«Il nostro mondo è quello dello spettacolo dal vivo e quindi l'imprevisto è sempre dietro l’angolo. Ma questa è una dimensione di incertezza totale, su tutto, su quando e su come. Abbiamo davanti delle domande alle quali cerchiamo di dare delle risposte, ci ingegniamo per dare delle risposte ma molte non le possiamo dare neanche dare noi. Questa incertezza è la cosa più terribile con la quale ci stiamo confrontando da quando è iniziata la pandemia»: la situazione è complessa e offre pochissime certezze ma Francesco Giambrone, sovrintendente del Teatro Massimo di Palermo, non è uomo da scoraggiarsi, forse perché a Palermo, come annotava Wagner, «c’è soltanto primavera ed estate».
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Con i colleghi dell’ANFOLS, l’associazione delle Fondazioni lirico-sinfoniche di cui è presidente, sta riflettendo su come prepararsi nel modo migliore alla riapertura, anche se l’orizzonte temporale è tutt’altro che chiaro e la politica non sembra avere i teatri fra le sue priorità. Per parlare degli scenari che si preparano ma anche di cosa vuol dire guidare un teatro lirico in una città per molti versi di frontiera come Palermo, abbiamo raggiunto Francesco Giambrone nella sua casa di Palermo via Skype come ormai usa in questi tempi di pandemia.
Francesco Giambrone, come vive questa condizione di lontananza dal suo Teatro Massimo?
«Come si può vivere in una emergenza in cui domina soprattutto l'incertezza, che è forse la condizione più terribile con cui ci dobbiamo confrontare tutti quanti. Incertezza totale su quando, su come, su tutto».
«L’assembramento è anche l’orchestra nella buca, il coro in scena e tutti coloro in palcoscenico che fanno un’opera. Un mese fa questo assembramento era la cosa più bella da vedere».
«E poi c’è la distanza quando il teatro è il luogo della vicinanza, del contatto, dell’assembramento per natura. E non solo del pubblico: l’assembramento è anche l’orchestra nella buca, il coro in scena e tutti coloro in palcoscenico che fanno un’opera. Un mese fa questo assembramento era la cosa più bella da vedere. Oggi parlare di assembramento è diventato pericoloso, da evitare a tutti i costi. Siamo al paradosso».
Viviamo in tempi paradossali…
«Questo virus alla fine ha infettato i luoghi delle relazioni sociali e siccome i teatri sono per definizione i luoghi dove una comunità di ritrova, da questa dimensione del contagio i teatri hanno avuto un danno enorme. Sembrano diventati quasi dei luoghi di pericolo. Mentre i teatri sono dei luoghi belli, salubri, sani, dove si sta bene, dove non ci si ammala. È davvero un grande paradosso quello nel quale ci troviamo, veramente molto inquietante. E questa è una delle sfide che dovremo affrontare».
Lo scorso 14 aprile l’ANFOLS, di cui lei è Presidente, ha deciso di creare una task force tecnica per valutare le modalità per la ripresa in sicurezza alla fine dell’emergenza sanitaria. Vuol dire in quali direzioni vi state muovendo?
«È la risposta che noi tentiamo di dare per quello che possiamo, essendo ben consapevoli che non potremo essere noi sovrintendenti a decidere né il quando né il come. Certamente saremo noi a doverci confrontare con delle norme di salute pubblica, che dovremo adottare nei nostri teatri. Abbiamo fatto nostro il senso di urgenza per mostrare la volontà di mettercela tutta per ripartire e per non far passare metaforicamente neanche un giorno da quando ci diranno di riaprire i nostri teatri. Sappiamo bene che avremo la necessità di confrontarci con delle misure che contrastano o impattano in maniera netta con il nostro stesso modello di produzione, la nostra stessa filiera del lavoro sul palcoscenico. Il distanziamento interpersonale è un problema ma possiamo provare a organizzare.»
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State pensando a qualche misura concreta?
