Tra i giovani talenti del nostro jazz, quello di Matteo Bortone (solida formazione in Francia e Miglior Nuovo Talento 2015 per Musica Jazz) è tra i più originali e richiesti.
Merito del contrabbasso, certo, strumento che lo vede impegnato in contesti molto vari, dal trio di Roberto Gatto al quintetto di Ada Montellanico, passando per i gruppi di coetanei come Stefano Carbonelli (che abbiamo intervistato qui) o Alessandro Lanzoni.
Merito anche e soprattutto di una curiosità musicale aperta e assecondata da una seria progettualità, che hanno portato il musicista a incidere dapprima un paio di acclamati lavori con il quartetto italo-francese Travelers, per poi ora pubblicare, per la CAMJazz, un nuovo lavoro in trio.
ClarOscuro, nome del disco e del trio, è un’avventura che vede coinvolti anche Enrico Zanisi al pianoforte e Stefano Tamborrino alla batteria. Un trio che, come dice la parola stessa, lavora in quelle zone d’ombra, interstiziali, tra scrittura e improvvisazione, che si muove sui confini del linguaggio per sottolinearne le potenzialità evocative. Un disco riuscito e suggestivo, un momento importante e anche occasione propizia per una chiacchierata con il giornale della musica.
Partiamo da ClarOscuro: come nasce questo trio?
«ClarOscuro nasce circa tre anni fa, a Roma. Non avevo mai suonato con Enrico e Stefano e la scelta di suonare con loro è stata pertanto per lo più motivata dalla curiosità. Ci siamo incontrati, abbiamo provato un paio di miei brani e credo che il tutto abbia funzionato sin da quel primo incontro. Quel giorno, alcuni pezzi sono venuti talmente bene che, in seguito, quando siamo andati in studio a registrare, ho portato un paio di brani senza averli mai provati».
Negli anni precedenti avevi lavorato con gruppi più numerosi, principalmente il quartetto: come nasce l'esigenza stessa di rivolgersi a una formazione così connotata e più essenziale? E come ci avete lavorato?
«Ho scelto questo tipo di organico perché sentivo l'esigenza di cambiare sonorità dopo i due album precedenti, e dirigermi verso ambienti più acustici e, come dici giustamente tu, essenziali; il repertorio è composto da brani molto lunghi e da miniature brevi ma il focus principale è incentrato sulle molteplici possibilità di transizione da parte scritta a improvvisazione e viceversa. Queste transizioni possono delinearsi anche prima della fine di una tematica, quindi non rappresentano sempre e comunque delle fasi che separano un tema da una improvvisazione».
«In queste dinamiche, molta responsabilità ricade sul pianoforte e la batteria, che hanno per ovvi motivi molto più potere sonoro di quanto possa averne il contrabbasso, ed è per questo che ho chiesto a entrambi di appropriarsi del repertorio come se fossero brani scritti da loro. Questo processo credo sia stato il lavoro più incisivo che abbiamo svolto prima di registrare in studio».
Sei cresciuto musicalmente in Francia: qual è l'elemento che ti sembra sia stato più rilevante nella tua formazione e con cui solo in Francia hai avuto modo di confrontarti?
«Gli anni in Francia sono stati fondamentali sia dal punto di vista strumentale che compositivo. Il Conservatorio Superiore è stato importante per capire in che direzione volevo dirigermi e ho avuto la fortuna di aver incontrato un mondo didattico aperto a molteplici direzioni. Credo sia difficile insegnare le basi teoriche rispettando le inclinazioni stilistiche degli studenti compositori, soprattutto nel mondo del jazz, che assorbe per sua propria natura da vari mondi musicali eterogenei. Forse l’elemento più decisivo che ho sperimentato in Francia è proprio questa passerella tra jazz e altri mondi, uno su tutti la musica contemporanea, che è poi anche uno degli elementi che più caratterizza il jazz francese, se così si può dire».
Parlavamo prima della tua band più articolata, i Travelers: come procede quel progetto?
