Musicista dagli interessi molto ampi, originale creatore di strumenti e vivace veicolo della tradizione della sua terra con la sua chitarra sarda "preparata", il chitarrista Paolo Angeli ha sempre avuto una sensibilità particolare anche per i suoni che vengono dal mondo del rock e pop.
Il repertorio di Björk, insieme a quello di Fred Frith, sono stati oggetto di intelligenti rivisitazioni e letture negli anni passati. È ora la volta dei Radiohead, la cui musica – ma non solo, come vedremo – ha ispirato il nuovo lavoro di Angeli 22:22 Free Radiohead, in uscita in questi giorni per ReR.
Suite costruita con una drammaturgia organica, in cui il repertorio della band è rielaborato con un’ottica dalle geografie cangianti (e cucito da composizioni inedite di Angeli), quella di 22:22 Free Radiohead è una delle più liete sorprese di questo inizio 2019. Un lavoro che conferma la grande sensibilità del musicista e la sua capacità di plasmare mondi incantevoli dentro cui ci si perde.
Abbiamo incontrato Paolo Angeli per conoscere meglio come nasce questo progetto.
Nella presentazione del disco racconti di diverse “coincidenze” e segni: il notare spesso l’ora 22:22 sull’orologio, l’ascolto dei Radiohead insieme a quello di musiche mediterranee… Dai sempre ascolto a questi elementi un po’ magici o era la prima volta?
«Mi ritrovo spesso a interpretare i segni che casualmente convivono con la mia quotidianità: piccoli eventi e da coincidenze. Mi trovavo spesso a suonare di notte e, per rispetto del silenzio circostante, improvvisavo cercando di realizzare delle fasce sonore che mi ricordassero la delicatezza degli acquerelli».
«Ne uscivano dei paesaggi sonori astratti e, allo stesso tempo, molto materici. A volte questi suoni erano arricchiti da frenate delle macchine al semaforo, oppure dal rumore del camion della spazzatura nel momento in cui solleva il cassonetto. Guardavo l'orologio ed emergeva sempre questa coincidenza delle 22.22».
«Il mattino invece nasceva con presupposti opposti. Cercavo di confrontarmi con le sonorità offerte da uno sturalavandino (che porto con me in tutti i concerti), ma lavoravo anche su fraseggi partendo da un nuovo prototipo di chitarra sarda che mi permette di evocare il suono del basso fretless o cercavo di sostenere con i piedi una pulsazione, evitando di generare pressione sui martelletti [Angeli controlla parte del suo strumento con un sistema di martelletti e tiranti, azionati anche dai piedi, N.d.A.], per costruire un tessuto minimale sul quale costruire un discorso musicale parallelo».
E in tutto questo mondo sonoro appaiono i Radiohead…
«Sì, dopo più di due anni di ricerca c'è stata una progressiva vicinanza tra tutti questi elementi e a quel punto smontavo la musica e cercavo di ricostruirla basandola sulle cellule dei Radiohead. Mi interessava individuare una convivenza tra mondi musicali diversi e con un senso di orchestrazione che avvicinasse il rock anglosassone al “dirty” mediterraneo».
«Mi interessava individuare una convivenza tra mondi musicali diversi e con un senso di orchestrazione che avvicinasse il rock anglosassone al “dirty” mediterraneo».
«I Radiohead facevano il resto, ma rimaneva il limite, e allo stesso tempo la sorprendente immediatezza, della forma canzone, la necessità di coniugare la loro musica con il free, rivendicare la forza della musica improvvisata per liberarli dalla gabbia della struttura formale chiusa, aprire come una scatola di latta la loro musica e usarla come l'ingrediente di base di un grande affresco in forma suite.
Sei sempre stato un fan dei Radiohead o sei un appassionato tardivo? Te lo chiedo perché molti musicisti di area non rock si sono accorti di loro qualche anno dopo…
«La scoperta dei Radiohead ha a che fare con due aneddoti, entrambi risalenti a circa due anni e mezzo fa. Da un lato la mia compagna era satura dei miei ascolti di musica improvvisata, flamenco puro e variazioni minimali della kora e ha messo su Ok Computer; dall'altro, mentre aspettavo un treno nella stazione di Bologna, ho sentito “Daydreaming” senza sapere di quale band si trattasse. Partendo da “Airbag”, da Ok Computer, e dal minimalismo di quel brano del loro ultimo album, sono stato travolto dalla ricchezza della loro discografia. Ascoltandoli pensavo che esistevano tanti Radiohead e, nonostante questo, continuavo a sentirci dentro i Beatles e Steve Reich . È stata una bellissima sorpresa scoprire una band rock di miei coetanei alla soglia dei cinquant'anni!».