«La task force si è messa subito al lavoro facendo tesoro di alcuni protocolli elaborati da chi si occupa di spettacoli all’aperto, soprattutto il Ravenna Festival e il Macerata Opera Festival, che hanno partecipato al gruppo di lavoro. Si può provare a distanziare i professori d’orchestra in buca e forse anche gli artisti del coro. Certamente i problemi restano: un professore d'orchestra che suona il violino non potrà suonare con i guanti o un professore d'orchestra che suona il trombone, il corno, il flauto, il clarinetto, non potrà suonare con la mascherina. Dovremo anche fare i conti con il fatto che uno strumento a fiato determina una nebulizzazione anche di saliva, il famoso “droplet” di cui tutti ormai abbiamo imparato a parlare. Così come nella danza sarà difficile pensare di evitare il contatto fisico per i ballerini».
Quale sarà il percorso immaginato dall’ANFOLS?
«L’obiettivo era di elaborare dei protocolli con i nostri responsabili della sicurezza, con i nostri medici competenti, con i nostri esperti di orchestre, di cori, di corpi di ballo, del lavoro sulla scena e nei laboratori di scenotecnica. Questi protocolli li abbiamo già consegnati al MIBACT perché li sottoponga agli esperti che supportano il governo nell’assunzione delle decisioni sulle riaperture. Vorremmo arrivare a una sorta di certificazione da parte dell’autorità di governo, che poi noi ovviamente dovremo declinare nelle singole nostre realtà sulla base delle caratteristiche delle singole realtà».
«Vorremmo arrivare a una sorta di certificazione da parte dell’autorità di governo, che poi noi ovviamente dovremo declinare nelle singole nostre realtà».
«Ovviamente una cosa sarà fare spettacolo all'aperto all'Arena di Verona, e una cosa sarà farlo all'aperto in un chiostro del Cinquecento a Palermo. Una cosa sarà fare spettacoli in un teatro da 2000 posti al chiuso e un’altra da 500 posti. I protocolli riguardano sia la filiera del nostro lavoro sia il pubblico in sala con l'obiettivo non solo ripartire subito ma di farlo in sicurezza».
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È fin troppo facile immaginare che ci sarà una drastica riduzione delle presenze nel pubblico in seguito alla riduzione dei posti.
«Il pubblico è la componente più facile da gestire: si tratta di un problema soprattutto organizzativo con implicazioni economiche. Mi preoccupa di più però quella cosa intangibile che è la relazione di fiducia fra un teatro e il suo pubblico».
«Non potremo più avere teatri da mille e più spettatori e tutto sarà ovviamente ridimensionato».
«Non potremo più avere teatri da mille e più spettatori e tutto sarà ovviamente ridimensionato».
Sarà comunque una sfida far quadrare i conti, non crede?
«Mi permetta di dire che la crisi sanitaria che stiamo vivendo ribalta completamente il paradigma sul quale noi abbiamo costruito decenni di gestione dei nostri teatri, cioè il paradigma dei numeri. Finora siamo stati valutati dal MIBACT – e tutti siamo entrati in questo vortice folle – su una base esclusivamente numerica, quantitativa: quanti spettatori, quante alzate di sipario, quanti incassi e via dicendo. In prospettiva questo paradigma lo dobbiamo ripensare completamente, perché il numero di spettatori in sala non potrà essere un numero sul quale valutare l’efficacia e il ruolo di un teatro. E lo stesso vale per gli incassi, che certamente diminuiranno e non solo perché diminuiranno gli spettatori paganti ma perché dovremo ripensare seriamente al prezzo del biglietto. Alla riapertura dovremo fare i conti con un paese in ginocchio, in grave difficoltà economica, che rafforzerà il nostro dovere di essere servizio, di essere servizio pubblico, di essere spazio inclusivo».
«La crisi sanitaria che stiamo vivendo ribalta completamente il paradigma sul quale noi abbiamo costruito decenni di gestione dei nostri teatri, cioè il paradigma dei numeri».
«Dovremo dimostrare essere dei teatri al servizio di una comunità e la politica dei prezzi dovrà necessariamente riflettere questa funzione primaria. È paradossale che sia stato un virus, una pandemia a farci aprire gli occhi su cosa eravamo diventati: una rincorsa sfrenata verso più incassi, più numeri, numeri, numeri, numeri...».
Eppure credo che al suo teatro non si possa rimproverare di essere stato distratto rispetto a una realtà complessa e con molte sacche di disagio sociale come Palermo. Sbaglio?
