La diciottesima edizione del Festival EstOvest si è conclusa lo scorso 30 novembre con un raffinato recital pianistico intitolato DIE STILLE, realizzato in coproduzione con Le Strade del Suono: protagonisti della serata la cantante Anne Roubet e Michaël Lévinas, uno dei compositori ed esecutori più rappresentativi della sua generazione, padre storico, assieme a Tristan Murail, Gérard Grisey, Hugues Dufourt e Roger Tessier, del cosiddetto spettralismo.
Il concerto – le sue pause e i suoi silenzi – è stato scandito dalle immagini di Ferrante Ferranti: proiettate alle spalle dei musicisti cercavano, per dirlo con le parole del fotografo e architetto francese, «il loro posto, per meglio trovare la loro risonanza».
Inaugurato il 5 ottobre scorso presso il Museo Ettore Fico di Torino, lo stesso luogo che ha ospitato la serata conclusiva, il Festival era incentrato quest’anno sul tema del silenzio. «Spesso alcuni compositori trattano questo delicatissimo oggetto sonoro in maniera univoca, unidirezionale, talvolta in forma troppo esplicita, con il rischio di rendere banale l’approccio» racconta il direttore artistico di EstOvest, Claudio Pasceri. «Lévinas, invece, è un compositore e pianista che usa il silenzio come fosse un oggetto tridimensionale. La complessità con cui affronta questo tema rende il percorso dell’ascoltatore estremamente stratificato, offre svariati gradi di lettura e punti di osservazione. Tutto questo non compromette mai la trasparenza dell’architettura compositiva, non intacca l’esattezza e il rigore con cui costruisce l’oggetto musicale».
«Nelle sue composizioni – continua Pasceri – i suoni sono spesso riferimenti al silenzio, simili a vie di fuga nei dipinti di Paolo Uccello. I suoni sembrano essere lì dove sono per “ascoltare” il silenzio. Sono dotati di una profondità e di una spazialità immediatamente percepibili, vivono in un equilibrio raro e raffinatissimo. Trovo che questa prospettiva sia unica nel panorama compositivo europeo; è per questo che ho immaginato un focus attorno alla figura Michaël Lévinas, in occasione del suo settantesimo compleanno».
«Nelle composizioni di Lévinas i suoni sono spesso riferimenti al silenzio, simili a vie di fuga nei dipinti di Paolo Uccello. I suoni sembrano essere lì dove sono per “ascoltare” il silenzio».
Parole che hanno trovato conferma nel concerto del 30 novembre, in occasione del quale abbiamo intervistato il compositore francese. Incastonate tra preziose pagine di Maurice Ravel (Deux mélodies hébraiques e Oiseaux tristes, dai Miroirs), Claude Debussy (le Chansons de Bilitis e due dei Préludes pour piano), Henri Duparc (Mélodies) e del suo maestro Olivier Messiaen (una memorabile La chouette dal Catalogue d’oiseaux), hanno "trovato la loro risonanza" tre brani di Lévinas. Psalm, per voce femminile a cappella è, secondo Anne Roubet, che l’ha eseguito divinamente, un’estensione in musica della poesia di Paul Celan, un brano in cui «le consonanti sono trattate come desinenze». La desinenza, per Lévinas, non è semplicemente l’elemento finale di un suono, ma il momento in cui esso si deforma prima di perdersi nel silenzio. I brani per pianoforte solo – Variations sur une seule note (dai Trois études, 1991-1992) e Les larmes des sons (2012) – hanno raccontato esattamente questo processo, che Lévinas non esita ad assimilare allo scorrere di una lacrima che porta via con sé tutto quanto è avvenuto prima.
«Quando ascolto un suono al pianoforte, questo non è stabile – ci dice Lévinas, quasi a margine della nostra intervista – ma va verso il basso, verso il silenzio. Le pause, nella tecnica pianistica, possono essere ascoltate come fossero lacrime di suoni (larmes des sons), che scivolano via, verso il silenzio».
Maestro, come nasce questo recital pianistico che conclude il Festival EstOvest?
