Quando Markus Hinterhäuser nel 2017 arrivò al vertice artistico del Festival di Salisburgo, il più antico festival multidisciplinare del pianeta e sicuramente il più ricco e non solo di storia, non furono pochi a sorprendersi. Perché lui, fra chi lo conosceva poco, era soprattutto un pianista prestigioso ma dal profilo insolito per i suoi interessi per le avanguardie storiche e la musica contemporanea (soprattutto quella di Nono, Stockhausen, Feldman, Ligeti e Ustvolskaya ma anche di Cage e di Scelsi) ma anche per le incursioni sulle scene teatrali con la complicità di teatranti di razza come Christoph Marthaler per Schutz vor der Zukunft o Johan Simons per Atomised o Klaus Michael Grüber per Diario di uno scomparso di Janáček o, più di recente, William Kentridge, che realizza per lui le immagini animate che illustrano il suo Winterreise con Matthias Goerne. Eppure i galloni al Festival di Salisburgo se li conquista grazie a una lunga “gavetta”, per così dire, iniziata nel 1993 con la fondazione e direzione con Tomas Zierhofer-Kin di “Zeitfluss”, isola musicale contemporanea nel festivalone maggiore proseguita fino al 2001 prima di traslocare come “Zeit-Zone” alle Wiener Festwochen fra il 2002 e il 2004. A Salisburgo ci torna dal 2007 da responsabile della programmazione concertistica con Jürgen Flimm sovrintendente, del quale prenderà il posto per una sola stagione nel 2011 prima dell’arrivo di Alexander Pereira. E prima dell’incarico attuale, che riceve nel 2017 e, salvo imprevisti, dovrebbe mantenere fino al 2024, regala alle Wiener Festwochen tre stagioni memorabili fra il 2014 e il 2016.
A Salisburgo si sta lavorando alacremente per l’ormai imminente apertura del festival il 18 luglio con il tradizionale Jedermann di Hugo von Hofmannsthal nella piazza antistante la Cattedrale e non è facile trovare un attimo libero nell’agenda pienissima di Markus Hinterhäuser, che comunque ha accettato di parlare del suo festival in questi nostri tempi complicatissimi per i lettori del gdm.
Quest’anno anche al Festival di Salisburgo si torna a una modalità operativa dopo due anni di pandemia. Cosa abbiamo imparato da questa esperienza?
«Abbiamo imparato quanto siano fragili i meccanismi che credevamo invece solidamente invulnerabili. E credo che tutti lo abbiamo capito in modo scioccante che durerà nel tempo. Cioè anche quando la dimensione strettamente sanitaria sarà superata, la pandemia e le sue conseguenze non lo saranno per molti anni a venire. E questo vale non solo per le istituzioni culturali, ma per ogni ambito della nostra vita».
Secondo lei questa esperienza ha cambiato qualcosa nel nostro modo di porci nei confronti della musica o dell’arte più in generale?
«Personalmente non credo che il senso più profondo dell’arte o delle opere d’arte o musicali o dell’arte in generale abbia subito un cambiamento duraturo a causa della pandemia. Credo però che la pandemia ci abbia fatto capire il bisogno di comunità, di un’esperienza collettiva di musica e teatro come non si era forse mai avvertito prima. Credo che sia qualcosa legato a un desiderio di “auraticità”, nel senso inteso da Walter Benjamin, cioè a una spinta ad entrare in contatto in modo diretto e non mediato con la creazione artistica. Quando un gruppo di persone esce da uno spettacolo cambiato, e il cambiamento interessa tutti, partecipiamo a una delle cose più preziose che si possano sperimentare».
Quanto è difficile programmare un festival importante come quello di Salisburgo in tempi scossi da eventi come quelli che stiamo vivendo negli ultimi mesi?
