L’esordio di Bernd Loebe alla guida dell’Oper Frankfurt nella stagione 2002/03 è stato folgorante: la giuria dei critici di Opernwelt dichiara il suo teatro “Opernhaus des Jahres”, un bersaglio che Francoforte non aveva più centrato dopo la stagione 1995/96 guidata da Sylvain Cambreling. Il successo si ripete anche nella stagione successiva e poi più nulla fino alla scorsa stagione, anche se Loebe ci tiene a sottolineare che il suo teatro ha continuato a piazzarsi sempre fra i primi posti nel gradimento della critica e nell’apprezzamento del pubblico. E questo nonostante una caparbia riluttanza ad aprire le porte del suo teatro allo star system, al quale da sempre preferisce le stelle di domani.
Molto apprezzato anche dai colleghi, dal 2010 Bernd Loebe guida la Deutsche Opernkonferenz, il forum delle principali scene liriche tedesche e non solo (membri associati sono anche l’Opera di Stato di Vienna, l’Opéra national de Paris, la Royal Opera House di Londra e da noi il Teatro alla Scala) e dal prossimo autunno si appresta a assumere la gestione artistica del Festival Tirolese di Erl dopo la tormentata estromissione di Gustav Kuhn.
Quando chiuderà questa esperienza nel 2023 a 71 anni (se la chiuderà), la sua gestione sarà la più lunga della storia dell’Oper Frankfurt. Il tempo per i bilanci è ancora lontano, ma un incontro con il sovraintendente del “Miglior teatro lirico dell’anno” è l’occasione per conoscere gli ingredienti di una gestione che ha meritato un posto di spicco al suo teatro nel panorama della lirica in Europa.
Per la terza volta sotto la sua sovraintendenza l’Oper Frankfurt è "Opernhaus des Jahres": qual è il segreto per essere i migliori?
«E mi permetto di aggiungere che siamo stati molto spesso fra i tre teatri più votati dal panel di critici, includendo anche la rivista Die Deutsche Bühne, che conduce un sondaggio simile a Opernwelt. Non così male! Il segreto? Fare questo lavoro con la massima serietà. L’apporto di ognuno e lo spirito di squadra di questo teatro sono anche elementi fondamentali».
«Il segreto? Fare questo lavoro con la massima serietà. È con questo che si diventa “Opernhaus des Jahres”».
«È un risultato che si ottiene coinvolgendo cantanti, direttori d’orchestra, registi, capaci di lavorare con questo spirito di squadra e trasmettendo il senso che ognuno è importante per ogni nuova produzione di questo teatro ma anche per le riprese del repertorio. Insomma, colleghi meravigliosi in ogni dipartimento, orgogliosi di lavorare per questo teatro: è con questo che si diventa “Opernhaus des Jahres”».
Ma come è costruita la stagione dell’Oper Frankfurt non c’entra? Siete comunque uno dei teatri più produttivi dei paesi di lingua tedesca.
«La stagione dell’Oper Frankfurt è effettivamente organizzata in maniera speciale: con sette o otto nuove produzioni a stagione all’Opernhaus più le tre al Bockenheimer Depot siamo davvero in grado di guardare anche negli angoli più nascosti del grande repertorio e di vedere se vale la pena di riproporre pezzi di Krenek, per esempio. Nelle prossime stagioni credo però che dovremo cercare di tornare su titoli più consueti: Mozart, Verdi, Wagner, Puccini. Il pubblico dell’Oper Frankfurt non è cambiato negli ultimi vent'anni: abbiamo uno zoccolo duro di spettatori che ci seguono qualsiasi cosa facciamo, ma il grosso del pubblico vuole vedere più titoli del grande repertorio».
«Il pubblico dell’Oper Frankfurt non è cambiato negli ultimi vent'anni: abbiamo uno zoccolo duro di spettatori che ci seguono qualsiasi cosa facciamo, ma il grosso del pubblico vuole vedere più titoli del grande repertorio».
«Per questo in futuro dovremo tener in maggior conto questa domanda, anche un po’ per questioni di botteghino. Insomma dovremmo cercare di essere più popolari senza con questo scadere nel cattivo gusto. Nelle prossime due stagioni avremo due nuovi Puccini che non saranno cartoline illustrate. Prendiamo anche quelle opere seriamente».
