Forse qualcosa sta cambiando nell'operetta, un genere amatissimo dal pubblico quanto snobbato dalle grandi firme della regia lirica. Salvo rare eccezioni e con risultati non sempre entusiasmanti. Molti ancora ricordano con poco piacere l’esperimento “destrutturalista” applicato al Pipistrello di Hans Neuenfels del 2001 nella Salisburgo governata da Gérard Mortier, ma poco brillante era sembrato anche lo smontaggio dello stesso classico operato da Christoph Loy a Francoforte nel 2011, e appena meglio quello di Christoph Marthaler sulla Grand Duchesse de Gérolstein di Offenbach virata nel più puro assurdo marthaleriano a Basilea nel 2009.
Oggi una certa iconoclastia registica sembra tramontata e si torna a divertire sul serio. A Berlino l’australiano Barrie Kosky proprio sull’operetta, quella berlinese degli anni di Weimar, ha costruito buona parte del successo della sua Komische Oper, e fra qualche mese un regista di razza come Claus Guth si cimenterà con la Vedova allegra per l’Opera di Francoforte. Nel frattempo a giorni al Teatro La Fenice si vedrà un’altra Vedova allegra firmata da una grande firma della regia lirica nostrana come Damiano Michieletto, che promette un approccio non convenzionale con il capolavoro di Lehár.
Il regista veneziano è già al lavoro da qualche giorno quando lo incontriamo in una pausa delle prove, certamente divertito dall’esperienza – una parentesi leggera prima di tornare all’opera opera del Midsummer Night’s Dream di Britten al Theater an der Wien in aprile e chiudere la stagione con il Don Pasquale all’Opéra di Parigi in giugno.
Michieletto si dà all’operetta: questa è una notizia!
«Non è la prima operetta che faccio: anni fa a Trieste ho allestito Il paese del sorriso, sempre di Lehár. Non mi è venuta particolarmente bene, forse perché ho fatto l’errore di prenderla troppo come un’operetta».
E qual è il modo giusto di fare l’operetta?
«È considerarla come qualche cosa non dico drammatico ma con uno spessore. Ad esempio, oggi stavamo provando il duetto fra Valencienne e Camille de Roussillon: lui è innamorato di lei, lei gli resiste, gli dice “non posso: sono una donna sposata”. Ho detto ai due cantanti: “Pensate a Mozart. Pensate di essere Cherubino con la Contessa o con Susanna. Soprattutto non pensate di dover essere buffi!”».
«Il modo giusto di fare l'operetta è di considerarla come qualche cosa non dico drammatico, ma con uno spessore».
«Certamente, nell’operetta ci sono i caratteri, come Cascada e St.Brioche: sono caratteri, però, devono fare da contraltare a qualche cosa che, comunque, è una storia seria, che non vuol dire seriosa perché l’operetta è un genere divertente, e deve mantenere quello spirito brillante».
Eppure qualche tuo collega ha provato a destrutturarla, ma il corpo fragile dell’operetta forse non sopporta quel procedimento. Che ne pensi?
«Penso che quando si accetta di mettere in scena un’operetta, sia veramente importante far respirare il profumo della commedia. Non mi pare interessante destrutturarla in maniera intellettuale. Facendolo, la si snatura. L’operetta ha una sua peculiarità che va mantenuta: ha il ballo, ha il divertissement. Sono ingredienti che tu, regista, devi rispettare registicamente e proporre al pubblico, che si aspetta di ritrovare quello spirito. L’importante è trovare un modo giusto per raccontarle, un modo che non sia banale, che non sia retorico, che non sia “balliamo!” o “usiamo la musica per fare il ballo”. A partire da questo, occorre costruire una drammaturgia e dei personaggi credibili».
La Vedova allegra debutta nel 1905, nel 1912 affonda il Titanic e nel 1914 affonda l’Europa con la prima guerra mondiale. In questa operetta ci vedi un qualche riflesso di quelle tensioni latenti, un senso di finis Europae?
«C’è quel bellissimo film di Fellini che è E la nave va con l'affondamento del Titanic e la fine di un mondo che porta a fondo anche l'opera lirica. No, nella mia Vedova non volevo avere riferimenti storici o nostalgici. Voglio fare davvero una lustige Witwe o magari una sehr lustige Witwe che potrebbe essere anche il sottotitolo di questo mio Lehár. Voglio fare uno spettacolo nel quale si coglie la carica energetica e attuale. Per me deve diventare qualcosa di contemporaneo».
E quindi difficilmente ci trovaremo nell’ambasciata del Pontevedro della belle époque parigina. Vero?