«La pandemia, la guerra tornata ad affacciarsi prepotentemente nel nostro continente, ma anche la questione climatica sono questioni ineludibili e inevitabilmente hanno tutte un forte impatto su di noi e anche sul modo in cui ci mettiamo in relazione con il festival. Anche se a Salisburgo abbiamo vissuto periodi più leggeri e spensierati, vero è che Festival ha sempre avuto numerosi alti e bassi durante il suo secolo e più di esistenza. Del resto, è stato fondato nel 1920, cioè quando ancora era vivo il ricordo della Prima guerra mondiale, e progettato durante il periodo bellico, in una fase storica di profondissima crisi politica, sociale e culturale. In questo senso il Festival di Salisburgo è un progetto profondamente politico. Per quanto mi riguarda, considero questo “mito fondativo” anche come un mandato ad affrontare con i mezzi dell’arte le grandi questioni che interessano il nostro pianeta».
«La cultura deve certamente riflettere queste grandi questioni. Ma non ci dobbiamo fare illusioni o sopravvalutarne le possibilità. Certamente attraverso la cultura non troveremo una soluzione alla crisi climatica. Non troveremo una soluzione alla crisi dei migranti, né alla guerra».
A suo avviso che ruolo deve svolgere la cultura in queste grandi questioni?
«La cultura deve certamente riflettere queste grandi questioni. Ma non ci dobbiamo fare illusioni o sopravvalutarne le possibilità. Certamente attraverso la cultura non troveremo una soluzione alla crisi climatica. Non troveremo una soluzione alla crisi dei migranti, né alla guerra. Questo però non significa che non possa non avere un ruolo. Quello che può fare è sensibilizzare l’opinione pubblica, porre domande a ognuno di noi e spingerci a interrogare noi stessi. I grandi capolavori artistici, musicali, letterari rendono visibili e udibili i toni intermedi della riflessione e forse ci aiutano anche a rendere più comprensibili alcune questioni. L’arte è tutto, ma non è la terapia. L’arte è tutto, ma non è l'evasione».
Significativamente il Festival di Salisburgo 2022 si aprirà con un discorso dello scrittore Ilija Trojanow dal titolo “Il suono della guerra, le tonalità della pace”. Un modo per affermare il suo festival ha un’anima impegnata?
«Come recita il titolo del suo romanzo forse più noto, Ilija Troianow è un “collezionista di mondi” nel senso più alto del termine. Si è costantemente mosso fra lingue, culture ed epoche, ed è alla costante ricerca di verità e visioni del mondo complesse, di modi per sperimentare la libertà e raggiungere un accordo umano. Non è solo uno degli scrittori più importanti del nostro tempo ma anche uno dei più impegnati. È la figura ideale per aprire il festival con il suo discorso alla luce dell’attuale situazione mondiale».
All’epoca della sua nomina alla guida del Festival di Salisburgo, un membro del Consiglio di Amministrazione, Andrea Ecker, disse che la scelta fra 15 candidati era caduta su di lei per la sua reputazione internazionale e per la sua capacità di innovare ma anche per il suo forte legame con Salisburgo, che avrebbe garantito una prospettiva di lungo periodo. Quando nasce il suo legame con Salisburgo?
«I miei ricordi del festival risalgono a quando andavo a scuola e la domenica prima di pranzo la radio trasmetteva il Festival di Salisburgo. Si sentiva una fanfara e poi un annuncio in diverse lingue. Il tutto suonava piuttosto solenne e pomposo, ma dava l’impressione che qualcosa di molto speciale stava avvenendo. Qualche anno più tardi, da studente, attorno al Festspielhaus andavo a caccia di inviti per poter assistere alle prove generali degli spettacoli. In quegli anni, il festival aveva un carattere molto esclusivo, ma da allora, dall’inizio degli anni Novanta la situazione è molto cambiata. E naturalmente fra il 1993 e il 2001 ho avuto l’opportunità di lavorare all’interno del festival prima con “Zeitfluss”, la rassegna di musica contemporanea all’interno della programmazione ufficiale, che ho fondato e curato con Tomas Zierhofer-Kin, e in seguito, fra il 2007 e il 2011, ho curato la programmazione concertistica del festival».