Le rendo atto che l’Oper Frankfurt è sempre stata immune da certi eccessi registici o da una tendenza alla provocazione a tutti i costi. È solo una mia impressione ma sembra che nelle ultime stagioni certi eccessi di regia stiano rientrando anche nei teatri tedeschi?
«Per quanto mi riguarda, non scelgo i registi per provocare il pubblico. Personalmente non conosco molti registi che vengono in questo o in altri teatri con l’intenzione di provocare il pubblico. Fanno quello che ritengono sia giusto fare su una certa opera. Se qualcuno si sente provocato, è un’altra storia. Quel che è vero è che i registi sono sempre più responsabili per ciò che fanno, dopo certi eccessi visti nel passato».
Ma il “Regietheater” aveva nel proprio DNA una volontà di rottura con una certa tradizione…
«Non amo usare l’espressione “Regietheater”: non ne capisco il senso perché, per me, è assolutamente normale che nell’opera ci sia anche una regia. Non so davvero perché dobbiamo sempre assumere un atteggiamento difensivo quando si tratta di rivendicare una dimensione teatrale anche al dominio operistico. Noi “impresari” siamo pagati per cercare di fare buon teatro e la regia è una componente essenziale del buon teatro. Quando mi capita di andare in America o in Italia o anche in altri paesi, ho l’impressione talvolta di assistere a spettacoli per bambini e non per adulti».
Lei è all’Oper Frankfurt dal 2002. Ha mai avuto l’opportunità o magari la tentazione di cambiare?
«In passato ho avuto molte occasioni di lasciare Francoforte per andare a dirigere altri teatri lirici. Alla fine ho sempre preferito l’Oper Frankfurt perché in questo teatro posso decidere più o meno tutto da solo eppure il pubblico, politici e amministratori, colleghi in questo teatro mi danno il loro sostegno, sostengono le mie idee. È qualcosa di insolito e speciale. Facciamo tutto, anche se non siamo obbligati a fare tutto, non siamo obbligati a contrattare tre, quattro, cinque star perché il nostro pubblico è piuttosto curioso di scoprire le stelle di domani o è piuttosto interessato a veder sbocciare i nuovi talenti del canto e seguirli nella loro crescita. Capita comunque che invitiamo anche ospiti di grande classe come John Osborn nei Puritani, o Franz Josef Selig e Christopher Maltman, che saranno il Padre Guardiano e Don Carlo di Vargas nella nostra prossima Forza del destino, o Asmik Grigorian in Iolanta nello scorso ottobre».
Non si dovrebbe mai chiedere ma fra i cantanti che lei ha “svezzato” artisticamente ce ne sono alcuni dei quali è particolarmente fiero?
«Per esempio Brenda Rae, che è tornata per fare Elvira nei Puritani. L’ho ascoltata dieci o undici anni fa ad un’audizione a New York, fresca di studi alla Juilliard School, e le ho proposto subito di entrare nell’ensemble. È rimasta nove anni all’Oper Frankfurt prima di continuare l’attività come free lance mantenendo comunque un rapporto speciale con il teatro, con la città e con me. Ma lo stesso vale anche per Paula Murrihy, Iurii Samoilov, Martin Mitterrutzner, che hanno lasciato da poco l’ensemble ma torneranno regolarmente come ospiti, Kihwan Sim, un basso meraviglioso per eleganza che ha cominciato nell’Opera Studio e ora canta al Met e al Covent Garden, ma anche Claudia Mahnke e Tanja Ariane Baumgartner, della generazione precedente ma essenziali per l’ensemble. Ma molti, molti cantanti sono essenziali per l’ensemble anche per la connessione che riescono a stabilire con il pubblico».
Fra le star viste di recente all’Oper Frankfurt, lei ha citato Asmik Grigorian: dopo la sua trionfale Salome a Salisburgo è richiestissima dai maggiori teatri lirici. Complimenti per aver visto lungo!
