L’opera di avvio della 59ma stagione del Macerata Opera festival, allo Sferisterio dal 20 luglio al 19 agosto, sarà Carmen. Il capolavoro di Bizet sarà presentato non con i dialoghi originari ma con i recitativi cantati di Ernest Guiraud, più adatti secondo il direttore Donato Renzetti a mantenere un equilibrio fonico con la musica nel grande spazio aperto del teatro.
La regia è affidata a Daniele Menghini in collaborazione con il drammaturgo Davide Carnevali; le scene sono di Davide Signorini, i costumi di Nika Campisi, le coreografie di Virginia Spallarossa, le luci di Gianni Bertoli e la drammaturgia dell’immagine di Martin Verdross.
Interpreti vocali Ketevan Kemoklidze (Carmen), Ragaa Eldin(Don José), Fabrizio Beggi (Escamillo), Roberta Mantegna (Micaëla), Armando Gabba (Le Dancaïre), Saverio Fiore (Le Remendado), Paolo Ingrasciotta (Moralès), Andrea Concetti (Zuniga), Francesca Benitez (Frasquita), Alessandra Della Croce (Mercédès), Andrea Pistolesi (Un bohémien), Tina Chikvinidze (Une marchande) e l’attrice Valentina Picello. In buca la FORM-Orchestra Filarmonica Marchigiana diretta dal direttore del festival, Renzetti, affiancata dal Coro Lirico Marchigiano “Vincenzo Bellini” diretto da Martino Faggiani, dai Pueri Cantores “Zamberletti” diretti da Gian Luca Paolucci e dalla Banda Salvadei.
Daniele Menghini, regista emergente poco più che trentenne, è già conosciuto a Macerata per aver firmato nella scorsa edizione un allestimento fresco e divertente del Barbiere di Siviglia, vincitore del concorso indetto dallo Sferisterio stesso. Formatosi alla Civica Scuola Paolo Grassi di Milano, ha maturato esperienze di attore e di regista teatrale prima di dedicarsi alla regia lirica, ambito nel quale ha collaborato con registi come Davide Livermore e Graham Vick. Dopo Il barbiere dello scorso anno e La Cenerentola sempre del 2022 con AsLiCo, Menghini ha studiato profondamente Carmen per l’allestimento di Macerata e si prepara a dirigere nel 2024 L’elisir d’amore al Regio di Parma. In questo nuovo allestimento di Carmen saranno utilizzate delle maschere, con riferimenti alla commedia dell’arte. Che nesso c’è tra questa scelta e l’opera di Bizet?
«Carmen rappresenta l’alterità, l’emarginazione e il diverso, la dimensione demoniaca, infera e oscura che nella novella di Mérimée è molto forte – ci racconta Menghini – Con il drammaturgo Davide Carnevali ci siamo chiesti come raccontare questi aspetti e al di là dell’ esotismo piuttosto generico della musica siamo arrivati all’origine di quella dimensione infera. Per questo abbiamo deciso di utilizzare le maschere e soprattutto quella di Arlecchino, che ha sì un carattere farsesco ma che prende origine dall’Alichino dantesco. Abbiamo svolto degli studi di tipo antropologico e abbiamo trovato fonti molto interessanti nelle farse medievali francesi a proposito di Hellequin, che all’origine aveva una maschera di pelle di lupo, e i cui rombi tipici dell’abito derivano dalle squame del serpente. Questa simbologia abbiamo voluto diventasse la cifra estetica dello spettacolo. Inoltre abbiamo voluto rifondare una grammatica di segni basata sulle tradizioni e sulla cultura popolare del centro Italia e dello Sferisterio in particolare, dove fino agli anni Trenta del Novecento nel periodo del carnevale venivano svolte le giostre dei tori, sorta di corride all’italiana. Questi spettacoli avvenivano nelle piazze e in teatri di legno appositamente costruiti e poi smantellati dopo l’uso e provengono dai giochi dei gladiatori dell’antica Roma, che continuarono per tutto il medioevo e oltre. Carmen è una sorta di mito contemporaneo che dialoga sotto vari aspetti con il luogo Sferisterio: un altro aspetto ancora è che nella novella di Mérimée durante una partita di pelota basca , simile al gioco della palla al bracciale che si praticava appunto nel teatro maceratese, don Josè uccide un avversario, e questo omicidio lo porta a fuggire e ad arruolarsi con i dragoni».