«Il punto è che molte di queste attività non erano rendicontabili ai fini dei punteggi ministeriali. Con l’Opera di Roma ci siamo inventati l’Opera Camion e a Palermo siamo andati nei quartieri del disagio, dell’esclusione sociale, della criminalità organizzata, nei posti cioè dove un teatro deve andare, naturalmente senza far pagare un biglietto (sarebbe stato un controsenso far pagare un biglietto allo Zen!). Sono proprio queste e le altre attività sul territorio che ci rendono servizio pubblico, che giustificano i soldi che riceviamo dallo Stato, che ci danno legittimazione sociale. Eppure per il decisore pubblico valevano zero. E le dirò che per i nostri partner privati – pochi ma il Sud ha da sempre un gap da colmare – hanno sempre offerto delle risorse per queste attività. Cioè il privato ha riconosciuto un valore a attività che il pubblico non ha mai voluto davvero riconoscere».
Altre attività sul territorio di cui lei va particolarmente fiero?
«Per esempio, Opera Città che abbiamo realizzato in quartiere particolarmente disagiato di Palermo, Danisinni, una periferia non periferia, nel senso che ha tutte le caratteristiche della periferia urbana ma è al centro della città, una sorta di depressione urbana non solo geografica ma anche del vivere sociale. Non abbiamo portato il Teatro Massimo ma a Danisinni e con la sua gente abbiamo costruito un’opera, anzi due: L'elisir di Danisinni e la Cenerentola di Danisinni. Le opere erano ripensate per un coro amatoriale di abitanti del quartiere, le scene realizzate dai nostri tecnici con maestranze del posto».
«La grande soddisfazione è stata sentire gli abitanti, soprattutto i ragazzi, dire: "Ma se noi abbiamo potuto costruire le scene per l'Elisir di Danisinni, vuol dire che noi possiamo anche costruire le scene per il Teatro Massimo”. La scoperta del laboratorio di scenotecnica dove lavorano falegnami, fabbri, scenografi realizzatori, pittori, per quei ragazzi è una potenzialità di sviluppo e di occupazione. Una grande scoperta per loro e una grande gioia per me. Ma abbiamo anche creato un coro di bambini di tutte le comunità presenti a Palermo, il Coro Arcobaleno: anche questa è una delle gioie più grandi per noi. Ma naturalmente anche con le nostre produzioni abbiamo voluto essere inclusivi: abbiamo installato un maxischermo accanto al nostro teatro con una platea da 1000 posti venduti al prezzo di 1 euro per moltiplicare lo spazio del teatro e offrire a tutti la possibilità di assistere ai nostri spettacoli. E infine abbiamo creato una web TV che in questi tempi di isolamento è un grande strumento».
A proposito di questo, nei giorni scorsi siamo stati inondati di opere in streaming da tutti i teatri del mondo. In uno scenario pessimista in cui saremo costretti ancora a lungo a starcene in casa, ritiene che il web possa essere una alternativa praticabile alla chiusura dei teatri?
«La nostra web TV ci ha permesso da subito, cioè da dopo la chiusura del 4 marzo, di cominciare una serie di trasmissioni 24 ore su 24 avendo già un pubblico. Non penso che il digitale possa mai sostituire l’esperienza dello spettacolo dal vivo, che è fatta di contatti, di sudore, di emozioni che passano attraverso le persone fisiche riunite e convenute in un luogo. Il digitale però può essere un grande alleato e lo è già. Il digitale – che porta da 1200 spettatori dentro la sala a 20 mila o 200 mila spettatori fuori, in quella platea virtuale – significa amplificare il ruolo del teatro, la sua funzione. Se riusciamo veramente a approfittare di questa situazione per rilanciare la sfida tecnologica anche nel campo del digitale, credo possa essere un grande alleato anche per il futuro, e forse anche dal punto di vista economico».
«I teatri servono perché sono luoghi della comunità, perché sono spazi pubblici».
«A proposito di questo: domani, una riflessione su come sostenerci in futuro naturalmente occorrerà farla, pur senza tornare al paradigma dei numeri ma pensando in termini di servizio alla comunità. Non dimentichiamo che i teatri servono perché sono luoghi della comunità, perché sono spazi pubblici. Spazio pubblico è un concetto importante perché indica un luogo di esercizio della democrazia».