«Conosco Asmik da cinque o sei anni e ho pensato da subito che avesse qualcosa di speciale. Siamo particolarmente fieri di averla avuta con noi in Iolanta in questa stagione e posso anticipare che tornerà ancora a Francoforte nella stagione 2022/23. Da noi ha lavorato come fosse una cantante dell’ensemble. È stata molto esigente nel lavoro ma anche molto “facile”. Non è arrivata all’ultimo momento ma ha fatto tutte e sei le settimane previste per le prove e ci ha regalato una splendida prova. Insomma, una vera star!».
Quali ingredienti mette insieme e di quali vincoli deve tener conto quando si siede al tavolo di lavoro e si mette a pianificare una stagione?
«In realtà i vincoli sono molti più di quanto non si pensi: ho un direttore musicale, Sebastian Weigle, che devo cercare di accontentare con almeno due titoli che gli stanno a cuore; ho un ensemble di circa quaranta cantanti ognuno con delle caratteristiche vocali precise e i migliori restano con noi solo se gli si offrono dei titoli interessanti. E poi riesco ad attirare registi del livello di Christof Loy o Claus Guth o altri se discuto con loro di progetti precisi. Insomma, un sovraintendente non è poi così libero: ci sono molte tessere di un mosaico che va composto. Per me è anche importante programmare su un arco di cinque anni e non limitarmi a una stagione soltanto. È quindi su cinque stagioni che va valutato il mio lavoro, che si colgono le linee di programmazione. Devo anche dire che ho già visto moltissimi allestimenti delle opere più celebri nel corso della mia vita che ho una certa curiosità di esplorare anche lavori meno consueti o di scoprire capolavori dimenticati o magari di proporre qualche novità».
In una recente intervista al gdm, il sovrintendente del Teatro La Fenice, Fortunato Ortombina, si è detto convinto che “in un teatro italiano le opere di Verdi debbano essere il cardine della programmazione”. E per un teatro tedesco?
«Sono anche io convinto che Verdi sia un compositore importantissimo, non soltanto per la sua musica ma per la sua integrità. La sua vita ne è una testimonianza. Nella sua musica sento sempre la verità».
Mi sarei aspettato che dicesse Wagner …
«Wagner è un camaleonte, un mago che usa la sua musica come una droga. Verdi riesce a arrivare senza giocare necessariamente la carta dei sentimenti ma essendo semplicemente vero. Questa è la sua musica. Questo è Verdi».
«Wagner è un camaleonte, un mago che usa la sua musica come una droga. Verdi riesce a arrivare senza giocare necessariamente la carta dei sentimenti ma essendo semplicemente vero».
«All’Oper Frankfurt abbiamo fatto quasi tutto, con poche eccezioni. Continueremo comunque anche nelle prossime stagioni e, dopo anni di assenza, tornerà anche La traviata in una nuova produzione, che manderà in pensione quella di Axel Corti che risaliva alla stagione 1991/92. E ci sarà anche spazio per una nuova Aida dopo una lunghissima parentesi».
Nella storia di questo teatro, Aida è legata al ricordo dell’allestimento di Hans Neuenfels del 1981, che per qualcuno segnò la nascita del “Regietheater”: non teme la rivolta di qualche nostalgico di quel modo di fare teatro?
«So già che molti diranno: “Ah, ma Neuenfels …” senza averlo mai visto! Io invece lo vidi cinque volte quello spettacolo: ogni sera era una lotta fra il direttore d’orchestra Michael Gielen, all’epoca anche direttore musicale e sovraintendente del teatro, e il pubblico ma Gielen ebbe sempre il coraggio di portare a termine ogni recita. Se lo si rivedesse oggi quello spettacolo, non sono certo che avrebbe lo stesso impatto dirompente. Ogni spettacolo ha la sua stagione. Inoltre credo che oggi siamo più solidi nelle scelte di casting di quanto non lo si fosse allora. Ho amato molte produzioni della cosiddetta “era Gielen” in questo teatro, ma quando sedevo in sala ho pensato molto spesso che quel “Regietheater” sarebbe stato molto più forte se si fossero ascoltate voci migliori».
Come vede la situazione oggi?
