La seconda vita di Asmik Grigorian

Intervista al soprano lituano Asmik Grigorian, a pochi giorni al debutto al Teatro alla Scala, protagonista di Die tote Stadt: la famiglia, la voce, la crisi...

Asmik Grigorian (foto di Rokas Baltakys)
Asmik Grigorian (foto di Rokas Baltakys)
Articolo
classica

Capita raramente di vedere un tale rapimento emotivo che coinvolge tutto il pubblico e un consenso così unanime in una rappresentazione d’opera, eppure qualche volta capita: ad Asmik Grigorian è successo la scorsa estate a Salisburgo con Salome. 

I 15 minuti di monologo della principessa giudaica sul corpo ormai inerte dell’oggetto del suo desiderio hanno letteralmente inchiodato gli spettatori alla sedia fino all’applauso finale, quasi una liberazione. Ed è stata la consacrazione di una carriera cominciata a poco più di vent'anni, forse troppo in fretta, e resettata dopo i trenta.

Grigorian è un cognome già importante nel mondo della lirica: il padre di Asmik, Gegham Grigorian, armeno, fu un grande tenore nell’Unione Sovietica degli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso. Nel 1980 si trasferisce a Vilnius per lavorare all’Opera nazionale lituana e lì conosce Irena Milkevičiūtė, primo soprano della compagnia. Dal quel legame nel 1981 nasce Asmik, che già giovanissima decide di percorrere le orme dei genitori, anche suoi primi maestri. Diventa madre a poco più di vent’anni e a venticinque fa parte dei bohémiens che fondano la Vilnius City Opera con la voglia di rinnovare una maniera vecchia di rappresentare l’opera nel paese. Il resto è studio, lavoro duro e, dopo una crisi a trent’anni, la forza di ricominciare da zero e quindi la consacrazione con inviti nei maggiori teatri lirici del mondo.

Asmik Grigoria nella Salome
Asmik Grigorian nel ruolo di Salome (foto Ruth Walz)

Apprezzamento del pubblico a parte, arrivano anche i riconoscimenti ufficiali: due Golden Stage Cross del governo lituano per Traviata nel 2005 e per la sua Mrs Lowett in Sweeney Todd nel 2010, poi l’International Opera Award come giovane interprete nel 2016 e di nuovo quest’anno come migliore cantante per la sua Salome, per la quale viene anche candidata ai premi austriaci per il teatro musicale. 

Nell’immediato l’attende il debutto al Teatro alla Scala in un nuovo ruolo in Die tote Stadt di Erich Wolfgang Korngold. In una pausa delle prove, abbiamo incontrato Asmik Grigorian per parlare di questo nuovo ruolo, del successo della Salome ma soprattutto dei suoi primi passi nel mondo della lirica. 

Asmik Grigorian
Asmik Grigorian (foto di Algirdas Bakas)

Se sei d’accordo, comincerei da Salome. Era il tuo secondo anno che ti esibivi a Salisburgo, dopo il Wozzeck del 2017, e comunque arrivavi già da diversi anni di carriera alle spalle. Ti aspettavi quel trionfo? 

«Sono tredici anni per la precisione che ho cominciato la mia carriera di cantante lirica. Sinceramente un successo così enorme no, non me lo aspettavo proprio. D’altra parte, ovviamente, ogni singolo giorno mi sforzo di dare il meglio che posso quando salgo sulla scena». 

Quello che mi ha particolarmente impressionato nella tua Salome è stata l’identificazione quasi fisica nel personaggio. Lo consideri il tuo "marchio di fabbrica"? 

«L'opera è un'arte fatta di molte componenti, che non si possono né si devono separare. L’opera non può essere solo fisica, perché c'è anche il canto e devi pure cantare bene».

«D’altra parte nell'opera non basta avere una bella voce. Non è mai una pura questione di voce».

«D’altra parte nell'opera non basta avere una bella voce. Non è mai una pura questione di voce. Cioè, non devi solo cantare ma mettere insieme la tua voce e il tuo corpo per esprimere al meglio un certo ruolo. L'opera deve essere questo. Tutti i grandi interpreti sono riusciti a mettere insieme questi due aspetti». 

