Pizzi: da Respighi a Puccini

Intervista a Pier Luigi Pizzi alla vigilia del nuovo allestimento di Maria Egiziaca di Ottorino Respighi a Venezia e del progetto al prossimo Festival Puccini di Torre del Lago per il centenario della morte del compositore

Pier Luigi Pizzi (Foto Michele Crosera)
Pier Luigi Pizzi (Foto Michele Crosera)
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Un piccolo scambio di messaggi un mese prima, la richiesta di un incontro e il gentile rifiuto con l’invito a risentirci più in là: “Sono in totale immersione nella musica di Respighi. Non è un vero melodramma. Non succede niente. Mi piacerebbe parlarne con lei ma dobbiamo aspettare che inizino le prove e possa aver verificato se il progetto che ho in mente funziona.”

Infaticabile, Pier Luigi Pizzi alla soglia dei 94 anni non dà segni di stanchezza nemmeno nell’ispirazione. Da diverse settimane è al lavoro sulla sua nuova produzione lirica, Maria Egiziaca di Ottorino Respighi, il cui debutto è in programma l’8 marzo al Teatro Malibran di Venezia per la stagione della Fondazione del Teatro La Fenice. Opera di rarissima esecuzione, fu definita dal suo autore “un’opera da concerto”, che proprio a Venezia nel 1932 ha trovato la sua prima versione scenica al Teatro Goldoni, solo qualche mese dopo la prima assoluta in concerto alla Carnegie Hall di New York sotto la direzione di Tullio Serafin.

Poi finalmente il lavoro decolla e arriva l’invito da Pizzi a incontrarci nella sua dimora veneziana per parlare di questa sua nuova impresa ma anche del ciclo pucciniano del centenario che lo attende in estate a Torre del Lago e di altri progetti importanti nel suo futuro che non prevede soste.

Allora, tutti risolti i problemi con questa Maria Egiziaca?

Sono partito con qualche difficoltà a entrare nel vivo della questione, ma quando mi impegno su un progetto cerco di portarlo alla sua conclusione. Il margine al mio lavoro di regista è minimo. Il libretto è scarno, col disagio di un linguaggio arcaico e soi disant poetico, certo in omaggio a D’Annunzio, che però aveva altre ali e volava alto. Ho cercato di alleggerire la scrittura da tanti vocaboli desueti, talvolta incomprensibili, rendendoli parlabili”. Ho dovuto trovare delle risorse visive per rimpolpare la scheletrica drammaturgia.

Come ha accolto la proposta di mettere in scena quest'opera nella stagione della Fenice?

L'ho considerato un cadeau empoisonné del sovrintendente Fortunato Ortombina! (ride) Ma siccome a lui piaceva, ho voluto capire perché: amo le sfide e ho ascoltato l’opera più volte. Non tanto per quello che proponeva il libretto, ma attraverso le suggestioni che mi arrivano dalla musica, per me sempre il punto di partenza, mi sono convinto ad accettare.

Quali sfide ha dovuto affrontare in questo lavoro?

Si tratta di un trittico, tre episodi piuttosto brevi collegati da due lunghi interludi. La musica protagonista assoluta, certamente coinvolgente, lascia larghi spazi all’immaginazione, per inventare azioni, che il libretto non suggerisce. Nel primo interludio c'è l'idea di un viaggio iniziatico: Maria deve andare in Terra Santa per avere la rivelazione. L'avrà quando al tempio vedrà la croce e avverrà l’epifania che le cambierà la vita. Poi c’è la solitudine di questa donna, che ha rinunciato alla vita secolare per espiare. Mi sono inventato accadimenti soprannaturali, che Maria vive con emozione nel suo lungo percorso di penitenza, fino al momento fatale in cui arriverà al fiume Giordano, dove si laverà da tutti i peccati. Infine l’incontro con l’eremita Zosimo, anche lui arrivato alla fine della sua esperienza terrena, nelle cui braccia si addormenta pacificata.