Quali i lavori che ti piacciono di più dei Radiohead e perché? Hai mai avuto il piacere di ascoltarli dal vivo?
«Purtroppo non ho mai visto un loro concerto e in fondo non ho un album preferito, la cosa che mi travolge della loro musica è la continua relazione tra morte e rinascita. Tra un disco e l'altro si ha la sensazione che sfiorisca una poetica per lasciare spazio a una nuova idea del fare musica. Continui a sentire le loro differenti personalità, ma il viaggio ti trascina su territori di volta in volta inesplorati e sorprendenti».
«Stimo molto questa loro capacità di spostare gli ambiti, tracciare nuove direzioni e prendersi il rischio di essere abbandonati dal loro pubblico. Se ci pensi il percorso di molte band, ad esempio i Coldplay, è stato quello di andare nella direzione di una musica più semplice ed ascoltabile. Nel caso dei Radiohead si ha la sensazione di essere coinvolti in un viaggio intrapreso con una valigia troppo piccola per permettere di portare con se tanti cambi. Ascoltando i live in rete trovo molto bello come vengono ripensati gli arrangiamenti. E poi, da chitarrista e polistumentrista, trovo tanti punti di contatto con la loro musica».
Come hai lavorato alla scelta dei brani da includere nel disco? E’ stato facile o ne sono rimasti fuori molti con rimpianto?
«Non è stato semplice anche perché il materiale di partenza era quasi il doppio di quello che poi ho registrato. Sono rimasti fuori dalla suite brani con taglio molto diverso (ad esempio “In Limbo”, “Little by Little”, “15 Step” e altri)».
«Il brano cui ero maggiormente legato che non è stato pubblicato è “Pyramid Song”. Lo studio di registrazione a volte è crudele: a fronte di una buona esecuzione tecnica, mancava la solennità e il minimalismo piramidale di quello che considero uno dei brani più toccanti della band. Però in cambio ci sono brani “minori” della band come “Hunting Bears”, che da subito mi ha trasportato sulle atmosfere della trilogia del tempo di Sergio Leone. In questo senso, la scelta dei brani non è stata legata necessariamente ai brani che preferisco ma, piuttosto, ad un'esigenza compositiva della macro struttura formale».
«C'è spazio anche per la musica sarda, espressa come tradimento delle radici. Questo punto è l'elemento che mi ha messo maggiormente in crisi: aveva senso dedicare un album a una band britannica quando ancora non avevo realizzato un album dedicato alla musica che in modo più pregnante ha caratterizzato il mio percorso di musicista?».
A questo proposito raccontaci qualcosa di più sull’idea di unire il mondo della band inglese con le varie influenze mediterranee…
«Da quando mi sono trasferito a Barcellona nel 2005, il mio approccio alla musica è cambiato profondamente. Se da un lato la linfa vitale arriva sempre dalla musica improvvisata, dall'altro sono stato travolto dalla ricchezza e dalla consapevolezza di essere un musicista radicato nella tradizione sarda. Per oltre un decennio non ero riuscito a fare incontrare queste due anime. Poi sono stato travolto dal flamenco e, in generale, da tutte le musiche popolari del mediterraneo orientale».
«Rimaneva un altro punto irrisolto: quello di essere un musicista che nella fase embrionale è cresciuto con il rock. Quando due anni fa ho iniziato a lavorare alle musiche dei Radiohead il primo approccio è stato quello di affrontare il materiale convenzionalmente. Poi ho pensato che la scommessa più interessante era costruire una suite e fare viaggiare le loro musiche tra pulsazioni flamenche, poliritmie nord africane, arcate orientali, arabeschi di launeddas e evocazioni dei paesaggi sonori della Sardegna. A quel punto ho ricomposto il materiale, ripensando gli arrangiamenti, colorando le strutture in bianco e nero e aprendo il linguaggio al flusso dell'improvvisazione».