È vero però che i cantanti sono sempre molto prudenti quando si tratta di agire sulla scena. Nel tuo caso ti sei spesa davvero completamente, addirittura immergendoti in una specie di piscina. Nessun timore per la voce?

«Ovviamente devi fare un po' di attenzione – l’acqua comunque era calda! – e davvero tutti ti aiutano. Non è stato poi così problematico». 

Come è stato lavorare con Romeo Castellucci, uomo di teatro spesso descritto come cerebrale se non freddo? 

«Per quanto mi riguarda, lavorare in quella Salome con Romeo è stata una vera benedizione. È una grande persona con un gusto straordinario e soprattutto ha un grande rispetto per la musica, per gli artisti, per i cantanti. È stato davvero un grande piacere per me avere la possibilità di lavorare con lui. Non mi ha mai chiesto di fare troppo: credo ci fosse un'intesa di fondo fra di noi, ossia un comune sentire su come interpretare il ruolo di Salome. Non ho mai avuto alcun problema con lui. Semmai il contrario: da lui ho avuto molto sostegno». 

L'altro elemento sorprendente della tua Salome era ovviamente la voce, specialmente in un ruolo che non è davvero leggero. Nella tua carriera comunque i ruoli "pesanti" non mancano di certo: non hai il timore di danneggiare la voce? Dopotutto sei ancora giovane e con molti anni di carriera davanti. 

«Cantare è un mestiere che richiede uno sforzo enorme soprattutto sulla tecnica. Normalmente si pensa che c'entri solo il talento o che il successo arrivi per caso. Non è vero. Io lavoro 24 ore ogni giorno con la voce, con la lingua, con il corpo. Lavoro ogni singolo secondo. Se hai accanto le persone giuste che ti ascoltano e se mantieni il controllo, non credo sia così pericoloso con la giusta attenzione e studio. Non sono poi più così giovane e credo che sia adesso il momento giusto per affrontare i ruoli da soprano lirico spinto che ci si aspettano da me. In questo momento è il repertorio giusto per la mia voce e... se non ora, a quasi quarant'anni, quando? È buffo perché, quando hai quarant'anni, tutti ti dicono che sei troppo giovane per certi ruoli, e quando ne hai quarantacinque, tutti dicono che sei troppo vecchia per gli stessi ruoli!».

«Quando hai quarant'anni, tutti ti dicono che sei troppo giovane per certi ruoli, e quando ne hai quarantacinque, tutti dicono che sei troppo vecchia per gli stessi ruoli!».

Una volta hai detto: “Il mio motto è: non accennare, ma metti insieme corpo e voce, recitazione e canto fin dall’inizio”. Vuoi spiegare? 

«Mi riferivo soprattutto ai ruoli che affronto per la prima volta. Se è un ruolo che ho affrontato già molte volte, so già come funziona il mio corpo, so quello che posso fare, conosco ogni singolo movimento eccetera. Per un ruolo nuovo, serve cantare perché hai bisogno di far entrare quel ruolo nei tuoi muscoli, nel tuo corpo: se i tuoi muscoli non conoscono il materiale, non rispondono correttamente e si stancano. Il corpo deve essere pronto il prima possibile, perché quando cominci le prove con l'orchestra è già troppo tardi». 

Hai anche detto: “Un grande errore – e molti cantanti lo fanno – è accennare alle prove”. 

«È vero: molti errori che fanno i cantanti, li fanno quando accennano alle prove. Quando accenni, puoi fare quello che ti pare. E quando cominci a cantare davvero capisci che molto di quello che hai fatto sulla scena non funziona più perché è molto più difficile farlo con il canto. Questo è il motivo per cui nelle prime fasi delle prove, quando ci si concentra solo sulle prove di scena, cerco di cantare quanto più posso per metterci tutti i movimenti insieme alla voce». 

Immagino lo stesso valga anche per il ruolo che stai debutterai a giorni al Teatro alla Scala. È un ruolo nuovo per te? E non è certo un ruolo leggero... 

«Marietta è un ruolo molto, molto difficile. Devo dire che per quanto mi riguarda è anche più difficile di Salome». 

Davvero? 

