Rustioni: "Viva Stiffelio"

Il giovane direttore milanese fra il giovane Verdi e il futuro all’Opera di Lione

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Il trentaduenne Daniele Rustioni è uno dei moschettieri del podio italiani dell’ultima generazione che stanno rapidamente conquistando il pubblico internazionale. È la generazione Erasmus che si impone anche nel mondo della musica: formazione in Italia, primi passi professionali all’estero sotto l’ala di Gianandrea Noseda e Antonio Pappano prima di spiccare il volo che l’ha portato nei principali teatri lirici mondiali con ha l’aria di chi si sente a casa ovunque. Nonostante la giovane età, ha già avuto incarichi come direttore principale ospite al Teatro Mikhailovskij di San Pietroburgo, come direttore musicale al Petruzzelli di Bari e attualmente come direttore principale dell’Orchestra della Toscana a Firenze mentre l’attende il prestigioso posto di direttore musicale all’Opéra di Lione nell’autunno del 2017. Milanese, frequenta l’opera fin da bambino avendo calcato spesso la scena del Teatro alla Scala nel coro di voci bianche (è anche stato uno dei tre geni nel Flauto magico con Riccardo Muti sul podio) e ne parla con entusiasmo e competenza durante il nostro incontro nel suo camerino al Teatro La Fenice poco prima della recita di Stiffelio per una conversazione su quest’opera, sul primo Verdi non troppo amato dal pubblico, sui suoi maestri e sugli impegni che lo attendono nei prossimi mesi.

Conosceva quest’opera prima di affrontarla qui alla Fenice?
«Quando facevo parte del coro delle voci bianche del Teatro alla Scala, nel 1995 ho avuto la possibilità di seguire le prove in teatro e alcune recite dal loggione dello Stiffelio diretto da Gianandrea Gavazzeni e con protagonista José Carreras, come già nella registrazione di Gardelli degli anni ’70, la più bella in circolazione. Poi ho avuto l’occasione di vederla quando ero al Covent Garden nel 2007 ma è la prima volta che la dirigo in teatro.»

Il musicologo Giovanni Morelli, gran sostenitore del valore di quest’opera, anni fa ha scritto: “Stiffelio […] è opera tanto artisticamente degna, a dir poco, quanto sfuggita all’amore del popolo verdiano.”. È d’accordo? Cosa manca a suo avviso a Stiffelio per riuscire a godere dell’amore del popolo verdiano?
«Io considero Stiffelio la quarta opera della “tetralogia popolare”. È un’opera a sé stante nella produzione verdiana, un passo drammaturgico molto particolare. È un esperimento di teatro borghese, privo del suo momento con il pubblico come nelle altre opere verdiane. L’opera si chiama Stiffelio ma il protagonista non ha la grande aria del tenore. Stiffelio canta sempre in assieme: apre con un duetto e anche la sua cabaletta si chiude con … un terzetto! ha degli scatti d'ira che anticipano addirittura alcuni passi dell’Otello, ma si deve trattenere perché la sua condizione di pastore glielo impone. Certamente è un’opera strana per chi è abituato al Verdi tradizionale. A differenza di Traviata o Rigoletto, Stiffelio non ha una presa viscerale, dosa le emozioni. È curioso che Stiffelio sia sostanzialmente misconosciuta eppure si ponga fra due capolavori come Luisa Miller e Rigoletto. Paga probabilmente la sua originalità.»

Si tratta di debolezze di drammaturgia?
«No, interventi censori a parte, Verdi ha scelto consapevolmente un soggetto insolito, che si chiude con quell’idea di perdono che scende dal cielo con quel rassicurante do maggiore nell’intervento di chiusura del coro. Le scelte di Verdi, per quanto insolite, dimostrano una grande lucidità e un livello di elaborazione armonica molto più avanzata e ardita di opere considerate più mature come quelle della trilogia popolare o del Rigoletto che arriva immediatamente dopo: Rigoletto ruota intorno ai do ribattuti della vendetta, mentre Stiffelio ruota intorno alla tonalità di do maggiore! Gli esempi della maggiore complessità armonica nello Stiffelio sono molti: l’apertura del secondo atto con la scena di Lina nel cimitero con quel senso di morte nella tonalità di mi bemolle minore, come molto più tardi Richard Strauss, e una complessità che fa quasi pensare al Tristan, ma anche le progressioni di semitoni nella scena del duello fra Stankar e Raffaele. Stiffelio è anche ricca di colori orchestrali inediti. È anche curioso come la bistrattatissima Sinfonia, scritta in fretta e furia a ridosso della prima (per la gioia dei copisti triestini!), sia costruita sui temi dei soli cori di giubilo dell’opera, probabilmente perché Verdi aveva innestato nella sua opera temi di tristezza infinita. È certamente un caso unico nella produzione verdiana.»

Tacendo di Mila che la metteva nel Verdi “brutto”, che ne dice del giudizio di Julian Budden e Fedele D’Amico che parlavano di Stiffelio come di un semi-capolavoro?
«Ammetto che si tratti di un’opera ingrata, priva di quegli effetti capaci di conquistare il pubblico. Però è il risultato di scelte consapevoli di Verdi a cominciare dall’insolito soggetto. Quello che trovo ingiusto è mettere tutto il “primo Verdi” in un calderone, come se tutte le opere fossero uguali. Ma Nabucco, Macbeth, Ernani sono dei capolavori universalmente riconosciuti, Attila, I due Foscari e Luisa Miller forse non sono capolavori ma contengono pezzi straordinari (si pensi a cos’è il terzo atto di Luisa Miller!). E che dire dei Masnadieri? È l’opera rock del 1800 con una potenza tellurica straordinaria. Praticamente l’opposto di Stiffelio, in cui gli “allegri” o “agitati” sono pochissimi ma l’opera è tutta atmosfera.»