Nondimeno qualche numero è importante per non tornare ai tempi in cui i teatri erano un fardello improduttivo. Non crede?
«In questa fase lo Stato ma anche le Regioni e i Comuni stanno cercando di fare ognuno la propria parte per sostenerci, comprendendo quanto siano importanti i teatri per tenere in piedi il sistema paese e renderlo migliore. Ma siamo consapevoli del fatto che prima o poi dovremo riprendere una dinamica "di mercato" uscendo però dal paradigma di cui abbiamo detto. Gli "effetti collaterali positivi della pandemia" svaniranno ma almeno quel paradigma proviamo ad archiviarlo. Il che non vuol dire che i numeri non contino: i teatri sono aziende e devono stare in piedi grazie alle loro forze almeno in parte».
A proposito di questo, anche il Teatro Massimo ha deciso la cassa integrazione per i propri dipendenti?
«Anche il Massimo ma ormai tutti i teatri hanno dovuto prendere quella decisione. È evidente che è un passaggio difficile per un mondo che non si è mai confrontato una situazione come questa, ma è un passaggio obbligato per la tutela del lavoro e dunque per la tutela del capitale umano dei nostri teatri. La decisione è certamente dolorosa e lo è anche di più quando c'è una spaccatura con le organizzazioni sindacali, naturalmente comprensibile per lo smarrimento nel quale ci troviamo tutti. Dobbiamo capire però che stiamo affrontando una condizione inaudita, inaspettata e inimmaginabile e che tutti stiamo cercando di fare la nostra parte per salvaguardare il lavoro. Come Fondazioni lirico-sinfoniche stiamo anche facendo pressione affinché le nostre Fondazioni possano integrare questo ammortizzatore sociale con risorse proprie. Speriamo possa accadere quanto prima».
«La cassa integrazione è un passaggio difficile per un mondo che non si è mai confrontato una situazione come questa, ma è un passaggio obbligato per la tutela del lavoro e dunque per la tutela del capitale umano dei nostri teatri».
Non la prenda come una provocazione, ma torno sui numeri, positivi, che il suo teatro vantava prima di questa crisi. Il Teatro Massimo è uscito da una situazione finanziaria complessa chiudendo in attivo i bilanci delle ultime stagioni e dunque collocandosi fra i sempre più numerosi casi virtuosi fra i teatri lirici italiani. Il suo collega Carlo Fuortes, in un'intervista al nostro giornale, ha detto che non esiste una ricetta valida per tutti. La sua ricetta?
«Abbiamo chiuso il sesto bilancio consecutivo in attivo e quindi ci siamo ritenuti molto fuori ormai dalla fase del risanamento, dalla fase del recupero di situazioni pregresse. Navigavamo in acque molto tranquille anche con un significativo incremento nella capacità di reperire risorse proprie, che significa biglietteria, visite guidate, affitto delle sale. Per Palermo credo abbiano molto contato due cose. La prima è la capacità di tenere sotto controllo i conti, cioè quello che si chiama controllo di gestione, che era il grande sconosciuto nei teatri italiani, quando i conti non contavano perché c'era sempre qualcuno che alla fine veniva a ripianare. Oggi i conti non li ripiana più nessuno: è responsabilità nostra. La buona amministrazione dei soldi pubblici è virtuosa, è corretta, è obbligata perché i soldi pubblici non si sprecano».
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«Il secondo aspetto è che il Teatro Massimo è tornato a essere il simbolo della città dopo una chiusura durata da 23 anni, la ferita più grave per la vita culturale della città nel secolo scorso. Ha ragione Carlo Fuortes quando dice che non c'è una ricetta uguale per tutti, perché ogni città ha una storia. La lunga privazione unita all’essersi riappropriati nel 1997 di quel luogo ha fatto diventare il teatro il simbolo di Palermo e di un’intera comunità. Nel corso degli anni il numero di visitatori al "monumento" è arrivato 125 mila visitatori per un incasso di circa 800 mila euro solo nello scorso anno (150 mila gli spettatori paganti per gli spettacoli sono stati 150 mila)».
Quanto conta la programmazione spesso coraggiosa e innovativa del suo teatro, ultimo il Parsifal di Wagner che ha inaugurato questa stagione disgraziata?
