«A casa si dorme, al caffè si vive» e così l’incontro con il compositore Detlev Glanert avviene in uno storico caffè berlinese, il Café Einstein, nella casa madre di Kurfürstenstraße, «il più bello di Berlino».
«Mi sono trasferito a Berlino nel 1987 e sono capitato qua soltanto due settimane dopo» dice, mentre intorno c’è un gran viavai di camerieri e turisti in una tranquilla e assolata mattina di una domenica di fine marzo, «ed è diventato parte integrante della mia vita qui a Berlino». Luogo personale di elezione ma anche curiosamente legato alla sua prossima creazione: «Lo sai che Theodor Fontane viveva non lontano da qui, in Potsdamer Straße? La sua Oceane von Perceval risale al 1880, proprio gli anni in cui è stato costruito l’edificio dove ci troviamo. Forse anche Fontane era solito venire qua».
Sì, perché a partire da quell’abbozzo di romanzo, Glanert ha tratto la storia di Oceane, un “Sommerstück für Musik”, un dramma estivo per musica, che va in scena il prossimo 28 aprile alla Deutsche Oper di Berlino. Come per gli altri lavori per il teatro di uno dei più eseguiti compositori tedeschi viventi, l’impegno profuso dal teatro berlinese è degno di quello che solitamente si riserva ai classici di altri tempi. Del resto, Detlev Glanert sembra un personaggio di altri tempi: modi gentili, cultura antica, autentica fede nella forza evocativa (ed educativa) del genere operistico, la cui attualità lui non mette in discussione nemmeno quando sceglie storie molto lontane dai nostri tempi. Per Oceane sceglie come protagonista una misteriosa donna del mare, che è parente stretta delle ninfe magiche dei miti romantici ma che fa vibrare più di una corda contemporanea, come racconta lo stesso compositore in questa conversazione per i lettori del giornale della musica.
Di Theodor Fontane quest’anno si celebra il bicentenario della nascita: è questo il motivo della scelta di un soggetto piuttosto insolito come il frammento di Oceane von Perceval?
«Personalmente non amo comporre “biopic” o opere per giubilei, anniversari e cose del genere. Lo dico perché qualcuno potrebbe avere legittimamente il sospetto che quest’opera sia legata alle celebrazioni per Fontane. In realtà, io ho sempre 30 o 40 idee diverse per progetti operistici. Anni fa incontrai Dietmar Schwarz, il sovrintendente della Deutsche Oper di Berlino, e discutemmo di vari progetti possibili. Alla fine scegliemmo il soggetto di Oceane. L'opera era prevista per il 2017 ma poi la prima è slittata al 2019, perché si è presentata la possibilità di presentare alla Deutsche Oper L'invisible di Aribert Reimann, un buon amico e compositore che adoro. Questo slittamento temporale mi ha lasciato più tempo per rifinire il lavoro. E così capita che debuttiamo nell'anno del bicentenario di Theodor Fontane ma per pura coincidenza. Ovviamente il bicentenario di Theodor Fontane è un buon traino ma il progetto ha comunque seguito un percorso indipendente».
Oceane è definita come “Ein Sommerstück für Musik”, un dramma estivo in musica: vuoi spiegare?
«Al sottotitolo abbiamo pensato davvero a lungo. “Sommerstück” è stata una mia proposta che rimanda a due riferimenti letterari, cioè Sommerhaus später (Casa estiva più tardi) di Judith Hermann e Sommerstück (Recita estiva) di Christa Wolf. Curiosamente il nucleo delle storie è lo stesso di quello di Oceane: in tutti, c'è un gruppo di persone in un luogo isolato, dove succede una "catastrofe". Nel romanzo di Christa Wolf, una grande metafora della Germania Est, tre o quattro famiglie diverse si ritrovano d’estate in una casa, che alla fine del romanzo brucia. L’incendio segna anche la fine dell'estate. Anche nella mia opera siamo nell'ultimo giorno dell'estate nel primo atto e nel primo giorno d'autunno nel secondo. Tra i due atti c'è una tempesta violentissima, che segna la fine dell'estate e annuncia quasi l'inverno. C’è un senso di pericolo nell’aria, come prima di una guerra».