Quanto è difficile cambiare in un festival dalla tradizione ultracentenaria come quello che lei dirige?
«Sicuramente bisogna muoversi in maniera prudente perché è in gioco l’aura di un’istituzione importante. Si tratta di trovare un equilibrio fra vicinanza e distanza: troppa distanza è poco feconda e troppa vicinanza può rompere l’incanto. Credo che cambiare sia necessario e irreversibile, ma questo non deve significare che si debbano distruggere aspetti fondamentali che appartengono alla storia e all’attrazione che esercita l’istituzione. Naturalmente, so bene che alcuni dei luoghi comuni sul festival non possono essere del tutto eliminati, come ad esempio la questione dell’esclusività, che spesso viene fraintesa nel senso di limitare l’accesso a un numero ristretto di persone. L’esclusività è, a mio avviso, piuttosto l’esporre il pubblico a un’esperienza unica».
Parlando di innovazione, una presenza significativa nei suoi ultimi festival è quella di Romeo Castellucci, artista per molti versi controverso, che dopo Salome nel 2018 e Don Giovanni nel 2021 nel prossimo festival affronterà un dittico piuttosto inedito fatto dal Castello del duca Barbablù di Bartók e De temporum fine comoedia di Orff. Come mai questo strano accostamento?
«Quando ho pensato di proporre a Romeo questo accostamento dell’atto unico di Bartók con l’ultimo lavoro di Orff, commissionato dal Festival di Salisburgo, ne abbiamo parlato a lungo con lui. Non voglio rivelare troppo su come Romeo affronterà questi due titoli, ma a mio avviso è una soluzione davvero interessante in cui i motivi biblici e cristiani giocheranno un ruolo importante. Si tratta della questione del giudizio e del male. E si tratta di Lucifero come portatore di luce. Non voglio dire di più».
Cosa le piace di Romeo Castellucci?
«Molto spesso il rifiuto dei suoi spettacoli è legato a una presunta scarsa comprensione. Io credo che la questione della comprensione andrebbe relativizzata. Oggi pretendiamo di voler capire sempre tutto. Viviamo in un mondo che sta diventando sempre più complesso ma in cui la scienza decodificherà comunque tutto. Ma nelle grandi opere d’arte c’è sempre un mistero e Castellucci è in grado di restituire all'opera d'arte il suo segreto, la sua aura. Le opere di Castellucci sono l'antitesi di un mondo completamente privo di mistero, un mondo che sta perdendo ogni qualità metafisica. Romeo Castellucci ha proprio questa capacità, forse nello spirito di Luigi Nono, “di risvegliare l'orecchio, gli occhi, il pensiero umano”».
Non teme il rifiuto delle sue provocazioni intellettuali da parte del pubblico di Salisburgo, spesso etichettato come conservatore?
«Se la provocazione è frutto di un calcolo allora è semplicistica, noiosa e trasparente. È diverso invece quando invece la si considera in senso etimologico, cioè un mezzo per evocare qualcosa di inatteso nello spettatore, qualcosa che non è mai stato sperimentato in un certo modo o con quella radicalità. Radicalità significa andare alle radici di un mito».
Veniamo al Festival di quest’anno, che è stato preceduto da polemiche sul ruolo di imprese e banche russe a Salisburgo. Ci sono state anche molte critiche per la presenza anche nel cartellone di quest’anno di Teodor Currentzis e del suo gruppo MusicAeterna, un cui concerto è stata cancellato a Vienna nella scorsa primavera. Secondo le voci più critiche nei vostri confronti, Currentzis non avrebbe mai condannato pubblicamente l’aggressione russa dell’Ucraina.