«Per ora il progetto Travelers è in stand by, soprattutto perché è molto difficile essere leader di più di una band alla volta. Sono sicuro però che prima o poi riprenderemo, soprattutto perché negli ultimi concerti che abbiamo fatto, avevo iniziato a utilizzare un po' di elettronica e vorrei indagare più a fondo quella direzione».
Sei molto richiesto anche da altri gruppi, alcuni dei quali sono diretti da musicisti giovani o comunque che stanno emergendo ora, penso a Stefano Carbonelli o a Manlio Maresca, anche a Alessandro Lanzoni. Mi sembra che ci sia una generazione di musicisti che dialoga molto, musicalmente e umanamente, che ne pensi e secondo te su quali coordinate avviene questo dialogo?
«C’è una nuova generazione di musicisti che dialoga molto, è vero. Credo che sia una comunicazione fondata sulla comune necessità di suonare brani originali, sull’apertura e la partecipazione attiva di molti musicisti verso la musica di altri. Spesso capita di suonare con le stesse persone ma in contesti diversi, questo rafforza i rapporti umani e musicali».
Un altro progetto in cui sei impegnato ti vede dialogare con la coreografa e danzatrice Lucia Guarino, con il solo contrabbasso: come ti poni nei confronti del solo sullo strumento e delle tecniche estese?
«L'incontro con Lucia è stimolante e rappresenta una novità nel mio percorso artistico, sia perché è la prima volta in cui mi trovo a essere il solo strumentista, sia perché è la prima collaborazione con la danza. Il solo, oltre a rappresentare più libertà e più responsabilità, mi ha permesso di lavorare su elementi specifici: il timbro, le risonanze, la dinamica e l’utilizzo di oggetti. Lavorare con la danza mi sta anche facendo andare più a fondo nell’aspetto visivo e nell’uso del gesto e dello spazio, particolarità essenziali in uno spettacolo danza/musica. Di solito non cambio posizione quando suono, avendo altri strumenti al mio fianco. In questo caso invece, partecipo più attivamente all’impatto visivo, trovandomi a sperimentare suonando in varie posizioni e con oggetti diversi. In fin dei conti, la funzione principale di uno strumento è quella di produrre dei suoni quindi, in un certo senso, questo spettacolo mi permette di analizzare ulteriormente le infinite possibilità che ha a disposizione il contrabbasso».
Quali musicisti europei e americani giovani ti hanno colpito ultimamente?
«A novembre scorso ho fatto un paio di concerti con Richard Sears, un pianista americano incredibile sia dal punto di vista strumentale che compositivo, una bella esperienza. Da tempo suono con Abhra, un sestetto europeo diretto da Julien Pontvianne, sassofonista francese, amico dai tempi del conservatorio e, a mio avviso, un compositore tra i più interessanti del panorama europeo, focalizzato sul minimalismo, la ripetitività e il silenzio. Sempre in Abhra c’è Lauren Kinsella, cantante irlandese dalla personalità e musicalità davvero singolari».
«Ci tengo anche a citare Isabel Sorling, cantante svedese che vive a Parigi, una delle voci che amo di più. In Francia c’è anche Enzo Carniel, pianista di Marsiglia che scrive musica molto avvincente e audace, Guilhem Flouzat che è stato anche il primo batterista dei Travelers, un vero musicista e compositore intelligente, i suoi dischi sono meravigliosi. E ovviamente, Antonin-Tri Hoang sassofonista che non smette mai di stupirmi e incuriosirmi».
Cosa ascolta Matteo Bortone in queste settimane?
«The Greatest Gift di Sufjan Stevens, qualsiasi disco con la ritmica Sam Jones/Louis Hayes, Glossolalia di Sibjorn Apeland, Purple degli Stone Temple Pilots, Float Upstream di Tom Rainey».
I prossimi impegni?
«A breve vado a New York per dei concerti con il quartetto di Roberto Gatto, con il quale suono da quasi tre anni. Ci saranno altri concerti con ClarOscuro in Sicilia e Sardegna, un’altra residenza con Lucia Guarino e alcuni concerti in Francia con il trio di Christophe Imbs».