«È stata fondamentale la mediazione di Anne Roubet, una mia ex allieva nella classe di Analyse al Conservatorio di Parigi. Anne non è solo una pregevole mezzo-soprano, ma anche una musicologa e filosofa che insegna Estetica al Conservatorio e all’École Polytechnique. Quando mi ha parlato del tema scelto da Claudio Pasceri per questa edizione di EstOvest, ho subito accettato con entusiasmo. Insieme, dopo un incontro a Parigi, abbiamo pensato a un programma che restituisse la complessità del tema».
Il programma evoca inevitabilmente una riflessione sull’eredità della musica francese del Novecento nella sua scrittura e nella sua prassi esecutiva.
«La mia musica è permeata molto in profondità dall’eredità della grande tradizione musicale francese del Novecento. Questo concerto, che ha come protagonista principale il pianoforte e la sua risonanze, lo dimostra in modo molto chiaro. Il Novecento è stato senz’altro il secolo della rinascita di un sentire armonico, acustico e spettrale».
«Il Novecento è stato senz’altro il secolo della rinascita di un sentire armonico, acustico e spettrale».
Partiamo da Ravel…
«Con Ravel si tocca il punto estremo della complessità armonica nel XX secolo francese, almeno per quanto riguarda il pianoforte. Nella sua opera, vi sono elementi su cui lavoro molto come interprete. Le Deux mélodies hebraïque, canzoni di lutto caratterizzate da un accompagnamento del piano davvero minimale, sono quasi un prolungamento della musica sefardita, e se in Kaddish, cantata in lingua armena, il silenzio è rappresentazione sonora dell’assenza, ne L’Énigme éternelle, cantata in lingua yiddish, suggerisce un senso di arcana sospensione che al contempo è anche speranza».
Debussy…
«L’opera di Debussy è assolutamente emblematica e si colloca in un rapporto davvero particolare con il resto della musica francese. In Debussy, una sola figura armonica riesce a farsi molteplice: è su questa struttura così complessa che si accende, come un fuoco, un fenomeno che è sia armonico che melodico. Si tratta di brani che esigono di esprimere le due dimensioni in un unico momento, un tratto molto caratteristico della musica del XX secolo. Quello di Ravel e di Debussy è un repertorio che costituisce molto più di un’eredità: è pura energia per creazioni a venire».
Duparc…
«I due brani di Duparc mi hanno permesso di affrontare un altro tema per me cruciale: il rapporto tra musica e linguaggio. Non si tratta semplicemente di mettere in musica un testo poetico, ma di rintracciare, nella sintassi di quel testo, nei suoi fonemi, un linguaggio musicale. Nella musica di Duparc, nelle sue Mélodies – sicuramente quelle che più assecondano il sistema tonale tradizionale – vi è uno spazio infinito, emblematico e per me molto intimo. Ho fatto un lavoro molto personale su una musica che è passionale e che suona a tratti come un vero e proprio cerimoniale d’amore».
Messiaen…
«Nella sua musica gli elementi di cui ho parlato sinora convergono in una sintesi pregevole: la melodia ha trovato un alleato perfetto in un linguaggio armonico altamente sofisticato ed è diventata una singolarità melodica che quasi gareggia con il linguaggio armonico. Ma non manca l’altra grande istanza, quella del cuore, del soffio vitale che è all’origine della melodia. In Messiaen, i canti degli uccelli, il loro risuonare nello spazio, esprimono gioia o tristezza, sentimenti dotati di una universalità che forse va al di là dell’umano».
Il volo di Aimard e gli uccelli di Messiaen
Oltre a essere stato suo maestro di composizione al Conservatorio di Parigi, Messiaen lo è stato di quasi tutti i compositori che hanno contribuito alla nascita del cosiddetto spettralismo. Ci vuol parlare di quell’esperienza?
