welsh National Opera, resterà chiuso fino a nuovo ordine e lo sarà verosimilmente fino al prossimo anno».
Hai voglia di rivelare ai nostri lettori un tuo sogno professionale?
«In realtà non ne ho. Quando ho cominciato a studiare direzione d’orchestra, il mio sogno era di fare grande musica e divertirmi con i colleghi musicisti. E ovviamente di continuare a imparare: amo moltissimo il processo di apprendimento e di crescita e forse quello è il vero motivo per il quale ho scelto questa professione che ti spinge a farlo mentalmente, psicologicamente, emotivamente in molti modi diversi. In fondo il mio sogno è questo e lo sto già vivendo. In generale, penso che ogni esperienza, buona o cattiva, sia parte del sogno. In fondo, gli incubi sono meglio dei bei sogni se non altro perché sono più interessanti e stimolanti. La sfida vera è come riesci a tirar fuori il meglio dalle situazioni negative: il vero segreto di vivere i sogni è questo».