«Conosco Currentzis da molti anni e non l’ho mai sentito fare un'osservazione che esprimesse una qualche simpatia per il regime di Putin o per la guerra, né in privato né in pubblico. Al contrario, la sua è stata una delle poche voci che si sono levate in difesa del regista Kirill Serebrennikov agli arresti domiciliari per una vicenda poco chiara di corruzione. È anche stato uno dei personaggi principali di Dau, il film di Ilya Khrshanovsky, una corrosiva esplorazione del totalitarismo sovietico, la cui proiezione è stata proibita in Russia. Currentzis ha anche apportato cambiamenti nei programmi dei suoi concerti che si possono e anzi si devono interpretare come dei chiari segnali contro Putin. E a proposito di Vienna, la sua intenzione era di offrire gli incassi del concerto a beneficio dei rifugiati ucraini in Austria. Se parliamo poi di MusicAeterna si tratta di un ensemble di musicisti di origini diverse: in maggioranza russi, ma anche georgiani, bielorussi, turchi, spagnoli, italiani, tedeschi e, naturalmente, ucraini. Fino a oggi nessuno di loro si è alzato per dire: non voglio suonare più con Teodor Currentzis. Ora, il fatto che Currentzis non si sia ancora espresso in pubblico con dichiarazioni di condanna al governo russo, si può anche interpretare con un senso di responsabilità nei confronti dei suoi musicisti, che non fanno parte di un’orchestra di Stato e quindi non possono godere di molte garanzie. Prima di puntare l’indice contro di lui, bisognerebbe anche ricordarsi che, lasciata Perm, Currentzis avrebbe scelto Parigi come sede per l’orchestra e ha anche provato a Vienna ma senza successo in entrambi i casi».
Un’altra critica mossa a Currentzis e indirettamente al Festival di Salisburgo è che uno degli sponsor principali della sua orchestra è la russa VTB Bank, finita nella lista degli istituti di credito sanzionati dai governi dell’Unione Europea. Niente da dire?
«In effetti MusicAeterna riceve un sostegno finanziario significativo da VTB Bank. Sono certo che Currentzis troverà altri finanziatori per la sua orchestra, ma non è cosa che si possa realizzare in poco tempo e sicuramente non in tempi di guerra. Detto questo, accusare il Festival di Salisburgo di essere vicino a VTB Bank o magari di contiguità con il regime putiniano è del tutto arbitrario e privo di fondamento. Lo voglio dire molto chiaramente: VTB Bank non è uno sponsor del Festival di Salisburgo».
Più in generale, come considera l’atteggiamento di alcuni suoi colleghi nei confronti di alcuni artisti russi per una loro presunta contiguità con il regime putiniano?
«Ci sono artisti la cui contiguità al sistema Putin è evidente ed è senza dubbio intollerabile. Ma ce ne sono molti altri che in questo momento vengono considerati colpevoli di una sorta di colpa collettiva. Per quanto mi riguarda, non voglio entrare in questo gioco. Credo si vada troppo oltre nel condannare persone che non possono esprimersi nel modo in cui ci si aspetta farebbero verosimilmente nei nostri contesti sociali. Per me questo è semplicemente inaccettabile. Nelle scorse settimane ho parlato a lungo con la regista teatrale Marina Davydova, con la quale abbiamo avuto un’ottima collaborazione alle Wiener Festwochen nel 2016. Marina è fuggita dal suo paese e non potrà tornarci nel prossimo futuro. A lei ho chiesto come sia la situazione degli artisti nel suo Paese e la sua risposta è stata tanto dolorosa quanto stringata: “Siamo tutti ostaggi di Putin”. Non occorre solo essere prudenti, ma anche equilibrati nei giudizi ed essere consapevoli di dove sono i limiti. Da responsabile di un’importante istituzione culturale, sono soprattutto impegnato a creare le condizioni per stabilire un dialogo dai toni civili in questo dibattito così complesso».
«Ci sono artisti la cui contiguità al sistema Putin è evidente ed è senza dubbio intollerabile. Ma ce ne sono molti altri che in questo momento vengono considerati colpevoli di una sorta di colpa collettiva. Per quanto mi riguarda, non voglio entrare in questo gioco».
Veniamo alla programmazione del prossimo festival, tornata ai grandi numeri degli anni pre-pandemia con otto produzioni operistiche e innumerevoli concerti organizzati in più rassegne oltre a un ricco programma di prosa. Esiste un filo che lega le varie proposte?
