Økapi, amore e furto

Intervista a Filippo Paolini, alias Økapi, maestro italiano del saccheggio sonoro e del cut-up

Okapi
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Se la funzione “taglia&incolla” è entrata nelle nostre vite di utenti del computer senza quasi che ce ne accorgessimo, musicalmente l’arte del cut-up rimane tra le più stimolanti e, in fondo, radicalmente rappresentative dell’evoluzione artistica del Novecento.

Uno degli artisti che in Italia si è sempre distinto per originalità e qualità è il romano Økapi, nella vita Filippo Paolini, da anni attivo come formidabile sminuzzatore di memoria e ricompositore di mondi coloratissimi.  Il suo disco dell’anno scorso (ma, essendo uscito a novembre, potremmo tranquillamente inserirlo tra i dischi migliori del 2017), Pardonnez moi, Olivier, è una inebriante avventura sonora sulle tracce ornitologiche di Olivier Messiaen, ma tutta la sua discografia (da approfondire sul suo sito e sulla sua pagina Bandcamp è un visionario tentativo di utilizzare giradischi e computer per andare oltre le classiche pratiche del mondo hip-hop e di quello della musica concreta e costruire invece un bizzarro universo in cui confluiscono fonti di ogni tipo.

Era quindi il momento di fare una lunga chiacchierata con Økapi...

Come nasce il tuo interesse per il turntablism e il cut-up? Le tue prime esperienze.

«Devo fare uno sforzo di memoria piuttosto importante. Erano i primi anni Novanta. E prima ancora di iniziare a lavorare con il computer, già ritagliavo a mano nastri. Miscelavo suoni e creavo le mie prime strambe sonorizzazioni, esclusivamente per piacere personale. All’epoca acquistavo moltissimi dischi di ogni genere e provenienza. Non solo. Cercavo e recuperavo nastri su cassetta, o su bobina, flexi-disc eccetera, attraverso i mercatini (Porta Portese in primis), che all’epoca offrivano davvero molto. In quegli anni ascoltavo di tutto, ma soprattutto musica eterodossa, musica improvvisata e tanta, tanta elettroacustica, a partire da quella più classica e accademica.
I miei mix improbabili nascevano dall’incontro, inedito e spesso inaudito, di tutti questi universi sonori. A distanza d’anni riconosco che il punto d’appoggio su cui si innestavano le mie sonorizzazioni era già l’ironia. Perché? Forse per un’idea nemmeno troppo inconscia di creare sempre qualcosa di complesso, ma non serioso né presuntuoso.
Quando poco dopo, conobbi la musica di musicisti radicali come Otomo Yoshide, Christian Marclay oppure di plagiaristi come Negativland e People Like Us, capii che non ero da solo. E fu un incentivo per continuare, sempre in sordina ma continuare.  Conservo ancora a casa quantità di nastri con le mie prime sonorizzazioni, che nessuno ha mai ascoltato, e nessuno ascolterà. I primi live con i vinili invece arriveranno timidamente molti anni dopo».  

Come mai hai scelto il nome di Okapi, animale molto curioso?

«Non ricordo il momento preciso in cui ho deciso di attribuirmi il nome di Økapi. Credo che a metà degli anni Novanta lo usassi già come nickname per le prime BBS pre-internet. È vero che essendo l’okapi un patchwork di animali diversi, si è presto rivelato molto pertinente alla mia identità musicale. Aggiungo che non sono ancora mai riuscito a vederne uno dal vivo. Un paio d’anni fa allo zoo di Berlino, in pieno inverno, ho fatto la posta alla sua tana per diverse ore, senza avere il piacere d’incontrarlo».

Come lavori nella creazione della tua musica? Parti da un’idea? Hai un archivio di samples? Come si relaziona la fonte sonora con l’idea del lavoro?

«Ho un enorme archivio di samples su diversi dischi rigidi. Sono la cosa più preziosa che materialmente possiedo. Tutto è perfettamente classificato in classi di strumenti e ritmiche. I campioni sono però diventati così tanti che, nonostante il metodo classificatorio, in genere per iniziare a comporre decido di attingere a cartelle a caso e seleziono qualcosa tagliato di recente.
Le sedute di ritaglio sistematico sono per me un esercizio e un’ossessione ciclica e insieme di necessario aggiornamento. Altre volte, prima di comporre, registro delle piccole improvvisazioni con vinili e altre fonti sonore e poi ritaglio il tutto in frammenti che verranno integrati nella composizione che realizzo interamente al computer. Raramente, quando compongo ho un’idea a priori. Può capitare di partire da un concept. La visione si compone a poco a poco attraverso il mio lento lavoro architettonico di assemblaggio sonoro».

