Contemporanea o colta che dir si voglia, sono molti i nomi che possiamo usare per definire la musica del nostro tempo. Ma cosa si nasconde dietro quelle sonorità, spesso accusate di apparire troppo ostiche o addirittura cerebrali? Abbiamo chiesto ad alcuni compositori "di oggi" di scegliere sei brani di autori diversi che in qualche modo abbiano esercitato una particolare influenza sul loro modo di pensare e scrivere la musica.
Nelle ultime puntate abbiamo incontrato Yannis Kyriakides, Hugues Dufourt, Michel van der Aa e Mauro Lanza, Jug Marković e Lorenzo Troiani. Oggi tocca a Giacomo Manzoni.
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Tra i maggiori protagonisti della musica del secondo Novecento, dal 1958 al 1966 il compositore Giacomo Manzoni è stato anche critico musicale dell'Unità e dal 1962 docente presso i Conservatori di Bologna e Milano, oltre che per le maggiori istituzioni musicali tra America e Giappone. Grazie alle sue fondamentali traduzioni, ha inoltre introdotto in Italia il pensiero di Schönberg e Adorno, parallelamente a numerose pubblicazioni di carattere musicologico, testi imprescindibili al servizio dell'arricchimento formativo e della divulgazione musicale.
Compositore prolifico, i suoi lavori hanno conquistato i riconoscimenti più ambiti quali il Premio Abbiati della critica (1986), il Prix des muses, l'Ambrogino d'oro e il Leone d’oro alla carriera alla Biennale di Venezia (2007) per aver consegnato alla storia della musica più recente lavori come Atomtod (1965) e Doktor Faustus (1989) per quanto riguarda il teatro musicale, o ancora Masse: omaggio a Edgard Varèse (1977) per pianoforte e orchestra.
Dopo il rinvio della prima esecuzione del brano Il mare azzurro...ritraendosi, a seguito della sospensione dell'ultima edizione del Festival Milano Musica dovuta all'attuale emergenza sanitaria, tra i prossimi impegni di Giacomo Manzoni figurano un lavoro sinfonico per Milano Musica, un progetto teatrale programmato per il 2022 e un lavoro corale per il Maggio Musicale Fiorentino.
1. Tristano e Isotta, Richard Wagner
«Mi ci imbattei in una fase ancora per così dire amatoriale. Ne acquistai lo spartito in una benemerita bottega di musiche usate – mi pare si trovasse, anni Quaranta, dietro il Policlinico di Milano – e mi ci tuffai con una intensità che forse non avevo provato prima d’allora, un’intensità che era tutta dovuta a Wagner naturalmente, alla sua armonia per me affascinante quanto sconosciuta, per non dire incomprensibile; a cui si aggiunse – quando la ascoltai alla Scala nel ‘48, interprete l’insuperata Kirsten Flagstad con Victor De Sabata sul podio – la potenza e varietà del timbro orchestrale».
2. Liriche greche, Luigi Dallapiccola
«Voglio citare almeno una composizione di autore italiano, trascurando a malincuore la Lulu di Alban Berg che è stata a sua volta assai significativa nella mia formazione, come anche i per me altrettanto fondamentali Georgelieder di Schönberg, il Pierrot lunaire ascoltato nel 1949, e i Préludes per pianoforte di Debussy».
«Interessato assai presto, grazie al mio maestro Gino Contilli, alla dodecafonia, conobbi in età ancora acerba queste Liriche per voce e strumenti (Saffo, Alceo e Anacreonte). La delicata melodizzazione delle serie dodecafoniche, ben lontana dal trattamento della voce dei tre grandi viennesi, i trasparenti intrecci contrappuntistici, l’essenzialità del timbro mi lasciarono un’impressione che ancora a lungo echeggiò nella mia mente».
