L'etica di una canzone diversa

I suggerimenti non colti di Umberto Eco sulla canzone

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Sono talmente tante le cose per cui Umberto Eco verrà ricordato più o meno a sproposito in questi giorni che la tentazione di lasciar perdere è forte.

Una parte del suo lavoro, forse, è meno nota a quanti non si occupano direttamente di popular music in Italia. Alla metà degli anni sessanta Eco ha contribuito a sdoganare lo studio “serio” di talmente tante cose (il fumetto, la televisione…) che il fatto che lo abbia fatto anche con la popular music sembra saltare meno all’occhio. Forse perché, di fatto, buona parte dei suoi suggerimenti sul tema – a differenza di altri in altri ambiti – sono rimasti non colti. Forse perché lui stesso attribuiva a quel piccolo corpus di scritti un’importanza inferiore ad altre cose degli stessi anni: il capitolo sulla canzone incluso in Apocalittici e integrati (1964), per quanto sempre ristampato, non compare nella versione in inglese. Né la canzone è riapparsa più di tanto nei lavori successivi del semiologo.

Eppure, il tema di quella che allora veniva detta – con una punta neanche troppo nascosta di disprezzo – “musica di consumo” era centrale negli interessi di Eco fra il 1963 e il 1964. Compare in un denso articolo sulla rivista Sipario, in un lungo pamphlet su Rinascita, e soprattutto nella prefazione del futuro classico del genere Le canzoni della cattiva coscienza, che costituirà poi la base per il citato capitolo di Apocalittici e integrati dedicato alla “musica di consumo”.

Le canzoni della cattiva coscienza esce, come i libri di Eco, per Bompiani. Lo firmano Michele Straniero, Emilio Jona, Giorgio De Maria e Sergio Liberovici, quattro intellettuali che negli anni precedenti hanno fondato e portato avanti Cantacronache, il primo progetto in Italia per un rinnovamento della “canzonetta”. Dietro il motto “evadere dall’evasione” il repertorio di Cantacronache (scritte da Fausto Amodei, Sergio Liberovici, Michele Straniero, ma anche da Italo Calvino, Franco Fortini e – da un certo punto in poi – dallo stesso Eco) sono l’inevitabile punto di partenza per ogni successivo tentativo di scrivere canzone “di qualità”, impegnata e politica, in italiano.

L’atteggiamento di Cantacronache verso la “canzonetta”, tuttavia, era di odio più che d’amore. L’idea di scrivere canzoni impegnate e realiste era un’esigenza più politica di quanto non fosse estetica. La canzone, nel pieno del fulgore dell’era classica di Sanremo, era soggetto talmente disprezzato dalle élite culturali da apparire compromettente anche solo accostarvisi. Le canzoni della cattiva coscienza, nello spietato furore distruttivo che lo anima, lo mostra benissimo: sulla scia di Adorno (vero punto di riferimento della cultura italiana dell’epoca) la canzone, ogni musica di intrattenimento, è qualcosa di completamente governato dal Capitale, oppio delle masse, mezzo per controllarle.

Qui Eco lancia la sua provocazione, che solo alcuni colsero, e comunque non nell’immediato. La prefazione – caso raro, fra le prefazioni – sembra addirittura ribaltare le tesi del libro. “Non è necessario – scrive Eco in un passo memorabile – che intrattenimento ed evasione, gioco, ristoro siano […] sinonimo di irresponsabilità, automatismo, qualunquismo, ghiottoneria sregolata”. Può esistere, cioè, una canzone “nuova”, che Eco chiama “canzone diversa”, che merita e che richiede “rispetto e interesse”. Eco ha in mente, in quel momento, la canzone milanese, quella di Jannacci, di Dario Fo, di Fiorenzo Carpi, le “canzoni della mala” cantate della Vanoni, i primi lavori di recupero di materiali popolari avviati da Roberto Leydi negli stessi anni. In parte – ma solo in parte – i primi cantautori Ricordi: Giorgio Gaber, Umberto Bindi, Gino Paoli…



Come può la canzone “essere diversa”? Eco conclude la sua riflessione lasciando aperta la domanda. Sarà possibile – si chiede – una “operazione culturale” nell’ambito della “musica di consumo”? (Ovvero, sarà possibile che la popular music migliori la sua qualità e le sue ambizioni?) Oppure la canzone, per essere “diversa”, dovrà sottrarsi “alla popolarità e alla circolazione industriale”, rimanendo un prodotto di nicchia per pochi?

Il problema, cinquantadue anni dopo, rimane in attesa di risposta.
Quella di Eco è, letta oggi, una toccante ammissione di relativismo, un esercizio di etica intellettuale e di democrazia applicato alla canzone che pochi hanno fatto proprio: l’invito agli intellettuali a non disprezzare la “massa” (e la sua musica) perché, in fondo, ciascuno di noi, “senza eccezioni”, è massa.

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