«Oggi abbiamo la fortuna di avere cantanti sinceramente interessati al teatro. E molti sono anche interessati al repertorio contemporaneo, quando solo trenta o quarant'anni fa molti cantanti rifiutavano di affrontare opere contemporanee per non compromettere la voce. Oggi ci sono anche molti compositori capaci di scrivere per la voce e i cantanti sanno che il rischio è basso se si preparano per tempo».
Nelle sue stagioni la produzione contemporanea ha trovato sempre spazio con commissioni oppure con nuovi allestimenti di lavori recenti. Cos’ha in serbo l’Oper Frankfurt per le prossime stagioni?
«Chiaramente non è possibile commissionare un’opera in ogni stagione, ma abbiamo una novità in quasi ogni stagione al Bockenheimer Depot. Quest’anno abbiamo aperto la stagione con Tri Sestri di Eötvös e Lost Highway di Neuwirth, che a mio avviso era di livello sensazionalmente alto. Fra due stagioni avremo una nuova produzione di Le grand macabre di György Ligeti, finora mai eseguito a Francoforte, e sto lavorando alla prossima creazione per la stagione 2022/23 o per la successiva se riuscirò a trovare in tempo un buon compositore e soprattutto un buon librettista, che non è così facile: molti scrittori di livello non hanno manifestato interesse o comunque non sono interessati a collaborare con un compositore».
Per la prossima stagione comunque un librettista importante ve lo siete assicurato: Dante Alighieri. Vuol dire qualcosa su Inferno?
«Si tratta di un progetto che realizzeremo al Bockenheimer Depot, probabilmente il più impegnativo della storia di quello spazio, in collaborazione con lo Schauspiel di Francoforte, il teatro di prosa pubblico della città. Tenevo molto a lavorare con Lucia Ronchetti e quando ci siamo incontrati e le ho proposto di pensare a un lavoro tratto dall’Inferno di Dante. Lei non ci ha pensato nemmeno un secondo e accettato subito, dicendo che per lei si trattava di un sogno. Per questa produzione siamo riusciti a trovare un regista molto interessante, Kay Voges, uno specialista di video, un ensemble musicale molto composito diretto da Tito Ceccherini, che include anche uno dei migliori quartetti d’archi al mondo, lo Schumann Quartett, e un cast che mette insieme cantanti e attori. Dante a parte, Tiziano Scarpa ha anche accettato di scrivere un testo inedito come epilogo».
Negli ultimi mesi si è parlato molto di una nuova “casa” per l’Oper Frankfurt. Come si pone in questo dibattito, molto sentito in città?
«Ci sono diverse ipotesi in campo che l’incaricato dell’Assessore alla cultura della Città di Francoforte, Michael Guntersdorf, ha l’incarico di valutare. Si va dal risanamento dell’attuale complesso dei teatri comunali fino all’ipotesi di costruire delle nuove sale e, se tale ipotesi prevalesse, di identificare l’area più adatta. Qualsiasi soluzione prevalga, a me sta a cuore soprattutto che l’Oper Frankfurt non interrompa l’attività e che i suoi 1100 lavoratori possano continuare a lavorare sotto lo stesso tetto, evitando soluzioni temporanee che prevedano la sistemazione in diverse strutture. Per me questo è davvero essenziale. Se alla fine si deciderà di costruire un nuovo teatro, mi piacerebbe traslocassimo nella nuova casa, soltanto quando questa sarà completamente finita».
In Italia sarebbe impensabile abbattere il Teatro alla Scala o il Teatro La Fenice o il Teatro di San Carlo per costruire un nuovo edificio. Quanto conta per l’identità di una istituzione culturale come un teatro la sua casa?