Come cerchi e trovi i samples? Compri molti vinili?

«Ultimamente compro di rado vinili, anzi sto cercando a poco a poco di vendere la mia collezione. Anche gli ultimi CD audio li ho acquistati con il solo pensiero di sminuzzarli e riutilizzarli. Ora per la ricerca, l’ascolto e l’acquisto dei suoni mi affido sempre più alla rete. Tutto ciò può sembrare meno elegante, ne sono consapevole».

Con quale attrezzatura lavori attualmente? Ci sono strumenti che usavi e che hai abbandonato?

«Dal vivo oggi non uso più giradischi e vinili, salvo qualche raro caso di improvvisazione in gruppo. È un peccato. Ora ho un approccio meno fisico con lo strumento. Ma sicuramente più ergonomico (anche per viaggiare). Sono uno dei molti che spinge pulsanti e ruota knobs di qualche controller e usa varie scatolette. Dal vivo evito comunque di suonare con il pc. Il computer è solo il mio strumento compositivo, che uso con un fare da artigiano. Non ho mai generato un suono, né ne ho sentito il bisogno. Trasformo la materia sonora esistente, la aggrego, le do nuova identità usando due software fidati e piuttosto antichi, per l’editing e l’organizzazione. Niente di più».

«Per quel che mi riguarda, per come compongo e per l’utilizzo creativo che faccio dei samples, il copyright musicale è quasi defunto».

Esploriamo un po’ la tua discografia, facciamolo un po’ a salti… partendo dall’ultimo, strepitoso, Pardonnez moi, Olivier, chiaramente un riferimento a Messiaen e agli uccelli. Come hai lavorato a questo progetto? 

«Olivier Messiaen è un artista che adoro da molti anni. Non avrei mai pensato di confrontarmi con la sua scrittura così seria, sperimentale e accademica insieme. Questo progetto è iniziato con un forte spirito di sfida dopo un viaggio nel Centro America, che per me è stato un bagno nella natura. Ho iniziato destrutturando in migliaia (!) di frammenti minimi l’intera musicografia di Messiaen, soffermandomi con particolare interesse sull’aspetto ornitologico-sonoro dei suoi “Cataloghi di uccelli”.
Successivamente ho cercato e tagliato i versi e i canti reali degli stessi volatili. Ci ho impiegato quasi sei mesi. Suddividendo l’opera in tre movimenti (come le tre fasi poetiche della produzione di Messiaen), ho capito a poco a poco che stavo realizzando un mio catalogo di uccelli, dove lo spirito enciclopedico si incontrava con piccole astrazioni digitali e momenti decisamente pop.
Rispetto ai miei precedenti lavori, ho voluto aggiungere un elemento in più: la collaborazione con due musicisti che ammiro da molti anni, Mike Cooper e Geoff Leigh. Ho dato loro carta bianca per realizzare delle improvvisazioni sul mio Messiaen. Entrambi si sono avvicinati al progetto in punta di piedi, lasciandomi sorpreso.  Sono molto soddisfatto del risultato».

Okapi, Olivier Messiaen

In questo progetto hai lavorato con i video di Simone Memè, raccontaci qualcosa del rapporto della tua musica con il video, qui e in altri casi…

«Negli anni mi sono confrontato con tantissime identità video-artistiche. Il VJ è spesso una figura relegata nella “Club culture”, e devo dire che anche per me è stato spesso difficile incontrare artisti di visuals non incastrati nel loop di certa musica dance. In Simone Memè ho ritrovato invece il mio stesso procedere analitico e lirico. Simone è quasi un musicista che suona le immagini».

