Ricordando Abbado

A poco più di un mese dalla scomparsa di Claudio Abbado, il ricordo che Maurizio Giani ha scritto per il nostro numero di febbraio

Articolo
classica


Non è facile dar forma ai sentimenti e ai pensieri che mi si affollavano alla mente nelle ore tristi, mentre qui a Bologna migliaia di persone sfilavano in Santo Stefano per l'estremo omaggio allo scomparso. Dire che Claudio Abbado sia stato un grandissimo direttore d'orchestra, benché si tratti della pura verità, appare riduttivo; si dovrebbe puntare, piuttosto, a cogliere la sua diversità, il luogo a parte che occupa nella storia dell'interpretazione musicale, e non solo per il livello incomparabile delle sue esecuzioni. C'era in lui qualcosa della saggezza di un umanista, che lo rendeva non dissimile almeno sotto questo profilo da Bruno Walter, cui lo apparentava anche l'amore per Mozart e Mahler, da entrambi ricondotti - non c'è quasi bisogno di aggiungerlo - in tempi diversi e in modi diversi alla miglior lezione. E se dovessi sintetizzare in una formula l'immagine dell'uomo semplice e affabile, capace però di una incrollabile determinazione nell'ideare e realizzare progetti grandiosi, mi verrebbe da dire che Abbado sia stato un "tiranno gentile", ma affrettandomi a precisare che il termine dev'essere inteso nel senso originario, oggi caduto nell'oblio, del greco tyrannos, che nell'Ellade antica designava quei sovrani che furono in grado di legittimare il proprio potere facendosi interpreti degli interessi di nuove classi e favorendo lo sviluppo civile delle poleis. Non è infatti possibile separare in lui la figura del musicista da quella dell'organizzatore infaticabile e dell'artista impegnato in benemerite iniziative umanitarie, a cominciare dal suo coinvolgimento nel progetto "El Sistema", ideato in Venezuela da José Antonio Abreu per salvare la gioventù dalla criminalità, dalla prostituzione e dalla droga attraverso la musica. A cavallo tra i due secoli, giunto ad una maturità piena e sofferta, Abbado è stato un grande educatore ed edificatore di orchestre, grazie a un'opera che ha lasciato un segno indelebile nei Berliner Philharmoniker ed è culminata nella fondazione della Lucerne Festival Orchestra e dell'Orchestra Mozart, gli strumenti con cui ha dispensato nell'ultimo decennio di vita i tesori della sua prodigiosa vecchiaia. Giunto sul podio berlinese, chiunque si sarebbe appagato di quel suono mirabile, costruito da Karajan sull'eredità di Furtwängler; Abbado osò l'inosabile: ricominciare da capo, imporre nell'ammiraglia delle sale da concerto europee una nuova cultura sonora, proiettata nel futuro - un futuro che nello scorrere del tempo oggi è in parte già passato, già patrimonio della memoria storica -, in grado di aprirsi alle esperienze contemporanee, e capace addirittura di accogliere con pari autorevolezza i principi della prassi esecutiva.

Nell'apertura di Abbado verso il mondo e verso le giovani generazioni, nella sua volontà di essere non già migliore del proprio tempo, ma al contrario di vivere il proprio tempo nel modo migliore, mi pare risiedere la cifra stessa della sua natura di artista: l'ambizione a conquistare una oggettività di ordine superiore, come a voler porre l'opera eseguita al riparo da ogni arbitrio, in modo da consentire all'ascoltatore di contemplarla per così dire in presa diretta. Il fattore della soggettività, così presente e palpitante in Leonard Bernstein e in Carlos Kleiber, non aveva spazio mentre Abbado dirigeva; e non si tratta solo degli esiti della sua stagione estrema: ascoltati sotto la sua bacchetta tra gli anni Sessanta e Settanta, e con le orchestre più diverse, Brahms e Mahler, Ravel e Prokof'ev apparivano tali da non poter essere immaginati diversamente, ma senza che ciò fosse dovuto a soluzioni specifiche particolarmente "originali": era l'insieme, la totalità, a contare, non l'emergere dei singoli dettagli. A ciò contribuiva il suo stile casto e mai ostentato nel fraseggio, il rubato elargito con parsimonia, tanto vicino al mondo poetico dell'amico Maurizio Pollini. E come nelle esecuzioni di Pollini, il miracolo nasceva dal fatto che questa sobrietà, questa riservatezza permettevano di liberare energie enormi, grazie anche al contributo di masse orchestrali disciplinate come non mai. Di qui la difficoltà di restituire a parole l'immagine complessiva delle sue esecuzioni: frutto di uno studio così attento e sottile delle partiture da consentire ad Abbado di individuare nuove articolazioni del melos e di proporne una veste sonora di soggiogante coerenza anche quando l'ascoltatore sentiva di non poter condividere le sue scelte. Certo era guidato in ciò dal suo spontaneo, profondo interesse per la musica nuova e nuovissima, dall'occhio aduso a leggere con lucidità ingegneristica partiture di somma complessità; ma l'ideale di "scomparire" dietro l'opera, che sembrava rimandare, più che a Toscanini, al modello del mai troppo rimpianto Guido Cantelli, non ha mai comportato in lui il culto del mero meccanismo, il compiacimento per l'organizzazione diabolicamente precisa della macchina sonora. Tant'è vero che della sua tecnica scaltritissima (dissimulata in quel modo di tenere la bacchetta con una delicatezza quasi inconcepibile) neppure ci si accorgeva durante l'ascolto, tanto l'attenzione era assorbita dal discorso musicale in sé e per sé.