A una prima lettura Oceane appare come una storia molto lontana dalla sensibilità e dal dibattito contemporaneo. È davvero così? Cosa ti ha attratto di questo frammento?
«Fontane ha lasciato molti frammenti di estensione diversa. Quello di Oceane von Perceval è di media estensione. È comunque interessante perché Fontane vi combina due filoni della sua produzione letteraria: uno è quello di Undine, di Melusina, cioè la donna enigmatica che viene dal nulla e che ha un altro punto di vista sul mondo, e l'altro è lo scontro di culture. Quest’ultimo si ritrova molto spesso nelle opere letterarie di Fontane e riflette il suo atteggiamento di odio nei confronti del Deutsches Reich, l’impero tedesco appena fondato, il suo odio nei confronti del cancelliere Bismarck, della prepotenza del militare, del rumore politico fortissimo. Fontane era una persona modesta, schiva, e politicamente un liberale, un uomo del 1848. Fontane ha vissuto dentro di sé questo conflitto, che poi è lo stesso che viviamo noi anche oggi fra valori tradizionali e spinte globali. Per questo ho scelto questo frammento».
Non c’è anche un motivo ecologista nella scelta di Oceane di abbandonare la società degli uomini per ricongiungersi al suo elemento naturale?
«C'è anche questo, ma non è un tema molto esplicito. Si tratta piuttosto di un disequilibrio nel modo in cui vive l'essere umano, molto lontano dalle leggi della natura. La creatura Oceane si sente a casa nella natura. Parla con il mare. C’è comunque anche una dimensione mitologica in quel personaggio che rimanda al mito delle sirene. Tu sai che Adorno ha definito Ulisse "il primo borghese" della storia dell'umanità, perché Ulisse ha truffato le sirene. Non molti sanno che, dopo che Ulisse e i suoi marinai superano indenni il loro canto, le sirene si sono suicidate perché hanno fallito la loro missione. Il corpo di una di loro, Partenope, fu trasportato dalle onde sulla costa dell'Italia meridionale. Dei pescatori ripescarono il suo corpo e fondarono una città con un tempio in suo onore».
«La città però divenne troppo angusta per ospitare tutta la popolazione e una parte dei cittadini ne fondarono un'altra poco lontana, Neapolis, la "città nuova". L'isoletta di Castel dell'Ovo a Napoli è il nucleo originario della città di Napoli, quella fondata in onore della sirena Partenope e i resti di quell’antico tempio furono incorporati nella piccola chiesa che ancora si vede. Questa storia ha ispirato un altro mio pezzo, Megaris, che ho presentato a Stoccarda tre anni fa. È anche un brano politico perché rappresenta il grido di protesta di un corpo morto nel mare Mediterraneo, come i molti che purtroppo si vedono così spesso nei nostri giorni. Ma questa è un’altra storia… Come le sirene, anche Oceane deve suicidarsi, perché ha perso la fiducia nella possibilità di riuscire a far parte del mondo normale».
Si tratta di un’opera pessimista, quindi?
«No, è triste ma non pessimista. La fine rappresenta il ritorno di Oceane a casa. È vero però che è anche la prova che i due mondi non sono conciliabili. La frattura non è ricomponibile e questo aspetto è quello che rende Oceane così attuale. Anche noi corriamo lo stesso pericolo, viviamo la stessa frattura a tutti i livelli nel nostro mondo».
In Oceane il mare è un elemento fondamentale. Non è la prima volta nelle tue opere e penso all’oceano misterioso di Solaris ma anche all’elemento nel quale si muovono i personaggi Das Holzschiff. Cosa rappresenta per te il mare?