È intervenuto apportando modifiche o adattando il materiale originale?

Su mia richiesta, col Maestro Benzi abbiamo un po’ aggiustato il cast. Siccome libretto e partitura prevedono che due ruoli di marinai siano sostenuti da soprano e mezzosoprano, per una irrinunciabile credibilità, non lo potevo accettare. Il compositore precisa che si tratta di un “trittico per concerto” e in tal caso può funzionare. Nella forma scenica quei due ruoli saranno sostenuti da tenori, a rendere più logico il rapporto con Maria.

Che idea si è fatto del personaggio di Maria?

La sua prorompente fisicità ne ha fatto una prostituta, sui generis, perché talvolta non si faceva nemmeno pagare. Maria è una creatura innocente, mossa dal naturale bisogno di comunicare, di trasmettere la propria energia attraverso il sesso. Nel suo percorso esistenziale il suo incontro con la Croce, si risolve in un atto sessuale. C'è in lei una passione carica di erotismo, condizione che, appartiene ad altre sante, come Teresa d'Avila. Anche nel suo commiato dalla vita, abbandonandosi fra le braccia dell’eremita Zosimo c'è una forma di erotismo spirituale, nell’offerta del proprio corpo, consunto da quarant'anni di digiuni nel deserto.
Musicalmente, il ruolo di Maria è ben costruito e dà all'interprete, che al Malibran sarà Francesca Dotto, buone occasioni di mettere in risalto le proprie eccellenti doti virtuosistiche.

Mentre parla di Maria Egiziaca, mi viene in mente un altro suo spettacolo al Teatro Malibran di qualche stagione fa: Thaïs  di Jules Massenet. Ci vede dei punti di contatto?

Certo! Ci sono stretti legami. Partono entrambe da Alessandria d’Egitto. “Alexandrie!” come canta il cenobita Athanaël … però Thaïs offre materiale più stimolante ad un regista.

Respighi definì questo suo lavoro «opera con pochissimi personaggi, e per scena un vero trittico». Per il suo progetto scenico al Malibran si è in qualche modo ispirato al suggerimento di Respighi?

Francamente ho cercato di accantonare il tono medievale. Funzionava bene all’epoca di Respighi, che lo definì “trittico” riferendolo alla pittura di moda in quel momento: una moda lanciata da D'Annunzio e portata avanti da Sem Benelli e Gioacchino Forzano. Per le immagini in un primo tempo ho trovato ispirazione nel mondo pittorico surrealista di Fabrizio Clerici, che frequentavo durante i miei anni romani. Ma tra i tanti segni che Clerici mi suggeriva, come l’allusione all’eternità dei suoi riferimenti all’Egitto, era assente la Croce. Questo mi ha portato a Thaïs e ad un mio nuovo percorso figurativo.

Dopo questa Maria Egiziaca ha chiuso con Respighi?

Non metto limiti. A parte l'impazienza di affrontare nuove sfide, che mi caratterizza, c’è la curiosità. Intanto vediamo come Maria Egiziaca sarà recepita, cosa avrà significato questa nostra impresa. Di Respighi conoscevo solo i celebri poemi sinfonici, non le sue opere più note come La campana sommersa o La fiamma.

Prove di Maria Egiziaca ( Foto Roberto Moro)

Prove di Maria Egiziaca ( Foto Roberto Moro)

 

In generale, nel suo lavoro lei ha affrontato soprattutto opere del periodo barocco fino al grande melodramma ottocentesco: il Novecento le interessa?

Moltissimo, ma è vero che ci sono arrivato tardi. Soprattutto Britten, poi Korngold, del quale proprio a Venezia ho messo in scena Die tote Stadt  e Violanta  a Torino, Hindemith con Neues vom Tage  a Ancona. E ancora Henze con l’Elegia dei giovani amanti , Adès con Powder her face, Marco Tutino con Le bel indifferent , su mia richiesta quand’ero direttore artistico al Festival di Macerata. Per non citare Puccini, che merita l’impegno grande del prossimo festival del centenario a Torre del Lago.