E’ abbastanza singolare, almeno in Italia, che il regista venga affiancato da un drammaturgo…
«Mentre leggevo Mérimée ho sentito il bisogno dell’intervento un autore contemporaneo che potesse riattivare una riflessione profonda con il nostro pubblico, e gli ho chiesto di scrivere un testo inedito che verrà recitato durante lo spettacolo da un’attrice, creando così un dialogo con il dispositivo operistico. Ciò per conservare uno spazio teatrale di parola lasciando il tessuto musicale intatto, per riconnetterci alla voce narrante originale. Si tratta di una sfida, essendo la prima volta in cui si sperimenta questo tipo di operazione, che crea una relazione tra piano musicale e prosa dove la musica viene illuminata dalla parola e viceversa. Questo è stato possibile perché fin da subito si è instaurato un dialogo con il direttore musicale Renzetti, che si è reso molto disponibile».
Lo spazio enorme dello Sferisterio è stimolante per un regista? O intimorisce?
«È come stare sul ponte di un galeone, a volte arriva la tempesta, bisogna esser pronti a tutto, alle variazioni meteorologiche che possono sconvolgere il palcoscenico. Si tratta di uno spazio gigante con pubblico a 180 gradi, certo stimolante, ma che rappresenta anche una sfida titanica. Occorre cercare di centralizzare l’azione e nello stesso tempo trovare un equilibrio tra centro e lati: per questo progetto tutti gli occhi sono puntati sulla carcassa del toro vegliata da Arlecchino e l’ azione è centrale perché si svolge sulla sabbia del ruedo dove si raggruma tutta una serie di paure collettive. Mi sono sempre chiesto che cosa spinge il pubblico ancora oggi a ritrovarsi per assistere ad uno spettacolo di morte come la corrida. Ciò vale anche per Carmen , seconda opera più rappresentata al mondo: cosa ci spinge ad andare a vedere la morte di Carmen, cosa si uccide di noi quando Carmen viene uccisa? L’animalità istintuale, il chaos, la minaccia alla società, che hanno come contraltare Micaela, personaggio inesistente in Mérimée, che con la sua levatura morale soddisfa la borghesia francese. Cosa andiamo a soffocare della nostra voglia di libertà, schiacciati dalle regole, cosa non è allineato in noi? Carmen è una riflessione sull’ordine e il disordine che è in ognuno».
Su questo palcoscenico lei si è cimentato con due libretti diversissimi, l’anno scorso il Barbiere, ambientato in un set televisivo, e con il finale a sorpresa di Rosina che scappa, e quest’anno Carmen….
«Sono due universi, due materiali di pasta completamente diversa. Quando ho avuto l’incarico di Carmen, ho cercato frequenze che connettessero l’opera a questo luogo. Il rischio sarebbe stato schiacciare il soggetto nella riflessione di cronaca, mentre invece credo che esprima un ventaglio molto profondo di significati, non solo riguardo la relazione tra uomo e donna, ma tra uomo e donna con le parti di sé che non si capiscono e che esprimono un problema ancestrale, antico. Se con il Barbiere avevo creato una attualizzazione rispetto al libretto, non devo per forza riproporre quel modello, non ho l’ansia di creare una mia estetica, anzi voglio mettermi ogni volta in relazione al materiale in modo molto libero, mettermi al servizio, e non imporre qualcosa di precostituito. E’ molto più ricco il materiale rispetto al mio immaginario, mi lascio invadere da esso e con il corto circuito che si crea cerco di progettare lo spettacolo dal vivo, che parla dai vivi ai vivi. E’ questa per me la cosa di maggiore importanza».
Il festival di Macerata continuerà con altri due titoli, Lucia di Lammermoor diretta da Francesco Ivan Ciampa e la regia di Jean- Louis Grinda, e Traviata nello storico allestimento di Josef Svoboda e Henning Brockhaus, diretta da Domenico Longo. Molti gli eventi collaterali alla lirica, con spettacoli di danza, concerti, proiezioni di film con musica dal vivo, aperitivi culturali e con il Requiem di Verdi diretto da Donato Renzetti il 29 luglio.