«È vero che il mare torna nei miei lavori, ma mi sembra di averlo usato in modi completamente diversi. In Das Holzschiff il mare è il simbolo del viaggio, del passaggio da un mondo a un altro. In Solaris, invece, l’oceano funziona come uno specchio, perché da lì nascono tutti i personaggi della vicenda. In Oceane il mare è il simbolo della vita e la "Heimat" della protagonista, il suo luogo di origine. Alla fine dell’opera, poco prima di scomparire nelle onde dell’oceano, Oceane dice "Ora vado. Torno nel regno freddo, da dove sono nata". ("Ich gehe nun fort. Zurück in das Reich der Kühle, daraus ich geboren war")».
Henze a parte, citi spesso Verdi come fonte del tuo teatro musicale. È vero anche per Oceane?
«Rispetto a Henze, credo di avere un punto focale diverso riguardo all’opera: a me interessa la dimensione psicologica, cosa si muove dentro ai personaggi, anche – perché no? – le loro malattie mentali, mentre Henze aveva in mente piuttosto un teatro “rappresentativo”, sul modello brechtiano. Idea che, secondo me, viene da Verdi e anche da Donizetti, ossia dal non nascondere la finzione del teatro. Henze era molto influenzato da Brecht e da Stravinskij, io invece mi inserisco in una linea che discende da Richard Strauss e passa per Alban Berg».
«Henze era molto influenzato da Brecht e da Stravinskij, io invece mi inserisco in una linea che discende da Richard Strauss e passa per Alban Berg».
«Certamente le opere di Hans Werner Henze sono importanti per me, ma lo sono anche quelle di Wolfgang Riehm e Bernd Alois Zimmermann, altra figura fondamentale per me, specialmente per la "Kugelgestalt der Zeit", la forma sferica del tempo, ossia per l'idea che l'opera può rappresentare anche luoghi molto lontani in una specie di unità, così che persone che si trovano a migliaia di chilometri possono cantare comunque insieme. Di Verdi mi piace l'idea della "tinta", ossia di trovare un colore speciale per un’opera. È un metodo che ho sviluppato in due brani musicali, in particolare: Frenesia per orchestra e Megaris. In questi due pezzi ho trovato la “tinta”! L’inizio e la fine di Oceane coincidono con Megaris, ma è l’unico punto di contatto fra questi due lavori».
Dopo Caligula del 2006, con Oceana torni a collaborare con il librettista Hans Ulrich Treichel, che già collaborò con Henze per Das verratene Meer e Venus und Adonis. Come funziona la collaborazione fra di voi?
«Con Treichel la collaborazione per Caligula è stata molto positiva e per questo abbiamo deciso di collaborare anche per questa nuova opera. Nel caso di Caligula siamo partiti dal dramma di Albert Camus, che abbiamo riscritto ma sulla base di uno "scheletro" drammatico compiuto, mentre di Oceane von Perceval esistono solo l'inizio e la fine. Mancava quindi completamente il nodo drammaturgico, che abbiamo dovuto inventare completamente. Abbiamo lavorato al soggetto insieme per almeno due anni, quasi più di quanto non abbia impiegato a comporre la musica. Tutti i frammenti hanno un fascino perché lasciano libera la fantasia. E questo è successo anche in questo caso».
Alla Deutsche Oper l’opera andrà in scena con un “dream team”: un eccellente cast di interpreti che comprendono Maria Bengtsson (Oceane), Nikolai Schukoff (Martin), Christoph Pohl (Albert), Doris Soffel (Madame Louise) e Albert Pesendorfer (Pastor Baltzer) per citare solo i ruoli principali, il direttore Donald Runnicles e il regista Robert Carsen. C’è stata interazione o almeno un’influenza nella composizione?
«Ho incontrato Maria Bengtsson e Nikolai Schukoff mentre stavo componendo la musica, mentre conoscevo già Doris Soffel e Albert Pesendorfer».