Pruffoli del 2015, mi pare avere un’attitudine più song-oriented: cosa ci dici di quel lavoro e della collaborazione con Yvonne Cornelius/Niobe, artista che a me piace moltissimo

«Pruffoli rappresenta una storia delicata nel mio percorso. L’album non è praticamente mai uscito per la vendita (tranne qualche copia nei primissimi mesi del lancio) a causa di una incomprensione sulle modalità di promozione tra il distributore italiano e l’etichetta. Purtroppo ciò ha significato una brusca interruzione della comunicazione da parte dei produttori, a danno di un disco che aveva – credo - qualcosa da dire.
Prima di allora, Yvonne aveva deciso di cantare su due brani del disco (esperienza molto bella e ben riuscita), aveva cambiato il titolo originario dell’album (originariamente doveva chiamarsi Here’s The Beef!, come seguito del mio primo album Where’s The Beef?), e stabilito l’artwork del digipack senza troppo margine di discussione.  È forse per questo motivo che in poco tempo il disco è sparito dalla mia personale discografia mentale».

Opera Riparata secondo me segna un momento di svolta nella tua musica: Munari/Mosconi, uno sguardo storico a gioco di specchi, con l’avanguardia italiana e la tradizione dell’opera. È qui che si fa conoscere al meglio l’Aldo Kapi Orchestra, come mai quest’esigenza di “umanizzare” il tuo mondo sonoro, dare ai samples una identità?

«Anche la composizione di Opera Riparata è stata vissuta da me come una sfida. Non avevo mai frequentato in mondo dell’Opera, e a dirla tutta avevo sempre avuto qualche problema con il canto nella musica, in particolar modo con quello lirico. Questo progetto è nato su commissione. Mi è stato chiesto di dare un seguito musicale e elettronico alle pagine scritte del progetto Opera Rotta, scritto da Munari e Mosconi negli anni Ottanta. È stata per me una grande occasione per esplorare l’universo operistico. Un viaggio molto impegnativo ma anche spassoso, non solo per il risultato. L’orchestra di Aldo Kapi lì menzionata aveva già debuttato nel precedente doppio vinile Love Him. Rappresenta il mio modo di considerare tutti i musicisti che saccheggio, talvolta anche in modo impercettibile, dei membri di un’orchestra virtuale diretta da un mio alter ego. Mi sembra di fatto il modo più elegante per citare le sorgenti dei miei album».

«Per tre mesi ho concepito e scritto in modo meticoloso una finta/falsa, bizzarra biografia di un personaggio – Aldo Kapi. Il suo nome è apparso in tre tesi di laurea, prima che sparisse da Wikipedia».

L’Aldo Kapi Orchestra era già stata protagonista, come hai accennato, di quei due vinili strepitosi (poi raccolti in un cd), ci racconti brevemente come erano nati e come hai ideato la biografia, fantastica, di Aldo Kapi?

«Aldo Kapi è nato come gioco costruito sulla fragilità di Wikipedia. Per tre mesi ho concepito e scritto in modo meticoloso una finta/falsa, bizzarra biografia di un personaggio, Aldo Kapi, che facevo nascere in Kyrgyzstan alla fine dell’Ottocento. Ho innestato nella sua vita numerosi incontri con persone reali, e costruito una sua storia genealogica verosimile. Ho pubblicato questa lunga e dettagliata biografia su Wikipedia, avendo soprattutto cura di ipertestualizzare pezzi della vita di Aldo nelle vite di altri personaggi, più o meno famosi, realmente esistiti. La biografia è rimasta su Wikipedia per tre anni circa, senza che nessuno se ne accorgesse. In qualche modo Aldo Kapi è realmente esistito. Il suo nome è apparso in tre tesi di laurea, prima che sparisse da Wikipedia. È in quel periodo che ho composto l’album Love Him, uscito in doppio vinile. Questo concept-album sottotitolato, Økapi suona le musiche di Aldo Kapi, è stato pubblicato come retrospettiva esaustiva sull’opera del finto compositore asiatico».

Proviamo a districarci un po’ nel ginepraio delle definizioni: spesso per i tuoi dischi è facile snocciolare una serie di stili/aggettivi, da exotica a indietronica e così via: la natura plunderphonica della tua musica ammette ovviamente ogni fonte, ma se volessimo provare a dare uno sguardo più riflessivo a questo Novecento che saccheggi con straordinario talento, cosa ti colpisce in particolar modo?

