Quella di Roberto Bonati è una figura originale e multiforme nel mondo jazz italiano. Contrabbassista e compositore (attivo sin dagli anni Ottanta, lo ricordiamo allora nel quartetto di Gaslini), ma anche direttore di un Festival come ParmaJazz Frontiere, Bonati si affaccia su molti mondi, quelli del jazz e della musica europea, ma anche quelli legati alla letteratura e alle altre arti, in una sorta di continuo e fecondo scambio tra visioni e linguaggi.
– Leggi anche: ParmaJazz Frontiere tra sacro e profano
In occasione del venticinquesimo compleanno del Festival, ma anche e soprattutto per raccontare le tante sfaccettature di questo suo approccio, lo abbiamo incontrato per una lunga e interessante chiacchierata.
Parliamo della Chironomic Orchestra, con cui hai inciso pubblicato due lavori recentemente, il dvd Il suono improvviso e il cd Whirling Leaves. L’uso delle mani per dirigere ha trovato nel mondo espressivo della musica afroamericana molte declinazioni, tra cui la conduction teorizzata da Butch Morris. Tu come lavori a questo progetto?
«L’uso delle mani per dirigere e suggerire ha un’origine molto antica, fin dal IV millennio a.C. gli antichi egizi usavano gesti delle mani per dirigere i cantori e i neumi gregoriani nascono dai primi segni che erano una traduzione dei gesti di un direttore. Per questo ho voluto chiamare il mio linguaggio gestuale “Improvised Chironomy”. Ho sempre considerato l’improvvisazione una forma di composizione istantanea, una composizione che, come un mandala, nasce, vive e muore nel momento, in una costruzione formale compiuta che si realizza nel rapporto tra il direttore e i musicisti».
«È per me molto importante che si stabilisca, attraverso una profonda e rilassata attenzione, un flusso di energia tra i musicisti, un alto livello di ascolto reciproco e di attenzione al gesto. E questo è il lavoro delle prove che servono a mettere in campo le possibilità dell’ensemble in relazione alla mia visione musicale e a esplorare espressioni e forme differenti, raccogliendo le esperienze musicali e improvvisative dei musicisti, individuando possibili percorsi che potranno essere o non essere utilizzati durante il concerto ma che servono a stabilire una conoscenza reciproca».
Quale idea pensi possa veicolare questa tua pratica?
«Il mio obiettivo, come direttore/compositore, in questo campo è di riuscire a creare, in tempo reale, una musica che esprima, attraverso i miei gesti e il suono e le proposte dell’ensemble, una visione musicale che mi rappresenti. Improvvisare è per me un atto compositivo, ci sono cose che voglio utilizzare e altre che non mi appartengono. Questo non vuol dire che le cose sono prestabilite, tutt’altro, si accoglie sempre una sorta di rivelazione. Ho una concezione della composizione come atto performativo comunque, anche quando scrivo a tavolino con matita e gomma, l’importante è “stare nella musica, abitare la musica”. È l’aspetto magico, misterioso, primitivo, tribale della musica che mi interessa e la sua vocazione espressiva, comunicativa. Si creano dei suoni ma si crea prima ancora uno spazio, una intensità, un momento rituale».
«Improvvisare è per me un atto compositivo, ci sono cose che voglio utilizzare e altre che non mi appartengono».
«La Chironomic Orchestra è formata da musicisti che provengono da esperienze musicali diverse, jazz, musica barocca, rock, musica contemporanea e questa pluralità di linguaggi è molto fertile, si uniscono differenti tradizioni, i molteplici linguaggi della contemporaneità. L’ensemble si riunisce in occasione degli appuntamenti concertistici per una serie di momenti di improvvisazione, di scambio di possibilità. Ho un vocabolario gestuale in gran parte originale con alcune idee prese da Butch Morris e qualcuna da Walter Thompson. Ogni volta si aggiunge un gesto ma succede spesso che io improvvisi i gesti durante il concerto perché nasce una cosa nuova o perché quello che potrebbe essere una deviazione catastrofica riesce a diventare uno dei momenti migliori del concerto. È sempre una grande meraviglia assistere ed ascoltare il farsi della musica».