3. Messe de notre Dame, Guillaume de Machaut
«Il sapore austero e intenso che la Messe de notre Dame mi lasciò al primo ascolto non si è più cancellato nella mia vita. Con un salto addietro di secoli mi sembrava di trovarvi le radici della musica del nostro tempo: un’armonia asciutta, spesso dissonante, una melodia scolpita come nel bronzo. Forse da lì nacque la mia forte inclinazione per la scrittura corale, che ha accompagnato la mia produzione fin da quando ero ancora studente di conservatorio. E in un rondeau come Ma fin est mon commencement scoprivo tecniche che avrebbero raggiunto il loro apogeo nella dodecafonia classica!».
4. Madrigali V e VI libro, Gesualdo da Venosa
«Gesualdo, che conobbi poco prima del precedente Machaut, mi procurò un vero e proprio choc. Mentre mi era stato inculcato a lungo che la polifonia classica era la vetta della perfezione diatonica, il regno dell’eufonia e delle forme cristalline, nei libri V e VI dei Madrigali mi imbattevo in una furia cromatica che coinvolgeva e addirittura travolgeva anche i testi più miti e banalucci, per non parlare delle regole della modalità. Capii ben presto che già nel Cinquecento esistevano esigenze altre rispetto alla norma consolidata (fino alla teorizzazione dei quarti di tono nel Vicentino!), e questo era per me un incoraggiamento, quasi un obbligo morale e tecnico, di imboccare strade difficili e talvolta ingrate, ma a cui qualcosa mi diceva che non era possibile rinunciare».
«Capii ben presto che già nel Cinquecento esistevano esigenze altre rispetto alla norma consolidata».
5. Sonata n. 2 "Concord, Mass. 1840-60", Charles Ives
«Fui attirato da Ives in epoca di studi, forse dopo averne ascoltata l’esecuzione ai Pomeriggi Musicali di Milano (1953?) curata da Giorgio Gaslini, il quale affidò ciascuno dei quattro tempi ad altrettanti giovani pianisti (ma non escludo che tra loro ci fosse lui in persona). Volli procurarmene la partitura, che naturalmente non trovai in Conservatorio ma stranissimamente alla Biblioteca Comunale Sormani, insieme peraltro ad altre musiche di Ives. Leggendola in pagina e strimpellandola in qualche modo mi resi conto che mi trovavo davanti a un’opera eccelsa, su cui allora non avevo le conoscenze necessarie per dire quel che mi sento di affermare oggi: essere la Concord la più straordinaria Sonata per pianoforte del Novecento».
«La Concord è la più straordinaria Sonata per pianoforte del Novecento».
6. Metastaseis, Iannis Xenakis
«Xenakis, che fu tra i rottamatori della scuola di Darmstadt da cui del resto si era sempre tenuto lontano, mostrò in Metastaseis un fatto che da secoli era sotto gli occhi di tutti ma che nessuno aveva mai visto (in realtà fino al Novecento inoltrato pur eventualmente vedendolo nessun compositore avrebbe saputo che farsene). Il fatto cioè che in una orchestra sinfonica – in Metastaseis gli archi sono comunque solo 46 su un totale di 61 strumenti – i 60 archi circa che ne fanno parte possono essere suddivisi non solo in 5 o al più 10-12 linee indipendenti (ma 23 in Metamorfosi di Richard Strauss), come usava fin’allora, bensì anche in altrettante singole linee o altezze, venendo così a realizzare una simultaneità di suoni diversi – fino a 100 e più, tenendo conto naturalmente di tutti gli altri strumenti presenti in orchestra. Mai fino a quel momento (primi anni Cinquanta) orecchio umano aveva percepito simili sonorità. Era un’apertura profetica a quel materismo sonoro che sarebbe divenuto oserei dire universale solo anni dopo (importante in tal senso anche Ligeti, all’epoca assai più noto ed influente del compositore greco). Posso solo dire che questa semplice intuizione mi sollecitò idee acustiche, formali e timbriche che mi hanno accompagnato in gran parte della mia produzione».