«Vero. Qualcosa che non mi piaceva in questa operetta era l’ambiente dell’ambasciata, un ambiente un po’ sterile. Chi di noi è mai stato in un’ambasciata? È un non luogo di un non stato, come il Pontevedro della storia».
Cosa vedranno quindi gli spettatori?
«Quella della Vedova allegra in fondo è una storia di soldi: tutta la vicenda ruota non tanto attorno alla vedova Hanna Glawari quanto al patrimonio che questa donna possiede, i famosi 20 milioni che lei si porta dietro. Le casse del Pontevedro sono vuote e il Barone Mirko Zeta traffica per fare in modo che la vedova sposi uno del Pontevedro così da far rimanere i suoi milioni all’interno del paese e evitare la bancarotta».
«Quando si accetta di mettere in scena un’operetta, è importante far respirare il profumo della commedia. Non mi pare interessante destrutturarla in maniera intellettuale».
«Mi sono immaginato che il parallelo più interessante potesse essere quello con una banca, la Banca del Pontevedro, che somiglia a una di quelle piccole banche che devono combattere contro i grandi giganti della finanza, così come il piccolo Pontevedro deve lottare per difendere la propria autonomia, identità e dignità all’interno della grande Europa. Nella grande Europa delle banche, questa piccola banca, magari una banca popolare, rappresenta la Vaterland, la patria, così spesso invocata dai personaggi (tranne Danilo che dice che sopporta poco questa mitica Vaterland). Con lo scenografo Paolo Fantin abbiamo lavorato in questa direzione».
È sbagliato pensare ai fatti recenti accaduti proprio nelle banche nel Veneto?
«La mia banca è fantomatica. Si parla di problemi finanziari non tanto per fare della cronaca spicciola, ma per mostrare che questo materiale non è qualcosa di patetico o nostalgico sui bei tempi andati con i valzer viennesi e via dicendo. Comunque l’intenzione non è di illustrare fatti realmente accaduti. L’idea un po’ destruttura la storia ma è un parallelo, credo, molto congruo: un piccolo stato che rappresenta la madrepatria è simile alla piccola banca locale che rappresenta la sicurezza e la solidità di una comunità. Cioè è un po’ il luogo di cui tutti i piccoli risparmiatori hanno fiducia, a cui tutti affidano i propri soldi, in cui si crea un’idea comunità, tutti si riuniscono attorno al fondatore/benefattore che realizza delle opere sociali grazie ai soldi di tutti. Tutti si riconoscono un po’ in quel luogo e in questo senso rappresentano anche una comunità, per niente chic ma piuttosto provinciale, così come immagino provinciale il Pontevedro».
A proposito di destrutturazione, penso al tuo allestimento più recente, cioè la Damnation de Faust all’Opera di Roma, nella quale hai costruito una drammaturgia parallela che funzionava perfettamente e dava forza al racconto. Ma è solo l’ultimo di numerosi esempi che si potrebbero fare sui tuoi allestimenti. Quando si può applicare senza provocare danni questo metodo?
«Credo che l’ambientazione originale si possa cambiare se questo potenzia o, in qualche modo, arricchisce o dà una luce umana precisa ai personaggi, facendo in modo che in questa cornice i personaggi, illuminati da un’altra prospettiva, prendano un’altra luce. Ma quella luce devono prenderla e i personaggi devono brillare ed essere divertenti o drammatici. Quando vedi uno spettacolo in cui tutto è cambiato ma alla fine le cose rimangono tali e quali, il cambiamento cioè è solo estetico o di superficie, allora un cambio di costume avrebbe lo stesso effetto. Oppure quando vedi dei personaggi che non capisci cosa stanno facendo o perché, cioè quando il concetto si mangia i personaggi, allora personalmente non mi interessa più di tanto, perché non trovo più un'emozione vera. L'emozione te la danno i personaggi, non te la dà il concetto. Il concetto serve per potenziare o per raccontare una storia. Per fare in modo anche che i cantanti che vanno in scena possano incarnare dei personaggi che risultino più convincenti».
Torniamo alla Banca del Pontevedro: l’aristocrazia pontevedrina è quindi la burocrazia impiegatizia che amministra una banca al collasso. Giusto?
«Esatto. Nel primo atto ci troveremo davanti agli sportelli della Banca del Pontevedro, proprio mentre festeggia l’anniversario della fondazione. Già dalle prime battute il Barone Mirko Zeta informa: “Io sono solo il direttore di questa banca. Prima di me ci sono stati sette otto direttori. Noi festeggiamo oggi l’anniversario della fondazione della banca” e si scopre un busto con l’effigie del fondatore (la comunità ha bisogno di simboli). La banca è in crisi e cerca in tutti i modi di fare in modo che i soldi di Hanna Glawari vengano versati alla banca, visto che anche la donna è pontevedrina e non è giusto che i capitali finiscano in mano straniera».
E Danilo?
«Danilo è un impiegato della banca, un segretario, un burocrate, uno che non ne può più di lavorare tra le scartoffie. Soffre la frustrazione del lavoro d’ufficio e vive sogni di libertà, di evasione, di divertimento, di club notturni, circondato di ragazze e donnine allegre».
Nel DNA del genere operetta le danze occupano molto spazio e, in un certo senso, distraggono dall’azione principale. Che fare?
«A volte si pensa che i registi d’opera siano un po’ seriosi e non amino questi momenti di divertimento. Ma non è così. Nella mia Vedova allegra cerchiamo di lavorare sul gusto della coreografia come fonte narrativa. Quando in scena c’è grande movimento, grande dinamismo, grande energia, allora si produce anche un grande coinvolgimento. Abbandonata la banca, nel secondo atto saremo in una sorta di sala da ballo degli anni Cinquanta o Sessanta con un’orchestrina in scena, per dare un’impronta di quel tipo anche alle coreografie. Con la coreografa Chiara Vecchi abbiamo cercato di usare la musica del valzer trasformandola coreograficamente in twist o nei balli degli anni Cinquanta o Sessanta per dare meglio l’idea di un’umanità di provincia, piccola, un’umanità non ancora “tecnologica”. E per l’atto finale, torneremo di nuovo in banca ma nel piccolo ufficio di Danilo. Le grisettes di Maxim’s entreranno in scena dalla finestra, dallo schedario, da sotto la scrivania, come se Danilo, reduce da una notte di bagordi, le sognasse o le rievocasse. Da quel sogno lo sveglierà bruscamente la donna delle pulizie e Danilo capirà immediatamente che si tratta solo di fumo, di qualcosa che ha vissuto quella notte».
La versione veneziana sarà in tedesco, scelta insolita in un teatro italiano, soprattutto per la presenza di dialoghi. Come mai questa decisione?
«Ho voluto fortemente che questa Vedova allegra fosse fatta in tedesco perché tradurla, secondo me, significa abbassarla un po’ di livello, snaturarla. Ormai anche Il flauto magico si fa in tedesco e quindi perché non anche la Vedova allegra? In realtà ho tagliato parecchio dei dialoghi. Dopo aver ricercato a lungo i dialoghi originali, ho constatato che non esistono. Cioè, ci sono due o tre diverse versioni che tutti considerano di riferimento, ma, se le confronti, vedi che non sono la stessa cosa nonostante molte somiglianze. È nella pratica nell’operetta trattare i dialoghi con una certa libertà, improvvisando o tagliando dove serve. E poi sinceramente i dialoghi non sono particolarmente belli: c’è un po’ il gusto della battuta insistita, calcata, molto artificiosa. Ho quindi snellito e lavorato sui personaggi, soprattutto su Njegus, che diventerà un simbolo più che un personaggio realistico, quasi come un Cupido.»
Viene in mente un altro Cupido in tuo allestimento del Ventaglio di Goldoni di qualche stagione fa. Anche nella Vedova allegra c’è una storia di ventagli.
«In effetti la prima volta che ho letto il libretto mi sono detto: ma che c’entra questo ventaglio? non c’entra quasi niente con la vicenda principale di Hanna Glawari e non è nemmeno citato nelle arie ma solo nei dialoghi. Volendo, si sarebbe anche potuto tagliare completamente. Ma poi pensando al Ventaglio di Goldoni, somiglianze indubbiamente ci sono ed è così che ho pensato piuttosto di potenziare quella situazione e di far diventare simbolico quell’oggetto. Il ventaglio passa di mano in mano e scombina tutte le coppie e, proprio come nel mio Goldoni, Njegus con la sua cartellina a volte dice battute e a volte si trasforma in un Puck o in Cupido con le ali e diventa l’artefice di tutta la trama amorosa quasi in maniera involontaria. Così il ventaglio si trasforma in una storia nella storia».
Insomma, il pubblico si divertirà molto nella tua Vedova allegra?
Ci proviamo. Di sicuro ci sarà l’happy end. La nostra protagonista, Nadja Mchantaf, è stata la mia Cendrillon alla Komische Oper a Berlino. In quel teatro ho visto molte operette, molta energia: ho cercato di portare quello stesso spirito, quella stessa energia anche qui alla Fenice. Per provarci, all’inizio delle prove ho chiesto al coro di venire con le scarpe da ginnastica!».