«Penso che oggi siamo musicalmente in un periodo piuttosto disteso a livello di programmaticità, ma molto ripiegato sulla forma. Sono sempre meno i generi musicali che nascono come rappresentazione espressiva di sub-culture più o meno radicali, diversamente da quanto avveniva nei decenni passati. Si suona sempre di più solo per amore della musica. La Plunderphonic-music, insieme a tante musiche di denuncia, ha perso una sua ragion d’essere in questi ultimi anni (battaglia vinta? non s’è capito) o meglio la “plunderfonia” oggi si trova ovunque, ma nessuno trova il desiderio di sbandierarla o tanto meno combatterla. Per quel che mi riguarda, per come compongo e per l’utilizzo creativo che faccio dei samples, il copyright musicale è quasi defunto. Se mi guardo indietro e osservo quanta musica ho attraversato nella vita, perdo un po’ l’orientamento, ma come dici giustamente tu è stata la cultura del Novecento a formarmi. Se musicalmente oggi continuo in parte a rapportarmi con il passato, cerco di non farlo mai in termini nostalgici. E soprattutto non perdo di vista il presente. Non credo che i capolavori siano già tutti stati scritti. Ultimamente nel mondo della musica elettronica scovo sempre più delle piccole meraviglie, soprattutto tra musicisti veramente giovani».

Nei primi anni Duemila eri anche nei Dogon e nei Metaxu. Che rimane di quelle esperienze? Si può dire che il trio K-Mundi sia un’evoluzione di quelle avventure? In generale ci racconti il tuo lavoro in band, quando non sei solo?

«Dai Metaxu e Dogon sono passati molti anni ormai e avere una “band”, dopo tante collaborazioni occasionali, mi mancava. Il ritorno al trio è sicuramente legato al desiderio di abbandonare per un po’ l’elettronica in termini puramente compositivi oppure dance-oriented, per ritornare al piacere dell’improvvisazione con strumenti suonati. Trovo che sia dimenticare per un po’ la solitudine per un’opportunità di condivisione… L’incontro con Adriano Lanzi e Marco Ariano è avvenuto nella semplice intesa creativa e personale, tanto naturale da farci decidere di pubblicare un disco dopo soli pochi incontri. K-Mundi è un progetto a cui tengo molto e che mi auguro abbia futuro. Dovremo forse, tempo permettendo, migliorare nella promozione per farci conoscere un po’ di più».

I musicisti sono soliti amaramente raccontare la battuta di quando qualcuno chiede loro che lavoro fanno, alla risposta “il musicista” viene ribattuto, “sì, ma per vivere che lavoro fai?”. Tu hai, oltre all’attività artistica sonora, anche un lavoro stabile. Questa stabilità ti ha aiutato a non scendere a compromessi?

«Quando ho iniziato a fare musica mi sono sempre detto che non sarebbe mai diventato un lavoro e così è stato; ciò mi ha permesso di rischiare e reinventarmi artisticamente in continuazione senza mai avere il vincolo di dover piacere a tutti i costi o ottenere approvazione/successo. Ciò che ho fatto, l’ho fatto fondamentalmente rispondendo a me. Ho sempre pensato di mantenermi come grafico, professione che mi diverte ancora. Ma la stabilità data da questo lavoro è comunque molto fragile. In realtà mi consente di pagarmi l’affitto in una città molto cara, ma nulla di più. Oggi, anzi, patisco la schizofrenia di questo andirivenire tra dimensioni diverse, e sogno una vita in cui potermi dedicare interamente alla musica. Fare musica richiede tempo e disponibilità all’immersione. E questa è la condizione che spesso, per necessità di vita, mi sfugge dalle mani».

Come procede il progetto Glubibulgà, che, nei primissimi anni di internet, quando non c’erano ancora i meme e i social network, era una fonte prodigiosa di stranezze sonore, di quelle che oggi si fa a gara a condividere su Facebook?

«Sai che Glubibulgà è ancora lì in piedi e fermo dal 15  aprile 2008, con tutti i suoi broken links?! Quelli di Glubi sono stati 5 anni divertenti. All’epoca ero un vero impiegato con il tempo e la costanza di aggiornare questa “cosa” ogni giorno. Adesso per scovare bizzarrie ho alcuni riferimenti sui vari Twitter-Facebook, ma preferisco semplicemente osservare. Sono molto meno attivo su internet se non nel promuovere le mie date. Inoltre, nonostante trovo ancora molta bellezza e genialità in rete, ho perso un po’ d’interesse per le “stramberie mediatiche” che dilagano sulle nostre bacheche».

 

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