«Palermo è una città nella quale il teatro si può permettere senza preoccupazioni scelte coraggiose, con un po’ di coraggio, di sfida, di scommessa, di curiosità necessaria quando si programma. Palermo è una città nella quale questa attenzione all'innovazione anche nelle arti performative è sedimentata. Abbiamo sempre cercato di fare stagioni che fossero all'insegna della parola d'ordine "curiosità": venite e troverete sempre una ragione per essere curiosi, come il pubblico dev'essere, compreso nelle scelte del grande repertorio».
«Parsifal ha avuto un grandissimo successo grazie agli artisti che l'hanno realizzato e del lavoro meraviglioso di Graham Vick in sintonia con il tempo che viviamo. E Palermo è una città che sente molto il bisogno di stare in sintonia con il tempo che si vive. Inoltre, Omer Meir Wellber, al debutto come direttore musicale e, ha fatto un lavoro incredibile con le nostre masse artistiche. Tutta la "casa" ha sentito lo sforzo produttivo e anche l’orgoglio di un impegno importante. E l'ha sentito anche tutta la città».
Fra i progetti che sono saltati o che rischiano di saltare ce n'è uno al quale tiene particolarmente?
In questo momento sono molto preoccupato per la trilogia Mozart-Da Ponte coprodotto con il Théâtre de La Monnaie che dovremmo mettere in scena a settembre. La produzione è rimasta sulla scena a Bruxelles dalla chiusura del teatro e dubito possa viaggiare. Da noi invece è rimasto bloccato Nabucco che stavamo provando e che è rimasto montato e bloccato. Se potessimo riaprire in settembre e la trilogia non riuscisse ad arrivare, forse potremmo riaprire proprio con Nabucco, che è un’opera dal significato particolare per il Massimo: è l'ultima opera che si eseguì al Massimo prima della lunga chiusura negli anni Settanta ed è l'opera che stavamo provando prima che chiudessimo a causa del coronavirus. Magari riusciremmo a sfatare questa sfortuna! Mi dispiace molto anche per Il pirata di Bellini che dovevamo mettere in scena a giugno nella versione critica, un impegno importante. Senza stravolgere quello che è già programmato fra il 2021 e il 2023, il nostro impegno comunque è riprogrammare gli spettacoli saltati nelle stagioni che verranno».
Rispetto a molti teatri lirici italiani, il Teatro Massimo si distingue per la capacità di stabilire delle coproduzioni specialmente con importanti partner internazionali. Come lo spiega?
«La programmazione anticipata è stata sempre una chiave per noi e così il rapporto con i teatri stranieri è più facile da portare avanti. Per esempio, con Wellber avevamo già tracciato le prossime cinque stagioni almeno nei punti più forti. Noi crediamo che sia non solo obbligatorio, ma anche giusto e importante. La collaborazione fra teatri è solo una grande ricchezza ed è una pratica che ANFOLS promuove molto e sposa molto».
Lei è medico di formazione: una sua previsione sulla fine di questa pandemia? O un ritorno a una sorta di normalità?
«Da medico non la faccio perché sarebbe un grande azzardo. Però ho una grande speranza che l’autunno possa segnare la ripartenza. Spero che ci possano essere già dei segnali già quest’estate con qualche spettacolo all'aperto, che ci consentirebbe di allentare un po’ le norme che al chiuso dovranno essere necessariamente più rigorose. Sarebbe un segnale bellissimo se potesse accadere. Essenziale è che creare le condizioni per riprendere il rapporto con i nostri lavoratori. Questo è un tema enorme: abbiamo orchestre, cori, corpi di ballo, tecnici nell’impossibilità di lavorare. Tutti loro fanno un lavoro che si fa insieme. Occorre riprendere quel lavoro insieme e dopo averlo lasciato per tanto tempo, non sarà facile. Questo isolamento non sarà indolore. Su questo il governo ci sta ascoltando: sebbene non si possa ancora riaprire al pubblico, vorrei ci si mettesse nelle condizioni di riprendere un’attività all'interno, che possa rimettere insieme i nostri complessi artistici magari utilizzando il digitale come nostro alleato. Una ripartenza delle attività interne è fondamentale per ritrovare quello spirito di comunità, che ora è disgregata».
«Una ripartenza delle attività interne è fondamentale per ritrovare quello spirito di comunità, che ora è disgregata».