Hai fatto ascoltare il lavoro a Yorke o Greenwood? Secondo me a loro piacerebbe, a Greenwood in particolare…
«Ho avuto un contatto mediato dal management e dall'editore e siamo arrivati a un passo da un concerto in double bill con Greenwood, un incontro rimandato, spero, a prestissimo».
«Ho avuto un contatto mediato dal management e dall'editore e siamo arrivati a un passo da un concerto in double bill con Greenwood, un incontro rimandato, spero, a prestissimo».
«Non nascondo che mi affascina l'idea di una collaborazione aperta ad ampie aree di sperimentazione e improvvisazione. Un concerto unplugged simile a quello che ho portato in giro con Iosonouncane, in cui le musiche dei Radiohead affiorino dal magma più libero e scomposto. Sarebbe per me una bellissima occasione per fare incontrare mondi musicali distanti, ma che partono da una ricerca fondata su presupposti simili. Stimo molto sia Yorke che Greenwood e... Perché non sognare un concerto in semiacustico a tre voci?».
A cosa altro stai lavorando in questo periodo?
«Sto chiudendo il master di due album dal vivo: quello con Iosonouncane, relativo al tour 2018, e quello con Iva Bittová, sintesi di tre concerti registrati nell'arco di un biennio (a Lisbona, Praga e Gent). Sono lavori che hanno in comune la relazione con la forma canzone, ma la dinamica di relazione è profondamente diversa. Con Iosonouncane le isole di approdo sono molto strutturate, hanno un arrangiamento che fa spesso riferimento ai beat campionati, con una velocità prestabilita e una conseguente orchestrazione predeterminata. Qui i margini di libertà arrivano nei collegamenti tra le canzoni».
«Con Iva Bittová siamo costantemente a braccetto con la free form e anche quando citiamo brani di sua composizione o musiche tradizionali, il tipo di rapporto è sempre legato a una reazione estemporanea. Cambiano tonalità, ritmo, strutture e nelle convergenze più melodiche si lavora comunque di un processo legato all'improvvisazione».
«Ho iniziato anche a stendere le basi per un progetto che ho nel cassetto da diversi anni: il completamento della trilogia iniziata con Dove dormono gli autobus e seguita da Nita l'angelo sul trapezio. Sarà un album centrato sulla musica sarda riletta con lo spirito con cui Sun Ra, Mingus o Archie Shepp vivevano il contatto con la tradizione. Un'occasione per suonare insieme con tanti compagni di viaggio e per riproporre un'idea di musica legata ai grandi ensemble».
E cosa ascolti in queste settimane?
«L'ultimo album di Dave Holland che lo vede nuovamente insieme a Evan Parker: mi ha emozionato molto vedere convergere nuovamente il percorso di questi giganti della musica. Sto ascoltando anche diversi lavori di Tigran Hamasyan e, in questo periodo di riposo in Sardegna, il rumore bianco del traghetto che viaggia tra Palau e La Maddalena e la risacca del mare».
«Mentre lavoravo a 22.22 Free Radiohead pensavo che il migliore modo di ascoltarlo era in relazione a tutti quei suoni esterni che intervengono casualmente nei momenti in cui la musica registrata ha un calo dinamico. Sempre più spesso credo che ascoltare il mondo sia una delle risorse più belle che abbia l'essere umano. A volte non c'è bisogno di uscire di casa per assaporare la magia di un suono inaspettato, altre volte, soprattutto in ambito urbano, il paesaggio sonoro è così meraviglioso che non sento la necessità di altri suoni».
«Il silenzio della Sardegna, soprattutto in inverno, mi fa digerire tutti questi stimoli. In questi giorni sto riparando la mia piccola barca in legno. Le stratificazioni dei colori con cui nei decenni è stata dipinta sono un esempio di come la musica si costruisca partendo da elementi che sono sovrapposti e che spesso non hanno bisogno di essere esplicitati. Si cambia, si tradiscono le radici, si ritorna al legno vivo. l'importante è rispettare l'urgenza creativa e l'onestà intellettuale che ti può portare anche a dichiararti innamorato di una band rock con decenni di ritardo».
«In questi giorni sto riparando la mia piccola barca in legno. Le stratificazioni dei colori con cui nei decenni è stata dipinta sono un esempio di come la musica si costruisca partendo da elementi che sono sovrapposti e che spesso non hanno bisogno di essere esplicitati».