«Mi sento come Mozart! È davvero un lusso fantastico conoscere i propri interpreti, le loro possibilità e la loro tessitura quando componi».
«Mi sono quindi trovato in una situazione molto privilegiata, che non succede quasi mai. Mi sento come Mozart! È davvero un lusso fantastico conoscere i propri interpreti, le loro possibilità e la loro tessitura quando componi».
E di Robert Carsen che dici? Se non sbaglio è il vostro primo lavoro insieme.
«Sì, è la nostra prima collaborazione, anche se con Robert ci conosciamo da molto tempo. Quando ancora non ci conoscevamo personalmente, Robert ha fatto una cosa bellissima anni fa: mi ha telefonato per dirmi che aveva ascoltato alla radio un mio brano che lo aveva molto impressionato, proponendomi di incontrarci. Abbiamo provato a proporre un progetto a Ginevra ma non ha funzionato a causa del mio impegno con Bregenz per Solaris. Anzi, l'avevo proposto per quello spettacolo ma nemmeno quello ha funzionato, a causa di altri impegni presi in precedenza. Ora finalmente riusciamo a realizzare un progetto insieme. Robert ha le idee molto chiare e rispetta molto la musica anche se ovviamente mi ha chiesto di aggiustare qualche passaggio per esigenze sceniche. Anche questo è teatro e lo faccio dunque con piacere».
Come funziona la vostra collaborazione?
«Carsen ha dovuto sviluppare il concetto scenico prima che io completassi la partitura, il che non è una situazione perfettamente ideale. Comunque la collaborazione è ottima. Robert è molto aperto e mi ascolta. Non si chiude mai: mi ascolta e reagisce. Questo è molto, molto positivo».
Robert Carsen firma anche le scene: vuoi dare un assaggio di cosa vedrà il pubblico?
«Ci saranno proiezioni video. L’ambientazione è spostata al periodo che precede immediatamente lo scoppio della prima guerra mondiale. I colori sono molto rigorosi e piuttosto assenti tranne bianco, nero e grigi, come in un vecchio film. È una scelta interessante perché la musica è ricchissima di colori».
Albert Camus per Caligula, Hans Henny Janhn per Das Holzschiff, Stanislav Lem per Solaris e ora Theodor Fontane, per citare solo alcuni fra gli scrittori alla base dei tuoi lavori per il teatro musicale: quanto è importante per la tua ispirazione poter fare riferimento a un racconto, a una storia?
«Non tutti vengono da romanzi: per esempio, il Nijinskys Tagebuch, che partiva dal diario del grande danzatore e della sua deriva nella follia, proprio mentre scriveva il diario. Più importante della storia per me è la situazione forte, come per Puccini: scontri, conflitti, contrasti. Ma è vero che mi piace molto raccontare una storia. Lo so che altri colleghi compositori non fanno così o non lo vogliono fare più, ma io seguo la mia ispirazione e faccio quello che ritengo sia giusto fare. È interessante che anche il teatro di prosa in Germania, compreso quello di ricerca, torni a raccontare storie. Va bene la sperimentazione, ma alla fine si torna a forme più classiche o, meglio, a forme più narrative. È comunque possibile fare le due cose insieme. Ma non escludo in futuro di sperimentare anche io forme diverse».
Credi che abbia senso un teatro musicale non narrativo?
«Per quanto mi riguarda credo al teatro narrativo perché tocca un nervo molto, molto antico dentro di noi. Una dimensione rituale. Raccontare storie è una delle più vecchie cose dell’essere umano. E probabilmente, quando si è cominciato a raccontare storie migliaia di anni fa, si cantava anche. È un fatto rituale. Comunque, a me piace molto vedere opere non narrative o sperimentali: si impara sempre qualcosa».
Negli ultimi anni mi sembra si stia assistendo a una grande rinascita dell’opera, intesa in un senso tradizionale pur con un ovvio rinnovamento del linguaggio musicale e un abbandono di certi schemi ideologici del passato. I teatri in Germania e non solo commissionano molte nuove opere in ogni stagione. Come lo spieghi? Rinnovato interesse da parte del pubblico? Un bisogno di evasione dai tempi difficili nei quali siamo immersi?