«Davvero credo sia più difficile. Marietta è tecnicamente insidioso perché c’è molta conversazione futile e allo stesso tempo, improvvisamente, occorre usare la tecnica tedesca del belcanto. Parli, parli, parli e, se non tieni sotto controllo la situazione, diventa molto difficile cantare quando è il momento. È un passaggio molto insidioso e devi essere molto pronto ad affrontarlo sul piano tecnico. Marietta è anche un ruolo che richiede molta danza che è uno sforzo ulteriore per il corpo. Occorre fare attenzione a non stancarsi troppo e a non farsi venire il fiatone!».

Il personaggio ha anche una doppia personalità: è la danzatrice Marietta ma è anche la moglie defunta del protagonista, Marie, almeno nella fantasia di Paul. Che sfide ti pone sul piano dell’interpretazione scenica o anche vocale? 

«Marietta non è un personaggio doppio: ha centinaia di sfaccettature! Ma questo non è davvero un problema, perché ogni personaggio lo affronto nello stesso modo. Ogni singolo ruolo e, in fondo, ogni singola persona hanno sempre molti colori diversi. Ed è questa proprio diversità che rende i personaggi e le persone interessanti. In questo senso, non credo che questo ruolo abbia qualcosa di speciale».

A Milano lavori con Graham Vick: come ti trovi con un altro regista a suo modo "difficile"? 

«È un mostro, nell'accezione migliore del termine. È incredibile lavorare con lui. I consigli che lui mi dà in ogni singolo passaggio sono fondamentali. È un vero maestro, in ogni senso possibile. È anche un grande musicista e, direi, è un grande insegnante di voce, un regista incredibile, un uomo intelligente e... bello! Mi sto godendo ogni singolo momento perché ogni giorno imparo qualcosa di nuovo da lui. Qualche volta non è facile, ma il mio rispetto per Graham è enorme! Sto cercando di imparare quanto più posso ogni singolo giorno che passo alle prove».

Non sarà il tuo debutto italiano avendo tu già cantato all'Opera di Roma nel Trittico di Puccini, ma sarà il tuo debutto al Teatro alla Scala, uno dei luoghi simbolo della lirica: cosa rappresenta per te questo teatro e questo debutto? 

«La mia famiglia ha un legame molto speciale con questo teatro: i miei genitori si sono incontrati all'Accademia del Teatro alla Scala. In un certo senso questo luogo rappresenta i miei inizi e ci sono venuta abbastanza spesso, quando i miei genitori cantavano in questo teatro. Cantare in questo teatro è qualcosa di davvero molto speciale per la mia storia personale come Asmik. Mi sembra ancora cosi strano e splendido essere qua».

Molto spesso, i figli d'arte prendono distanza dal padre o la madre. Tu invece parli molto spesso dei tuoi genitori con rispetto e riconoscenza, indicandoli come coloro che ti hanno insegnato a cantare. Hai voglia di parlarne? 

«In effetti ci sono voluti molti anni di lotte e di scontri anche durissimi prima di arrivarci. Prima di tutto lotte con me stessa. Naturalmente per molti anni non dicevo che ero la figlia di Gegam Grigorian e di Irena Milkevičiūtė perché non ero del tutto soddisfatta di come cantavo e non volevo danneggiare o distruggere la loro reputazione. Solo oggi, e dopo un lungo processo, comincio a essere fiera di quello che faccio e sono orgogliosa di dire che sono la figlia di quei genitori».

«Oggi finalmente è arrivato il momento in cui si parla di Gegham Grigorian, di Irena Milkevičiūtė e di Asmik Grigorian, e ne sono molto fiera!»

«Lo faccio anche per ricordare alle persone chi erano quei due artisti. Anche iniziare a studiare canto in Lituania, il paese dove mia madre viveva ed era famosa, è stato terribilmente complicato. Di proposito, ho sempre evitato i ruoli che mia madre cantava in teatro e mi sono sforzata di trovare la mia strada, affrontando ruoli diversi. Oggi finalmente è arrivato il momento in cui si parla di Gegham Grigorian, di Irena Milkevičiūtė e di Asmik Grigorian, e ne sono molto fiera!».

E alla fine ti è anche capitato di cantare con tua madre in due opere di Čajkovskij, nell’Eugenio Onegin e nella Dama di picche. Come è andata? 

«È stato un po' strano. Quando capita, lei è molto nervosa per me e io lo sono per lei. Però è anche una grande gioia cantare con mia madre». 