La tua ormai lunga esperienza come formatore e con ensemble e orchestre di allievi ha contribuito a far crescere molti nuovi talenti. Cosa manca secondo te al “sistema” jazz attuale per far sì che questi giovani musicisti e musiciste possano trovare una collocazione più incisiva?
«Il discorso è complesso. Probabilmente manca quello che manca in generale per molti musicisti. La scena è difficile per molti. Ci sono più soldi oggi di quanti ce ne fossero trent'anni fa ma questo ha anche fatto sì che si sia creata una forma di mercato e il mercato ha bisogno di prodotti che devono essere riconoscibili, ripetibili e di facile comprensione, cosa che non sempre riesce a convivere con una compiuta realizzazione artistica. C’è anche un problema di programmazioni che sono spesso molto simili e, in gran parte, privilegiano nomi sicuri. A Bollani in una intervista di qualche anno fa chiesero come fosse lo stato del jazz in Italia e lui intelligentemente rispose (cito a braccio) "bene per me e alcuni altri, ma forse non è così per tutti". Allora gli interrogativi da porsi potrebbero essere: Cosa vuol dire fare un festival oggi, cosa significa fare una direzione artistica, cosa è un festival, quali sono le responsabilità?»
E che risposte dai a queste domande?
«Trovo che in molti casi manchi una visione, il senso del rischio (e l’arte vive del rischio), la frontiera delle nuove produzioni. Penso che un festival dovrebbe essere sinonimo di ricerca e presentare, favorire e commissionare nuove produzioni, residenze, restituire il più possibile lo stato dell’arte».
«Penso che un festival dovrebbe essere sinonimo di ricerca e presentare, favorire e commissionare nuove produzioni, residenze, restituire il più possibile lo stato dell’arte».
«La creazione di un mercato ha sempre un riflesso nella produzione artistica, in generale il consenso aumenta con la semplificazione del linguaggio e quindi da molti anni abbiamo assistito alla formazione di repertori sempre più ammiccanti. Il jazz da sempre vive un suo percorso che si sviluppa in una dialettica tra una complessità di linguaggio (uso questo termine per non dire “musica colta”) e musica popolare. E questo stare nel mezzo, se le cose sono in equilibrio coincide con la sua natura, ma negli ultimi venti anni la deriva verso l’intrattenimento è stata molto forte. Ovviamente si tratta spesso di intrattenimento di lusso, con meravigliosi musicisti che fanno quello che ritengono giusto fare rispetto alla loro natura. Il problema non è dei musicisti il problema è delle organizzazioni e delle direzioni artistiche che spesso privilegiano un tutto esaurito al rischio di commissionare nuova musica o all’invitare giovani musicisti meno conosciuti».
Eh, come li vedi questi “giovani”?
«Vedo alcuni interessanti talenti che si muovono in un ambito di ricerca e che propongono musica fresca e originale ma, in molti altri casi, vedo, unita a un'ottima preparazione e a una notevole abilità strumentale la mancanza di una reale e sincera “necessità espressiva” e una certa accademia, a volte una accademia dei linguaggi più tradizionali altre volte una accademia della “nuova musica”. Questa è una riflessione che coinvolge le scuole che, se svolgono sempre un ruolo di divulgazione non sempre favoriscono un percorso creativo volto a sviluppare una propria voce. Mi pare che il “sistema jazz” vada nella positiva direzione di favorire i giovani musicisti, i bandi ministeriali sono per la maggior parte “under 35” e spero che questa tendenza aiuti a creare una reale intenzione di investire nei giovani al di là dei contributi derivati dai bandi. Devo anche dire che con il premio Gaslini, per il quale sono in commissione insieme a Franco D’Andrea e Bruno Tommaso, ci siamo trovati ad alzare il limite di età che avevamo inizialmente posto a trent'anni perché abbiamo trovato più spesso musicisti interessanti in una fascia di età superiore e anche adesso ci capita di ascoltare qualche talento molto interessante per scoprire subito dopo che ha superato il limite di età dei 35 anni. La maturazione di un musicista può essere, in alcuni casi, bruciante ma più spesso richiede tempo soprattutto per una completezza sia performativa che progettuale/compositiva».
