Rebecca Rischin
Per la fine del tempo – La storia del Quartetto di Messiaen
A cura di Vincenzo Martorella
Ottotipi, Roma 2010, 192 pp., 20€
Il Quatuor pour la fin du Temps di Olivier Messiaen non è solo una delle composizioni di musica da camera più emozionanti e originali del Novecento, ma ha anche una genesi del tutto peculiare, anch’essa tragicamente novecentesca, essendo stato eseguito, e in gran parte scritto, per la prima volta all’interno di un campo di prigionia nazista, nel gennaio del 1941.
Alle vicende che hanno contribuito alla nascita di questa pagina musicale straordinaria ha dedicato un libro la clarinettista Rebecca Rischin, lavoro ora disponibile ai lettori italiani grazie alla giovane casa editrice Ottotipi e alla curatela di Vincenzo Martorella.
Per la fine del tempo – La storia del Quartetto di Messiaen ripercorre l’incredibile storia avvalendosi di una solida rete di fonti e testimonianze e muovendosi con una certa agilità nella non facile sintesi tra eventi e contestualizzazione artistica.
La vicenda è infatti più che romanzesca (il risvolto di copertina annuncia che un film sarà tratto dal libro, un po’ malignamente verrebbe da dire che se si fosse trattato di una composizione più “facile”, Hollywood ci avrebbe messo le grinfie pure prima…).
Fatto prigioniero a Verdun, Olivier Messiaen fa la conoscenza con altri due musicisti prigionieri, il violoncellista Etienne Pasquier e il clarinettista Henri Akoka, insieme ai quali viene internato nello Stalag VIII-A di Görlitz in Slesia (siamo ai confini sud ovest della Polonia, per intenderci).
Qui ai tre si aggiunge il violinista Jean le Boulaire e, complice la sensibilità e l’umanità di alcuni capi del campo, Messiaen viene sollecitato a comporre un quartetto plasmato su questa strumentazione (il compositore è al pianoforte), lavoro che sarà appunto eseguito per la prima volta, in condizioni tutt’altro che ottimali, nel gennaio del 1941, in un capannone del campo adibito a teatro, davanti a una platea di prigionieri stimata attorno alle 400 persone.
Tra condizioni climatiche proibitive, strumenti inadeguati, tentativi di fuga del più irrequieto Akoka, germoglia così un capolavoro irripetibile, costruito su elementi che saranno centrali nella poetica di Messiaen come il misticismo, il canto degli uccelli, la ricerca metrica e ritmica, la riflessione filosofica.
Il libro della Rischin riesce nella missione di tenere insieme tutti gli elementi: segue il filo dell’avventura, ricostruisce bene i personaggi – con una particolare attenzione alle personalità degli altri tre componenti, specie a Pasquier, che l’autrice riesce a conoscere pochi anni prima della morte, e al collega di strumento Akoka – racconta senza pesantezza la composizione e ricostruisce con accuratezza il contesto.
Contesto che viene ricostruito sia ridimensionando alcuni luoghi comuni (il violoncello della prima non aveva solo tre corde come amava ricordare Messiaen; il campo di prigionia per soldati nemici, per quanto terribile, non era esperienza abissale e senza ritorno come il campo di sterminio), sia raccontando bene come alcune “professioni” – tra cui quella del compositore – fossero tenute in particolare considerazione (ma alla fine i musicisti riuscirono a essere liberati grazie a un finto documento che li certificava come infermieri).
Anche la fase successiva alla liberazione dallo Stalag, le difficoltà di tutti, di Akoka in particolare, in quanto ebreo, il tentativo fallito dell’avvocato Brüll (il Capitano accondiscendente del campo di prigionia) di incontrare il compositore, le conversazioni con Pasquier e le Boulaire, diventato poi un affermato attore, è trattata con intensità.
Ne esce un libro in cui, pur rimanendo salda la componente narrativa, l’autrice non smette mai di ricordarci il miracolo non solo di una creazione di bellezza imperitura in condizioni di terribile notte dell’anima, ma anche di come la “fine del tempo” di una prigionia (elemento fattuale, dato che Messiaen ha sempre negato di avere legato il pezzo a quel concetto) racconti, attraverso la lettura “apocalittico/speranzosa” del compositore, la abissale complessità del secolo in cui è calata.
Lettura consigliatissima, abbinata ovviamente all’ascolto di una delle tante versioni del quartetto segnalate nel libro in discografia. Noi abbiamo scelto questa: