Che l’operetta sia in pieno revival lo dimostra non solo il numero di produzioni nelle scene liriche maggiori ma anche l’interesse che le grandi firme della regia lirica europea dedicano al genere. Dopo Damiano Michieletto che si è misurato con il capolavoro di Franz Lehár al Teatro La Fenice lo scorso Carnevale (ce ne ha parlato qui), ora tocca a Claus Guth, che sta preparando una nuova produzione di Die lustige Witwe (la vedova allegra) per l’Oper Frankfurt.
Nativo di Francoforte e attivo nella regia lirica da oltre venticinque anni, Guth è oggi uno dei più richiesti e produttivi registi delle maggiori scene operistiche e festival del continente. La sua fama la deve a spettacoli dal taglio sempre originale, che spesso scontentano il segmento più tradizionale del pubblico (come la sua recentissima Bohème spaziale all’Opéra de Paris), ma sempre caratterizzati da una forte introspezione psicologica.
Certamente l’operetta è scelta insolita per chi ne conosce il lavoro. Di questa sua nuova fatica, che va in scena dal prossimo 13 maggio e avrà per protagonisti Marlis Petersen e Iurii Samoilov, e della sua passione per l’operetta e specialmente per questa operetta abbiamo parlato con Claus Guth durante una pausa delle prove.
Avrei scommesso che questa Lustige Witwe fosse il primo incontro di Claus Guth con l’operetta. Invece è di poco più di 10 anni fa il tuo spettacolo In mir klingt ein Lied. Eine Operetten Topographie (In me risuona un canto. Una topografia dell’operetta) allo Staatstheater im Gärtnerplatz di Monaco di Baviera. Cosa puoi raccontare di quella tua prima esperienza con quel genere?
«È vero. Si tratta di un progetto del 2007 pensato come un collage o un medley di un gran numero di numeri musicali tratti da operette che aveva come filo conduttore la storia del teatro nel quale lo spettacolo nasceva. Ho scelto quindi solo titoli che avevano a che fare con il Gärtnerplatztheater. Quello spettacolo è stato un enorme successo che si sarebbe potuto ripetere anche nelle stagioni successive ma, a causa di un cambio nella gestione artistica del teatro, In mir klingt ein Lied non è stato più eseguito dopo la prima stagione. Più tardi ho pensato a un progetto simile anche per il Theater an der Wien, cioè confrontare il teatro con la sua storia attraverso la chiave dell’operetta, ma la direzione del teatro non ha sostenuto questo approccio “leggero”».
Perché scegliere proprio l’operetta come chiave per una ricostruzione storica?
«Perché l’operetta è stata un fattore fondamentale anche per la sopravvivenza finanziaria dei teatri in molti periodi. Ma anche perché ci sono degli indiscutibili capolavori in questo genere e Die lustige Witwe è probabilmente il più grande. In molte operette, però, ci sono dei pezzi fantastici ma non valgono un’esecuzione integrale. Personalmente, anziché faticare per cercare di dare un senso compiuto o magari di aggiornare una qualche operetta, preferisco il copia e incolla delle parti migliori, una pratica piuttosto comune anche nell’epoca d’oro del genere. Non ci vedo alcun problema etico nel farlo: si tratta di numeri a sé stanti, un po’ come le arie nelle opere barocche di Vivaldi (per Händel il discorso è diverso)».
Il tuo primo incontro con Die lustige Witwe?
«È stato proprio con lo spettacolo per il Gärtnerplatztheater. Durante le mie molte ricerche in archivi e biblioteche ho fatto una scoperta incredibile, cioè un vero e proprio carteggio fra il gabinetto di Adolf Hitler e la direzione del teatro di Gärtnerplatz. Si trattava di lettere nelle quali si davano disposizioni su come allestire e rinnovare il palco reale o, meglio, la “Führerloge”, ma anche precise istruzioni su come eseguire Die lustige Witwe, e per questo l’operetta di Lehàr è diventato un elemento fondamentale del progetto In mir klingt ein Lied. Per l’occasione volevamo anche coinvolgere l’allora già ultracentenario Johannes Heesters, che aveva debuttato nel ruolo di Danilo Danilowitsch nel 1938 proprio in quel teatro davanti a Hitler, ma non se l’è sentita per timore di riaprire una pagina molto critica. Da allora ho proposto a molti teatri di mettere in scena Die lustige Witwe ma questa opportunità si è presentata solo ora all’Oper Frankfurt grazie a Bernd Loebe».
Un bel salto per un regista come te che non vien proprio da definire come leggero, no?
«Parlando di registi si usano spesso dei cliché. Il mio è quello di essere molto “dark” e serio, sempre attratto dal tema della morte. In effetti credo che allestire un’operetta sia un sano cambio di registro. E noto quanto adoro questo lavoro e quanto mi ispiri rispetto il materiale musicale di Lehàr, che magari è un’oretta di musica in tutto (il resto sono dialoghi e ripetizioni) ma è un oretta di qualità musicale difficile da trovare».
«È un po’ come una buona canzone pop o come un’invenzione mozartiana: un’idea melodica molto semplice ma assolutamente stupefacente e organizzata in maniera intelligente».
«È un po’ come una buona canzone pop o come un’invenzione mozartiana: un’idea melodica molto semplice ma assolutamente stupefacente e organizzata in maniera intelligente. E non è certamente un caso se quelle melodie ci restano nella testa anche quando la musica si ferma. Sono delle invenzioni perfette. È soprattutto questo aspetto che mi ha convinto a fare questo passo».
La musica forse, ma la drammaturgia resta molto esile.
«Per quanto mi riguarda la drammaturgia è sempre secondaria. Quello che conta è la musica: dipende sempre dalla musica se decido di mettere in scena un pezzo oppure no. Cioè, solo se riesco a stabilire un dialogo con la musica allora nasce un mio spettacolo. Detto questo, non direi che la drammaturgia della Witwe è debole. È certamente molto semplice, estremamente semplice, non come in molte operette dove è estremamente complicato capire la trama. Ma l’aspetto interessante è proprio la sua semplicità. Il punto però non è quello che tratta, cioè la storia che si vede: ci sono anche storie nascoste, che sono anche più interessanti. Voglio dire che ci sono due personaggi principali, Hanna e Danilo, che sono alla deriva fin dal primo momento, due personaggi che si trovano nel mezzo di una crisi esistenziale dopo la loro separazione. Lui cerca avventure ogni notte, lei è divorziata e patisce le conseguenze di decisioni sbagliate. Sono due creature disorientate. Improvvisamente questi due personaggi si ritrovano nel mezzo di una festa incessante».
«La drammaturgia è sempre secondaria. Quello che conta è la musica».
«L’intero lavoro è una danza senza fine, una festa e musica continue. Allo stesso tempo si tratta di una storia su “sein und schein”, cioè sull’essere e l’apparire. È questo l’aspetto che mi interessa: è un tema interessante in generale e molto comune nell’operetta, ma è anche profondo».
Quali altri aspetti interessanti trovi in questa operetta?
«Già il titolo contiene un interessante contrasto, “lustige”, allegra, e “Witwe”, vedova, una condizione che rimanda a una perdita. Ma anche “Lippen schweigen”, labbra che tacciono [“tace il labbro” nella traduzione italiana]. Ci sono spesso due elementi contrapposti, contraddittori e la verità è sempre nascosta. Talvolta la verità si trova nel linguaggio del corpo – il motivo per cui è una “Tanzoperette”, un’operetta danzata – che non è solo per puro divertimento ma anche, come in Hofmannsthal, un modo per esprimere una sfiducia nella lingua parlata. Occorre trovare i segnali giusti per capirsi. Quest’idea è stata il mio punto di partenza».
Che tipo di lavoro hai fatto con i tuoi interpreti?
«Sono partito dagli interpreti di Hanna e Danilo, che a Francoforte saranno Marlis Petersen e Iurii Samoilov, e mi sono chiesto: chi sono davvero, cioè chi sono come persone? Ho immaginato, come spesso accade nell’opera o nel cinema, che potessero aver avuto una storia e improvvisamente si fossero separati. Questa dimensione onstage/offstage mi ha ispirato l’idea di un film che si svolge negli anni Trenta ma girato in una realtà contemporanea, la nostra. Quest’idea del film è diventata anche l’idea di improvvisi silenzi, che accadono quando quei frenetici numeri musicali improvvisamente si fermano e il prossimo numero ancora non inizia. Dialoghi a parte, che non ho toccato, ho anche aggiunto delle pause, dei silenzi nei quali cerco di seguire i miei interpreti nei momenti privati. Quel che ho provato a fare è una sorta di teorema sull’essere veri, autentici, sul dire cose vere o su quando invece recitiamo un ruolo per tutta nostra intera esistenza, con ruoli diversi e in situazioni diverse».
Il cinema non è del tutto estraneo alla vicenda esecutiva di Die lustige Witwe. Come lo spieghi?
«In effetti l’idea del film mi ha anche ispirato una distanza “storica” che la lega a Hollywood o a molti sviluppi successivi. Dopo il 1905, l’anno della prima rappresentazione assoluta, Erich von Stroheim realizzò una famosa trasposizione cinematografica nel 1925 e quindi Lubitsch nel 1934, entrambi progetti cinematografici importanti per lo stesso sviluppo dell’industria cinematografica. C’è qualcosa nella Lustige Witwe che è al centro del tema di come giocare con la superficie delle cose e Hollywood ne è una rappresentazione perfetta.»
Cinema a parte, sembra di capire che il contesto storico non è rilevante nella tua visione dell’operetta. Da uomo di teatro tedesco, che Die lustige Witwe sia stata l’operetta preferita da Adolf Hitler non pone alcun problema?
«C’è quasi un senso di colpa quando si affronta un’operetta oggi: perché la facciamo? Come dobbiamo farla? e via dicendo. Molte produzioni della Lustige Witwe, e non solo, si sono poste queste domande. Credo che nei lavori di Jacques Offenbach la dimensione politica sia molto più presente, è al centro di quei lavori. Non si può capire del tutto un’operetta di Offenbach se si prescinde dalla dimensione politica. Da regista, devi cercare di tradurre quella dimensione in qualcosa di comprensibile per il pubblico. Nella Lustige Witwe si tratta soprattutto di qualcosa che riguarda la condizione umana, di come gli esseri umani si comportano davanti al denaro e di cosa conta davvero nella vita. Per una volta possiamo concederci uno sguardo più leggero e trattarla come si farebbe per una qualsiasi altra opera. Personalmente non sento alcuna spinta alla legittimazione».
In tutte le operette – e Die lustige Witwe non fa certo eccezione – le danze fanno la parte del leone. E le danze tipicamente distraggono dalla trama. Dal tuo punto di vista di regista, che si può fare per non perdere l’attenzione degli spettatori?
«Come ho detto ci saranno momenti di silenzio, momenti in cui l’allegria collassa. C’è comunque spazio anche per lo spettacolo, che è una componente fondamentale del genere e che il pubblico vedrà. Amo molto la danza, il cinema, e nel passato ho suonato in molte band. Mi sento a casa con la musica popolare, il jazz, il pop, il funk e con tutta la musica. Non è un caso che un grande regista di cinema come Lars von Trier abbia reinventato la danza come veicolo narrativo con Dancer in the Dark, nel quale improvvisamente l’azione si ferma e i personaggi cominciano a danzare. È interessante perché anche in un film cupo come quello, von Trier gioca con varie forme di espressione in un modo più libero e rilassato di quanto non accada qualche volta con l’opera. In molti dei miei progetti di teatro musicale contemporaneo, per esempio con il compositore Helmut Oehring con cui ho lavorato spesso, lavoro molto con varie forme di espressione e con attori, con danzatori, con persone che si esprimono con il linguaggio dei segni. Mi interessa sempre molto combinare queste diverse forme d’arte. In questo senso Die lustige Witwe è molto ricca perché ha parti cantate, parti danzate ma anche melologhi e monologhi. E anche stimoli inattesi: provando una scena fra Camille e Valencienne ho notato una somiglianza con Pelléas et Mélisande. C’è dramma vero e profondità. Dal mio punto di vista incrocia molti mondi diversi».