«È molto interessante quello che dici. Qualcuno non la pensa così e sostiene il contrario, cioè che la situazione dell’opera sia molto critica oggi. Secondo me la situazione era peggiore venti o anche quindici anni fa, senza dire che negli anni Settanta e Ottanta era più forte l'attività concertistica. Poi qualcosa è cambiato. A Berlino abbiamo quest'anno una stagione forte con quattro prime assolute di opere di grandi dimensioni nei tre teatri lirici principali: Violetter Schnee di Beat Furrer e la seconda versione di Babylon di Jörg Widmann alla Staatsoper, la mia opera alla Deutsche Oper e M. Eine Stadt sucht einen Mörder di Mortitz Eggert alla Komische Oper in maggio. Credo dovrebbe essere sempre così ma è vero che si va a ondate. Qualche anno fa in tutta la Germania in tutta la stagione ci sono state cinque prime assolute di opera, e di queste tre avevano una durata di cinque minuti. Scandaloso per un paese con più di 70 teatri lirici».
Nel 2006, in occasione di un nostro incontro sul Caligula, davi una tua descrizione abbastanza catastrofica della situazione in Europa: «Mai l'industria ha guadagnato così tanto, ma l'Europa sta prendendo una brutta strada, non migliora. Malgrado il capitalismo senza frontiere e la ricchezza, si chiudono scuole, musei, orchestre. In Germania, subito dopo la riunificazione operavano 105 teatri musicali con orchestre, cori e cantanti. Quindici anni dopo, i teatri sono meno di 90. Più che mai, oggi c'è l'urgenza di mettere in discussione il legame fra cultura e civiltà». Come è cambiato il mondo 13 anni dopo? Sei ancora più pessimista?
«Qualcosa in effetti è cambiato: in Germania non si chiudono più i teatri, che sono relativamente sicuri perché i governi locali hanno abbastanza soldi grazie a una situazione economica piuttosto favorevole negli ultimi anni. È però successa un'altra cosa: la musica si insegna molto meno nelle scuole non specialistiche. Per esempio, io a scuola facevo due o quattro ore di musica a settimana. Questa era quasi la norma nelle scuole ordinarie, mentre nelle scuole a indirizzo speciale le ore di insegnamento musicale erano sei. Questo insegnamento intensivo non esiste più oggi e questo è un problema mostruoso per la generazione più giovane».
«L’arte può fare domande ma non dare risposte».
«Forse nella prossima crisi si torneranno a chiudere ancora teatri e così anche il pubblico perderà pezzo dopo pezzo la sua curiosità, cioè non andrà più a teatro per vedere qualcosa che non conosce, per imparare qualcosa di nuovo, per farsi sorprendere da qualcosa di inatteso. Questa curiosità la vedo sempre meno in giro. In molti mi raccontano che, quando i sovrintendenti presentano un pezzo nuovo nel programma del loro teatro, molti biglietti vengono restituiti. Basta solo l'annuncio per provocare un rifiuto».
Ti confesso che sono sorpreso. Mi sembra che soprattutto in Germania il pubblico dimostri una certa curiosità per ciò che è nuovo, anche nella musica. Non è così?
«Anche in Germania il pubblico è sempre più viziato dalle comodità della tecnologia: un grande schermo in salotto, ottimi impianti di diffusione, facilità ad assistere a eventi musicali in diretta anche sul proprio computer. Perché scomodarsi per uscire di casa? Perché trasportare il proprio corpo a chilometri di distanza per star chiusi tre ore in un luogo senza nemmeno sapere cosa vedrai e per di più pagando un biglietto? Ovviamente questo atteggiamento nei confronti della cultura ha anche un riflesso nella situazione politica: è una pigrizia del pensiero. Non vale per tutti fortunatamente, ma per molti. Per troppi».