«Amo molto questo edificio, dove ho messo piede per la prima volta quando avevo sedici anni. Ricordo ancora il mio primo Flauto magico diretto da Christoph von Dohnanyi in questa sala cinquant’anni fa, seduto nella terza balconata. Onestamente però l’attuale sede dell’Oper Frankfurt non è paragonabile né per bellezza né per storia a quei teatri. Detto questo, mi piace ricordare che l’Opernhaus vanta il più grande palcoscenico girevole esistente in Europa e la più grande scena per la prosa in Germania. Certo, se gli inglesi non avessero bombardato nel 1944, oggi avremmo una delle più belle sale d’opera in Europa. Purtroppo le cose sono andate diversamente e la città non aveva le risorse necessarie per permettersi di ricostruire il suo teatro d’opera, così negli anni Sessanta ha deciso di edificare l’attuale complesso dei teatri comunali. L’ipotesi di ripristinare l’Alte Oper come teatro lirico non è più percorribile, a mio avviso: lo spazio per la scena sarebbe comunque limitato e immodificabile, inadatto alle esigenze moderne. E ormai a Francoforte tutti lo considerano la sala da concerto della città. Personalmente credo che, mettendo insieme le risorse della Città di Francoforte, del governo dell’Assia, del governo federale e di privati, si potrebbe realisticamente arrivare ai 700 o 800 milioni di euro necessari a costruire un nuovo teatro lirico e una nuova sala per la prosa per il prossimo secolo.»
È di poche settimane fa la notizia della sua nomina al Festival Tirolese di Erl. Come pensa di conciliare questo nuovo incarico con il suo impegno all’Oper Frankfurt?
«A Erl l’aria è buona e gioverà sicuramente alla mia salute! Scherzi a parte, lo prendo come un impegno serio. Conto di andarci molto spesso e sto cercando un “numero due” che si occupi a tempo pieno del Festival. Penso di trapiantare il modello che a Francoforte funziona molto bene, cioè il lavoro con giovani artisti. In questo momento ho l’impressione di trovare una sponda a chiunque chieda di darmi una mano per Erl: molti cantanti, direttori, registi accettano di venire come segno di gratitudine nei miei confronti per l’aiuto che ho dato alle loro carriere».
Le difficoltà?
«Difficili sono gli spazi per gli spettacoli: alla Festspielhaus la scena è quasi priva di tecnica e lo stesso vale per la Passionsspielhaus. Avremo quindi bisogno di scenografi molto creativi, capaci di rinunciare alla tecnica che oramai è disponibile in tutti i palcoscenici».
Rispetto alla gestione Kuhn, che prediligeva Wagner e Rossini nei suoi programmi, cosa cambierà?
«Credo che continueremo a fare Wagner nella Passionsspielhaus. È quasi un obbligo. Avremo un nuovo Ring dal 2021 con la regia di Brigitte Fassbaender. Al Festspielhaus proporremo lavori legati a Wagner come Königskinder di Humperdinck ad esempio, ma anche molto belcanto con Rossini, Bellini e Donizetti, il repertorio ideale per giovani cantanti. Avremo anche molti concerti con ottimi solisti e, se possibile, con la Frankfurter Museumsorchester, anche se orchestra e coro del Festival di Erl sono di livello eccellente».
Tra poche stagioni lei celebrerà vent’anni alla guida dell’Oper Frankfurt: non sono troppi per un mestiere che fa sostanzialmente leva sulla creatività?
«Il mestiere è stimolante esattamente come nella prima stagione. Collaborare o essere una sorta di padre per artisti più o meno giovani, far loro da allenatore, aiutarli a cercare e trovare una direzione nel loro lavoro è l’aspetto più stimolante del mio lavoro. Le porte del mio teatro sono aperte: chiunque venga è accolto come un amico, e lo sono soprattutto i giovani cantanti. Credo sia importante che quando arrivano qua trovino in me e in Almut Hein, che guida la direzione artistica operativa, qualcuno con cui poter parlare in qualsiasi momento».
«Il mestiere è stimolante esattamente come nella prima stagione. Collaborare o essere una sorta di padre per artisti più o meno giovani, far loro da allenatore, aiutarli a cercare e trovare una direzione nel loro lavoro è l’aspetto più stimolante del mio lavoro».
«Sono molto soddisfatto di questo. Una prova della bontà di quel che facciamo per i giovani interpreti è che tutti vogliono tornare all’Oper Frankfurt anche dopo aver lasciato l’ensemble. Siamo riusciti a creare un ambiente che valorizza la dimensione professionale ma anche quella umana».