Ma a differenza dell'oggettivismo di Cantelli, quello di Abbado si inscrive in una costellazione storico-culturale completamente diversa, che proprio a partire dal tardo Novecento pare confrontarsi con l'idea stessa di una possibile fine dell'era dell'interpretazione. Non altrimenti si spiega, credo, la svolta "filologica" che caratterizza l'integrale sinfonica beethoveniana, in disco e nelle esecuzioni berlinesi e romane intorno al Duemila. Abbado deve aver avvertito l'impossibilità di recuperare la lezione di Furtwängler e Bruno Walter, ancora aleggiante nelle sue letture con i Wiener Philharmoniker; deve aver intuito che l'unico modo per rendere ancora Beethoven un nostro contemporaneo, per "salvarne" l'immagine in un mondo dominato dalla tecnica consisteva nell'accostarsi alla sua musica congedandosi dalla tradizione, ma anche evitando di sposare l'integralismo a senso unico dei paladini della Aufführungspraxis. Sì che gli aspetti discutibili di queste riproposte, per molti versi sbalorditive, apparivano riscattati dal nitore di un approccio che nello svuotare il suono di ogni turgore restituiva, per così dire attraverso un'operazione di straniamento, solo l'inattaccabile perfezione formale delle sinfonie, invitando a coglierne in trasparenza l'ordito quale unica cifra della loro verità. È quanto si è potuto avvertire anche nella Pastorale bolognese dello scorso dicembre, che la recrudescenza della malattia non gli ha purtroppo permesso di dirigere; a salvare il concerto era accorso Bernard Haitink, ma tutti, credo, sentimmo che quella che gli strumentisti della Mozart stavano suonando sotto la sua guida discreta era l'interpretazione del loro Maestro: vale a dire la Pastorale più cameristica, fragrante e luminosa che si possa immaginare, in un amalgama incomparabile di eleganza e suprema compostezza che rimandava direttamente alle indimenticabili esecuzioni mozartiane di altre serate bolognesi, per fortuna conservate in preziose registrazioni.

Se dovessi, in conclusione, riassumere in un solo esempio ciò che l'arte di Abbado abbia rappresentato nella mia carriera di ascoltatore, non avrei dubbi nel citare la sua esecuzione fiorentina della Terza Sinfonia di Mahler, avvenuta nella primavera del 1978. Aizzata allo spasimo, pur con qualche incidente l'Orchestra del Maggio diede una prova commovente di dedizione e impegno; ma fu soprattutto nell'Adagio finale che Abbado mostrò la profondità della sua visione del compositore boemo. Nel suono teso, carico di fervore sin dalle battute iniziali, si poteva percepire il fondo oscuro della musa mahleriana, e finalmente toccar con mano il senso di una disperata ricerca di certezze sentimentali mai così sconvolgente, e tale da non consentire alcuna trasfigurazione: nonostante l'impressionante pedale di tonica al termine della Sinfonia, che con il suo riverbero organistico sarebbe bastato da solo a dare la misura di un magistero direttoriale impareggiabile. Dopo una simile rivelazione, ritornare alla gigantesca composizione divenne arduo per chi scrive, come se quell'esperienza ne avesse esaurito una volta per tutte la carica espressiva e ogni nuovo ascolto non ne offrisse ormai più che un riflesso sbiadito; e nel momento del commiato c'è qualcosa di dolce nel ripensare con gratitudine a quel dono di dolorosa bellezza.

(articolo pubblicato su "il giornale della musica" 311, febbraio 2014)

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