Nel disco Vesper And Silence ti dedichi al solo. Cosa significa per te, che hai per la costruzione di comunità, per il fare musica assieme, una speciale attenzione, trovarsi soli con il proprio strumento?
«Suonare in solo è per me un'esperienza molto importante e profonda. È un mettersi a nudo, una possibilità di dialogare con se stessi, anche di ri-scoprire aspetti di noi stessi. Un entrare in contatto con lo strumento, con gli altri e con il silenzio della sala molto speciale. E’ un momento molto impegnativo che mi ha richiesto tempo: il mio primo concerto in solo lo feci nel 1997 e ho pubblicato Vesper and Silence solo nel 2019».
Hai raccontato spesso che il tuo amore per il contrabbasso è nato dall’ascolto di “India” di John Coltrane con i due contrabbassi di Reggie Workman e Jimmy Garrison. Quali sono stati e sono i tuoi principali riferimenti strumentistici oltre a loro e perchè?
«I riferimenti sono tanti. Il primo è stato Mingus poi sono stati importanti Miroslav Vitous, Scott Faro, Gary Peacock, il giovane Dave Holland e poi Barry Guy e Barre Phillips».
Dal punto di vista espressivo la tua musica fa costante riferimento sia all’universo jazz che a quello della composizione contemporanea. In quali aspetti credi che questi due linguaggi possano ancora scoprire dei terreni comuni?
«Io credo che ci sia una musica che oggi è suonata da musicisti che hanno avuto una esperienza importante nel linguaggio del jazz, nell’idea della musica che risiede nel jazz e hanno anche assorbito altre tradizioni, quella della musica europea, a volte delle musiche classiche o popolari extra-europee. Questa musica forse non è jazz e darle un'etichetta non mi interessa, è una musica che non ci sarebbe se chi la fa non fosse passato attraverso il jazz e non avesse vissuto a contatto con i linguaggi del jazz».
«Pensare il jazz come un linguaggio e non come uno stile».
«C’è un modo di pensare la musica che è proprio del jazz, della musica popolare di cui il jazz in qualche modo è parte e questa è una cosa importante, al di là degli stili del jazz. Pensare il jazz come un linguaggio e non come uno stile. Da un punto di vista tecnico, forse l’aspetto ritmico – non tanto per la complessità quanto per la particolare sensibilità ritmica del jazz, per quella speciale flessibilità sul tempo – e l’aspetto formale – la capacità di concepire un pensiero formale più esteso – credo siano terreni ancora interessanti. Una fertile possibilità di incontro e di lavoro comune sarà attraverso l’improvvisazione».
Il Festival che dirigi, ParmaJazz Frontiere compie 25 anni proprio nell’anno più difficile. Lungo tutto ottobre e novembre state presentando un programma comunque ricco e stimolante. Come hai affrontato questa situazione inedita e quale bilancio – seppur sintetico – puoi tracciare di questo primo quarto di secolo di Festival?
«Non solo il festival compie 25 anni ma è anche l’anno di Parma Capitale Italiana della Cultura, titolo che fortunatamente è stato prorogato anche al prossimo anno e potremo così mettere in campo alcune produzioni che erano previste per quest’anno».