Parliamo di politica: cosa possono fare l’opera e la musica in particolare nel paesaggio di macerie contemporaneo? Qual è il ruolo o la responsabilità dell’intellettuale nel paesaggio politico attuale piuttosto sconfortante?
«Domanda difficile. Intanto direi che l’arte può fare domande ma non dare risposte. L'arte non l’ha mai fatto. Senza dubbio l’intellettuale ha il dovere assoluto di stare accanto agli oppressi, ai poveri, a quelli senza voce e di immischiarsi nelle loro storie ossia di “sporcarsi le mani”. Ma l’artista ha anche il dovere di fare arte e solo raramente due cose coincidono. Molto spesso manca una di queste due dimensioni. La musica è un’arte astratta e l’opera lirica è un’arte lentissima ma molto intensa».
In una recente lezione a Amsterdam, il regista americano Peter Sellars sosteneva il valore consolatorio delle arti e della musica soprattutto in un’epoca dura e violenta come quella nella quale viviamo. Sei d’accordo?
«Secondo me è un concetto riduttivo. La musica ha anche un potere consolatorio ma è molto altro. Può anche provocare rabbia, emozioni o rasserenare. Per tornare al ruolo del compositore, specialmente l’opera lirica è "lenta" e sempre lo è stata, cioè non può riflettere immediatamente le tematiche dell’attualità. In effetti, l’opera ha pochi temi. Henze ne citava sempre tre: amore, odio e morte. Però con questi tre temi, l’opera ha la capacità di andare molto in profondità. Credo sia ingiusto chiedere a un compositore d'opera di dare risposte immediate a quello che succede, magari di rispondere concretamente alle politiche di Trump o far vedere i migranti nel Mediterraneo in scena, mi sembra troppo facile e non molto forte. Ma l’opera può parlare di questi temi in un senso metaforico e molto intenso con la musica. Quando si guarda all'opera del passato, questi temi ci sono già».
Torniamo al tuo lavoro. Continua la residenza con la Concertgebouw Orchestra ad Amsterdam?
«Il legame con Amsterdam è sempre molto forte ma non si chiama più "residenza", anche perché non è mai stata una “residenza” in senso stretto. L’Orchestra del Concertgebouw continua a commissionarmi dei pezzi e di questo sono molto felice! Esistono comunque tanti altri contatti, soprattutto un nuovo “filo rosso” con l’Orchestra Filarmonica Ceca di Praga, grazie a Semyon Bychkov, che ha inserito un mio piccolo brano orchestrale e ha in programma il mio Requiem per Hieronymus Bosch prossimamente (verrà eseguito anche a Londra). Per Praga comporrò una nuova sinfonia con voci su testi di Franz Kafka».
Altri progetti operistici in vista?
«Sicuramente ci sarà una nuova opera per Dresda per la stagione 2022/23. Non posso ancora rivelare il titolo, ma posso anticipare che affronterà un soggetto politico forte e sarà meno lirica di Oceane. Ci sarà anche una incredibile scena verdiana!».
Il tuo progetto dei sogni?
«Un’opera buffa. Buffa ma anche morbosa e decadente ma con un fondo amaro sul tema del denaro. Ho in mente quella incredibile miriade di figurine nel ciclo di Rougon-Macquard o de L’argent di Émile Zola, con quegli speculatori che girano attorno alla Borsa di Parigi con idee folli di colossali investimenti al Polo Sud e sempre in cerca di spillare soldi agli investitori. È un soggetto fantastico per il nostro tempo. Forse quei personaggi erano più naïf di quelli di oggi, ma la spinta è sempre la stessa. Sarà un’opera senz'altro cinica, come nel fondo sono tutte le opere buffe, dove si trova quasi sempre un cadavere sotto al letto! È ancora solo un'idea ma appena trovo un interlocutore interessato mi metto al lavoro».