«Per restare sulle proposte operistiche, quando ho deciso di presentare per la prima volta al Festival di Salisburgo Il trittico di Giacomo Puccini, con la regia di Christof Loy e Asmik Grigorian protagonista di tutti e tre gli atti unici, ho inevitabilmente pensato a Dante e alla Divina Commedia esplicitamente citato in Gianni Schicchi. Poi è venuto il De temporum fine comoedia di Orff, un oratorio o teatro musicale o “Mysterium” o come lo si vuole chiamare, che è anche un trittico che prende molto in prestito dal poema dantesco e non solo nel titolo. Se poi guardiamo al periodo, il Trittico di Puccini è stato composto negli anni della Prima guerra mondiale, come Il castello del Duca Barbablù di Bartók mentre Káťa Kabanová di Janáček è solo di poco successiva. Tutti questi lavori rappresentano dei movimenti decisi verso la modernità accelerati dalla disgregazione del vecchio mondo».
In programma ci sono anche le riprese di due spettacoli già presentati nelle edizioni precedenti, cioè Aida nell’allestimento di Shirin Neshat del 2017 e Die Zauberflöte in quello di Lydia Steier del 2018. Come mai questa scelta piuttosto insolita a Salisburgo?
«Per diversi motivi, queste due produzioni non sono state all'altezza delle nostre aspettative. Poiché sono del tutto convinto del valore di Shirin Neshat come artista e di quanto ha da dire con la sua Aida, le ho chiesto se fosse interessata a ripensare al suo spettacolo del 2017 ma in un contesto diverso e nuovo. Non ci saranno cambiamenti fondamentali nell’idea di base, ma la sua impronta di artista sarà più riconoscibile. Quanto a Die Zauberflöte, la produzione era stata pensata in origine per la Haus für Mozart mentre poi era stata allestita nel Großes Festspielhaus per motivi diversi, decisione che non le ha giovato. Ora si torna nello spazio più intimo per la quale era stata pensata e credo che anche il pubblico apprezzerà il suo valore».
Nei suoi programmi, gli stessi team creativi tendono a tornare su progetti diversi. È un modo per realizzare più compiutamente la sua idea di festival?«»Sì, è così. Si tratta in genere di artisti che mi sono vicini e a cui sono legato, con i quali riesco a entrare in una sorta di pensiero condiviso molto particolare. Abbiamo trovato un linguaggio comune bellissimo. Per me questi scambi sono fra gli aspetti più interessanti al momento. Comunque, manca ancora qualche anno alla scadenza del mio mandato e quindi non sono escluse nuove scoperte».
Da qualche anno il Festival di Salisburgo ha programmato degli importanti lavori di restauro e di ampliamento degli spazi che ospita le attività del festival per una somma di oltre 260 milioni di euro. I lavori inizieranno nel 2025 e si prevede di completarli entro il 2030. Come sarà il festival del futuro?
«Di sicuro il festival guadagnerà molto. Il Großes Festspielhaus è stato inaugurato nel 1960 e ha urgente bisogno di restauri. È stato costruito in modo fantastico allora, ma oggi occorre intervenire presto o rischiamo di perdere le autorizzazioni per farci spettacoli. È necessario anche ammodernare l’ormai obsoleta tecnologia dei palcoscenici con una riduzione del lavoro manuale ancora necessario e soddisfare gli standard produttivi anche in futuro. Oltre alla ristrutturazione delle sale, aumenteranno anche le aree destinate alla produzione e alla logistica. La volontà è di mantenere i laboratori all’interno dell'edificio: è importante perché crea identità e consente un diverso tipo di comunità e di livello artistico. La superficie aumenterà in maniera significativa aprendo anche nuovi spazi nel Mönchsberg, dietro alle sale attualmente utilizzate. Parliamo di circa 10 mila metri quadrati in più a fine lavori. È un investimento assolutamente necessario per il futuro non soltanto del Festival ma per la cultura salisburghese nel suo complesso».