«Dopo il lockdown c’era un grande desiderio di ripartire e appena è stato possibile abbiamo organizzato una rassegna estiva come anticipazione del festival in collaborazione con la Casa della Musica. C’era e c’è tuttora una grande incertezza ma per il momento, seppur con tutte le problematiche organizzative dovute alla pandemia, il festival è partito molto bene con due concerti al Teatro Farnese, uno dei più bei posti al mondo, e proseguirà alla Casa della Musica, al Teatro Regio e all’Ape Museo. Sono contento di questo anniversario, sono stati anni impegnativi, a volte difficili, sempre appassionati. Sono felice di avere tenuto fede a quelli che sono stati i presupposti delle origini, creare un festival di “frontiera” basato sulla triade produzione-formazione e ospitalità, favorendo gli incontri tra artisti di diversa provenienza e mettendo spesso a confronto diversi linguaggi artistici, la danza, il teatro, la fotografia, il cinema, la pittura, la poesia. La creazione della ParmaFrontiere Orchestra, il coinvolgimento dei giovani in molti ensemble orchestrali, il progetto European Academy Ensemble attivo da molti anni e l'attuale partecipazione a “The Jazz Workshop”, un progetto di Strategic Partnership finanziato per tre anni all’interno del programma Erasmus, insieme all’Accademia di Oslo, le Hochschule di Norimberga e di Amburgo, il Royal Conservatoire of Scotland di Glasgow sono solo alcuni dei momenti significativi nella storia del festival. In questi anni abbiamo organizzato 300 concerti ed ospitato 600 artisti da Europa, Stati Uniti, Tunisia, Turchia, Armenia, Russia ma questo anniversario vuole essere solo un punto di un percorso verso il futuro soprattutto in questa situazione».
Sei un frequentatore, sia come musicista che come direttore artistico, dei linguaggi del jazz europeo. Quali sono secondo te gli artisti e le tendenze recenti che maggiormente stanno raccogliendo e rinnovando la tradizione della grande improvvisazione europea dell’ultima parte del Novecento?
«Ci sono alcuni musicisti interessanti come Arve Henriksen, Elias Stemeseder, Tania Giannouli, Ruben Machtelinckx, Bram de Looze, Stian Westerhus, Indrė Jurgelevičiūtė con Bert Cools, tra gli italiani Marco Colonna – fantastico il suo solo – e tra i giovani Andrea Grossi col suo recente lavoro orchestrale e Luca Perciballi col suo lavoro in solo».
Cosa ascolta Roberto Bonati in queste settimane?
«In questi ultimi mesi sono stato molto impegnato nella composizione dello Stabat Mater che abbiamo presentato con la ParmaFrontiere Orchestra al festival la scorsa settimana e non ho ascoltato null’altro. Nelle pause del lavoro adoro stare nel silenzio».
Progetti futuri con l’incertezza di questi mesi non è facile farne, ma cosa bolle in pentola?
«Ho un disco in duo con il sassofonista Tor Yttredal che è in fase di missaggio. Voglio pubblicare lo Stabat Mater e registrare con il mio Nuit Quartet (Gabriele Fava, Luca Perciballi e Tony Moreno) col quale stavamo per andare in studio nello scorso mese di marzo ma, causa Covid, date e registrazione sono state spostate a quando sarà possibile. Un altro progetto che desidero completare e pubblicare è il duo con Roberto Dani».
«Dalla città di Worms in occasione della mostra sulla libertà di pensiero e di parola all’interno delle celebrazioni per il centenario di Lutero ho ricevuto poi una commissione per un nuovo lavoro, Il Rogo della Fenice, a musical reflection on conscience and freedom of speech con voce recitante su testi di Giordano Bruno, Paul Celan, Nazim Hikmet, Andrej Tarkovsky, Pavel Florenskij che presenterò all’inizio di luglio del prossimo anno. Mentre per Parma 2020-2021 sto preparando, con la ParmaFrontiere Orchestra e con alcuni giovani musicisti provenienti da accademie europee La Fòla de l’oca, Over Time, un lavoro sul Tempo con testi di Leonardo da Vinci, Anassimandro, Qohelet, Agostino, Shakespeare, Orazio, Seneca, T.S. Eliot».
Un sogno (artistico) nel cassetto, ma teoricamente realizzabile?
«Mi piacerebbe avere occasioni per scrivere ancora per orchestra sinfonica e vorrei poter avere un lavoro continuativo dirigendo un'orchestra di archi».