«È stata una scuola, se così vogliamo chiamarla, con una sua precisa genealogia (si pensi, per esempio, alla musica di Ligeti, o a eventi cruciali come la presenza di Grisey ai Ferienkurse di Darmstadt, nell’estate del 1972, quando fu eseguito Stimmung di Stockhausen). Il progetto formale dello spettralismo, la questione dello spettrogramma ma soprattutto del processo sonoro, è sfociato in una sorta di rinascimento del suono e della scrittura – ma anche in una loro problematizzazione. Personalmente, mi sono concentrato sul rapporto tra la questione del timbro e la questione del musicale e sul rapporto tra la questione del timbro e la questione dello strumentale – chiaramente due cose distinte. Le conseguenze sono state molto importanti per la mia scrittura e sono poi confluite nel lavoro sulla polifonia e sulla sua relazione con la melodia, anche da un punto di vista storico».
Messiaen, come un romanzo
Cosa rimane oggi, di quelle conquiste?
«Soprattutto il tema del linguaggio musicale: a seguito di una profonda riflessione sul timbro, lo spettralismo ha cercato di ricostituire una lingua post-seriale – di sostituire la serie con il timbro, per dirlo con una formula».
«Lo spettralismo ha contribuito a mettere a punto un linguaggio di apertura nei confronti di un atto di creazione che ha che fare con un fatto personale, il suono e la sua percezione».
«Il limite, comune a tutti i sistemi e riscontrabile anche nella versione più ortodossa dello spettralismo, è consistito nell’aver creato sistematicamente una relazione tra micro e macro-struttura (e questo non è altro che un’eredità del serialismo). Ma non si può negare che lo spettralismo abbia contribuito a mettere a punto un linguaggio di apertura nei confronti di un atto di creazione che ha che fare con un fatto personale, il suono e la sua percezione».
Che ruolo ha giocato l’informatica in tutto ciò?
«Un ruolo importantissimo, se si pensa al tema, assolutamente attuale, della trasmissione dell’opera attraverso la partitura. L’atto creativo del compositore non può più essere supportato dalla partitura e dalla notazione tradizionale: semplicemente, non sono più supporti di trasmissione efficaci. Lo spettralismo è stato fondamentale da questo punto di vista: il suono diventa un atto di interpretazione del creatore».
«L’atto creativo del compositore non può più essere supportato dalla partitura e dalla notazione tradizionale: semplicemente, non sono più supporti di trasmissione efficaci».
«Dopo gli anni dello spettralismo, le nuove tecnologie sono state il vettore principale della creazione, ma spesso si è finito per confondere ricerca e creazione. Per quanto mi riguarda, l’informatica mi ha permesso di lavorare molto sul concetto di utopia sonora – penso a un brano come Préfixes [1991] o alle opere Les Nègres [realizzata tra il 1999 e il 2003] e La Métamorphose [2011]. Intanto, il computer mi permette di effettuare sofisticate simulazioni delle forme e dell’orchestrazione, e poi è uno strumento potentissimo per il mio lavoro sulla polifonia».
Del pianoforte, invece, le interessa soprattutto il suo «interno», la sua risonanza…
«È vero. Nei miei due Concerto pour un piano espace [del 1976 il primo, del 1980 il secondo], così come negli Études sur un piano espace [scritti nel biennio 1976-1977], ho lavorato sull’idea di estendere la risonanza propria dello strumento, del suo interno. Credo che il pianoforte, questo strumento tipicamente europeo, romantico, protagonista indiscusso della musica francese, abbia molto da dire ancora oggi. È lo strumento che mi ha permesso di ragionare, come compositore, sul fenomeno della risonanza».
Nel suo caso la figura dell’interprete e quella del compositore finiscono spesso per confondersi. Ci aiuti a fare chiarezza.
«È molto semplice: quando lavoro da interprete sono un interprete, quando lavoro da compositore sono un compositore. Durante il concerto di questa sera sarò un interprete che fronteggia un problema molto serio per gli interpreti, quello del silenzio, un problema che, ovviamente, non si risolve interamente nelle riflessioni evocate da questo programma. Un’altra sua variante, per esempio, è quella dell’impossibilità del silenzio: quando c’è silenzio, c’è qualcosa che potremmo definire il suono dell’essere, di quello che mio padre [il filosofo Emmanuel Lévinas] definiva il y a. Da questo punto di vista, il tema del silenzio non può che essere associato a una filosofia dell’essere».
«Quando c’è silenzio, c’è qualcosa che potremmo definire il suono dell’essere».