A proposito, cosa bolle in pentola per la prossima estate?

Ci sto lavorando da diversi mesi, il programma è fatto e i cast sono chiusi. Mi arrivano buone notizie. I dati delle prevendite sono molto più che incoraggianti.

Come ha concepito il programma?

Il progetto rappresenta la crescita artistica di Puccini, cominciando dalle sue primissime opere: la versione in un atto di Le Willis (e non la successiva i due atti Le Villi), che si presenta con la versione dell’Edgar in quattro atti, con gli stessi tagli che fece Puccini quando rielaborò l'opera riducendola in tre atti. Tagliò brutalmente il quarto atto, dove invece c’è in embrione il grande compositore delle opere future. Seguiranno Manon Lescaut, Bohème, Tosca e in chiusura Turandot, nella versione lasciata incompiuta da Puccini.

Curerà lei tutte le regie?

No, impossibile, ma da subito l’ho concepito come un progetto unico con un dispositivo base comune e in aggiunta un elemento peculiare per caratterizzare ogni opera. Io curerò le regie del dittico Les Willis e Edgar, di Tosca, in una diversa visione rispetto a quella di due anni fa, e Turandot, in una nuova produzione. Gli altri due titoli saranno curati da Massimo Gasparon, al mio fianco da trent’anni e l’unico in grado di innestarsi sulla stessa base comune, trovata in perfetto accordo, con sue idee personali. Massimo farà Bohème e Manon, in coproduzione con importanti teatri. Per la prima volta a Torre del Lago ci sarà un LED-Wall, che permette di variare le immagini. Al centro dello spazio scenico una grande piattaforma girevole consente rapidi cambi di scena e una maggiore agilità, indispensabile nel passaggio da uno spettacolo all’altro in sede di programmazione.

Nella sua recente autobiografia Non si può mai stare tranquilli lei racconta del recupero di Villa Grimani nei pressi di Rovigo, che “potrebbe diventare un centro di studi con un orientamento specifico al Teatro e in particolare alla Scenografia, ma anche sede di eventi e manifestazioni culturali.” Solo un’idea o un progetto concreto?

Le Barchesse Grimani di Concadirame sono una scoperta di Massimo, deciso a salvare dalla rovina un importante edificio del sedicesimo secolo firmato da Michele Sammicheli. Con grande pazienza è riuscito ad acquisire tutte le parti nelle mani di diversi proprietari reticenti. A quel punto si sono messe in sicurezza le parti più fatiscenti affidando il restauro del corpo principale a una impresa specializzata nel recupero di ville venete. Ritrovata l’antica dignità, questa nobile fabbrica aspetta una destinazione. Idealmente potrebbe diventare un centro studi di teatro, magari in accordo con qualche università. Ma per questo occorrerebbe intervenire sulle barchesse che potrebbero diventare delle foresterie per studenti, impresa che richiede molte risorse. Per ora nei grandi spazi della villa abbiamo cominciato a raccogliere elementi scenografici di nostri spettacoli, soprattutto sculture, chiedendoli ai vari teatri dov’erano in deposito. Si va dagli altari barocchi della Passione secondo Giovanni di Bach nata alla Fenice, alla scenografia metafisica del recente spettacolo di prosa Pour un oui, ou pour un non di Nathalie Sarraute per Orsini e Branciaroli.  Su questa base si può immaginare una scuola di teatro con particolare riferimento alla scenografia. In prospettiva c’è tutta una serie di idee, di eventi culturali. La volontà c'è e anche la passione. Bisogna anche trovare il tempo.

Ma non si è ancora stufato di fare teatro?

Ma no! Perché dovrei?

Perché dopo quasi 75 anni di attività magari può capitare. Dove trova l’energia per continuare?

Sono convinto per esperienza che l'energia si produce operando. Stare a casa propria aspettando che l'energia creativa piova dal cielo, è inutile attesa. Allora diamoci da fare!

 

 

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