Per chi lavora nell’opera, i dialoghi pongono spesso dei problemi. Come lo affronti nel tuo lavoro con gli interpreti?
«Per me è la prima volta che lavoro sui dialoghi. Ho fatto Fidelio con Jonas Kaufmann a Salisburgo e ho tagliato tutti i dialoghi e lo stesso ho fatto con il Freischütz. Inoltre, ho sempre rifiutato di mettere in scena Die Zauberflöte per via dei dialoghi. Semplicemente rifiuto l’idea che un cantante debba parlare, non funziona a mio avviso. È un errore. Non si dovrebbe fare».
«Semplicemente rifiuto l’idea che un cantante debba parlare, non funziona a mio avviso».
«Nella Lustige Witwe è essenziale trovare la precisione necessaria in grado di creare il giusto humour o il senso della commedia. Mi piace molto il senso dell’assurdo che abbonda in questa operetta e l’unica chiave soddisfacente è trovare il modo di sottolineare l’artificiosità dei dialoghi, per i quali abbiamo studiato delle specifiche coreografie. Abbiamo anche elaborato un dialetto “pontevedrino”, cioè balcanico, con i molti americani, inglesi, russi ecc. che lavorano in questa produzione e che anche i tedeschi devono imparare. È un lavoro enorme!».
Quale chiave visiva avete scelto con il tuo abituale scenografo e costumista Christian Schmidt?
«Per le produzioni del Theater an der Wien si prova nei famosi Rosenhügel-Filmstudios, i teatri di posa dove vennero girati i più noti film musicali degli anni Venti e Trenta con tutte le stelle del cinema passate per Vienna, ancora oggi attivi. Ci siamo ispirati a quegli spazi e li abbiamo ricostruiti per la scena dell’Oper Frankfurt».
Sul fragile corpo dell’operetta sono stati tentati approcci “decostruttivisti” così come si fa con l’opera ma con risultati abbastanza devastanti. Che ne pensi?
«Per me sarebbe completamente sciocco. Semmai è vero il contrario, cioè si tratta piuttosto di fare una “Liebeserklärung” [dichiarazione d’amore] piuttosto che rimuovere parti. Si tratta piuttosto di cercare un modo per dare più profondità alla materia. Prendere distanza dal genere operetta o destrutturarlo è un modo per tranquillizzare la propria coscienza. Non credo sia un atteggiamento sincero. E comunque mi interessa un altro tipo di scomposizione».
Cioè?
«Da almeno dieci anni mi affascina molto quello che c’è dopo un numero musicale e prima del successivo. È come un miracolo: improvvisamente si ascolta la musica come fosse qualcosa di completamente nuovo. Ogni volta si è sopraffatti dalla bellezza della musica, dalla sua qualità. È un’opportunità molto speciale che non si ha nelle opere “durchkomponiert”, ossia costruite con una continuità musicale come Tristan o Pelléas, nelle quali si entra in una sorta di trance».
«Da almeno dieci anni mi affascina molto quello che c’è dopo un numero musicale e prima del successivo. È come un miracolo: improvvisamente si ascolta la musica come fosse qualcosa di completamente nuovo».
«In lavori come Die lustige Witwe, invece, la musica è continuamente interrotta. Comincio ad apprezzare questo aspetto perché mi consente una grande libertà, in particolare nel lavoro sul tempo fra due numeri successivi e su quell’attimo che precede la musica che non deve essere riempito necessariamente da dialoghi. In generale, credo non si dia abbastanza importanza a ciò che precede la musica, come accade con un pianoforte che si sta accordando, o un’orchestra che si riscalda prima del concerto, o un cantante che prepara la voce. Soprattutto credo che si sottovaluti molto il silenzio».