Insomma, il “primo Verdi” (se mi passa l’espressione) è tutto da salvare …
«Ma il “primo Verdi”, ossia quello che precede la trilogia popolare, è una miniera disseminata di idee che germineranno nella produzione più matura. Già dalle prime esperienze, Verdi è sempre una scuola di morale. La sua musica eleva ogni soggetto, sia Shakespeare o il romanzo popolare di Hugo o Gutierrez, a un livello etico superiore ed esemplare. Verdi non è mai banalmente il garibaldino, il patriota ma è molto più eterogeneo nei messaggi che veicola nelle sue opere. Verdi è molto più sottile di quanto non si pensi comunemente per quanto riguarda armonia e orchestrazione, ma anche nella costruzione ritmica e armonica dei recitativi la sua grandezza è assoluta. Fin dall’Oberto il genio di Verdi è manifesto!»

Nonostante questo suo dichiarato amore per Verdi, la sua carriera non racconta di un direttore verdiano in senso classico: il Rossini buffo è ben rappresentato così come Puccini. Che definizione darebbe di sé come direttore?
«Francamente mi infastidiscono già le distinzioni fra direttore d’opera e direttore sinfonico. Non parliamo dei sottoinsiemi! Direttore verdiano, rossiniano, pucciniano … È un feticismo che va bene a chi scrive di musica! (ride) Ciò detto, ammetto che la “tuttologia” non esiste ed credo sia giusto che ci sia un certo livello di approfondimento in certi repertori. Per quanto mi riguarda, ammetto che ho ancora un certo timore a affrontare il Rossini serio e tutto Bellini. Norma, che ho già diretto in un paio di occasioni, è molto più difficile da dirigere che il Tristan!»

Una provocazione?
«Non parlo evidentemente della dimensione tecnica che è ben più complessa, ma in un certo senso la musica di Puccini o di Wagner funziona da sola. Alcuni problemi si mascherano facilmente. Bellini invece è cristallino, è fatto di una finta semplicità che obbliga l’interprete a metterci del suo. Da questo punto stimo infinitamente il mio collega Michele Mariotti che dirige splendidamente I Puritani come le altre opere belliniane e belcantistiche. In quel repertorio il direttore è comunque soggetto al cantante: se il cantante funziona, il successo è solo suo, mentre quando va male la croce va (anche) al direttore.»

Nel 2017 lei assumerà l’incarico di direttore musicale dell’Opéra di Lione. Progetti in cantiere?
«A Lione faremo un “primo Verdi” a stagione con Ernani, Attila e I due Foscari oppure Il corsaro, ma anche Otello e Macbeth. E poi ci sarà sempre più opera francese, dopo La Juive che dirigerò nel prossimo marzo e che avrà un’interessante regia di Olivier Py.»

Le sue prime impressioni del teatro?
«Grazie alla gestione di Serge Dorny, l’Opéra di Lione ha una fisionomia importante nel panorama europeo. È un teatro molto moderno nelle proposte. Però è anche un teatro “all’antica”, nel senso che per le nuove produzioni ci sono sei settimane di prove. C’è un potenziale per realizzare grandi progetti in questo teatro.»

E fra gli altri impegni?
«Ci sarà anche spazio per il teatro tedesco: a Stoccarda dirigerò il Freischütz e Lohengrin, il mio primo Wagner, anche se il più italiano con l’Holländer. L’idea che un direttore italiano possa fare solo il repertorio italiano è falsa e non tiene conto di grandi direttori del passato come Toscanini o De Sabata, che eccelsero anche in repertori non italiani (si pensi al successo di Toscanini a Bayreuth), o in anni più recenti, Chailly, Noseda, Gatti e Luisi per citarne solo alcuni. Per me, questi sono punti di arrivo.»

Mentre fra i punti di partenza ci sono Noseda e Pappano …
«…e continuano entrambi a essere dei riferimenti fondamentali per me. Entrambi sono stati maestri “di musica” e maestri di vita. È raro trovare insieme grandezza musicale e grandezza come persona, ma sia Noseda che Pappano questa qualità sono presenti. Sono due personalità incredibili.»

Times l’ha descritta come un “rising talent” destinato a fare grandi cose. Lei è stimatissimo all’estero ma è molto presente anche in Italia, come il suo collega Michele Mariotti, che recentemente ha dichiarato che dirigere in Italia è il suo modo per servire la cultura del proprio paese. Anche per lei è così?
«Ho trascorso 15 anni al Conservatorio di Milano, la mia città, dove ho frequentato i corsi più diversi e imparato moltissimo. È evidente che provo una profonda gratitudine nei confronti del mio paese ma non posso nascondere i problemi. Purtroppo noi italiani non sappiamo “venderci” bene. Sprechiamo un sacco di potenziale: la formazione nei Conservatori funziona ma in pochi poi riescono a inserirsi nel mondo del lavoro. Questo è dovuto anche al fatto che la cultura non viene valorizzata abbastanza sia a livello "strategico" nazionale che a livello locale, con alcune scelte che penalizzano Teatri e Orchestre privandoli del loro status socio-culturale e mettendo costantemente a repentaglio la loro sopravvivenza. Eppure grazie al nostro potenziale continuiamo a venire apprezzati e a trasmettere valori musicali assoluti anche in quei paesi che sono riusciti a mantenere negli ultimi anni una “civiltà musicale” più avanzata nonostante la loro debolezza sul piano della formazione e tradizione.»

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