Ma lei non prova a insegnarti o a correggerti quando sei sulla scena con lei?

«Noooo! Non è mai successo, a meno che non sia io a chiederle qualche consiglio».

Asmik Grigorian con la madre Irena Matvejev nell'Eugeni Onegin
Asmik Grigorian con la madre Irena Milkevičiūtė nell'Eugenio Onegin

Tua madre, così come tuo padre, sono stati comunque i tuoi insegnanti di canto, giusto? 

«Sì, i miei insegnanti sono stati i miei genitori fin dall'inizio della mia carriera. Quando cominci – e io ho cominciato davvero giovane, a ventidue anni – non hai voglia di studiare e vuoi arrivare sulla scena il più velocemente possibile. Ho debuttato da subito in ruoli importanti: Violetta è stato il mio secondo ruolo. Sono diventata madre molto giovane e quindi ho dovuto anche occuparmi del mio bimbo accanto al canto».

«A trent'anni ho avuto dei seri problemi vocali e, ovviamente quando questo succede a un cantante, anche psicologici»

«In quegli anni ho lavorato moltissimo e non ho mai avuto davvero tempo di investire su me stessa e soprattutto non ho avuto la possibilità di concedermi molto tempo per imparare. Grazie a Dio ho appreso una base tecnica dai miei genitori quando ero ancora una ragazza: anche quando facevo tutto sbagliato, me ne rendevo conto grazie a quei primi insegnamenti. Sapevo come avrei dovuto cantare. A trent'anni ho avuto dei seri problemi vocali e, ovviamente quando questo succede a un cantante, anche psicologici».

E a quanto pare ti sei ripresa da quella fase. 

«In un certo senso sono contenta che quel "disastro" sia capitato a trent'anni, cioè in un'età in cui puoi ancora ricominciare. E così ho fatto: ho ricominciato dall'inizio. Ho reimparato come si canta. Per questo oggi dico che ho imparato a cantare a trent'anni!». 

Cosa ti ha insegnato questa esperienza? 

«Ho cominciato davvero a capire e a imparare come si canta intorno ai trentadue o trentatré anni. E chiaramente puoi renderti conto della differenza. Parlo volentieri dei miei problemi vocali perché voglio mandare un messaggio ai giovani cantanti: non correte, non precipitatevi! Per questo mestiere ci vuole tempo. Come per ogni altro mestiere, se vuoi davvero arrivare in cima, devi studiare e imparare, e soprattutto concederti il tempo necessario senza il timore che sarai dimenticato. Questo mestiere ha bisogno di tempo per imparare come si fa. Ci sono molti cantanti che, nel momento in cui dovrebbero cominciare, sono già alla fine. Lo dico in tutte le interviste che faccio perché voglio davvero proteggere i giovani cantanti e magari evitare che facciano i miei stessi errori».

Parlando dei tuoi genitori qual è l'insegnamento più importante che ti hanno trasmesso? 

«Da mia madre ho imparato o, meglio, ho preso la gentilezza d'animo: mia madre è una persona profondamente gentile. Da lei ho preso la gentilezza vera, l'empatia vera, la disponibilità, cioè a non esitare mai a dare una mano se qualcuno ti chiede aiuto. È una qualità di cui vado molto fiera ed è il regalo più bello che mia madre mi ha fatto. Sul piano professionale, ho imparato a "organizzare" il mio corpo, cioè a gestirlo correttamente, a essere a tempo, insomma tutto quello che ha a che fare con il gestire con precisione la vita e il corpo e tutto. Da giovane non ne capivo completamente l'importanza ma ora mi chiedo come potrei sopravvivere senza quella qualità: occorre concentrazione e perfetto controllo di ogni parte del corpo per stare in scena». 

E da tuo padre? 

«Non avrei mai scelto questa professione senza l'esempio di mio padre che era uno straordinario professionista ma anche un padre eccezionale, un amico eccezionale e uno che godeva davvero della vita. Ecco, mio padre mi ha insegnato che la cosa più importante è apprezzare tutto ciò che fai: godi delle tue amicizie, del sentire gli odori, del cantare, dello stare con la tua famiglia, con i tuoi bambini. Mio padre mi ha regalato questo grande sorriso e una grande gioia per la vita. E allo stesso tempo, professionalmente mi ha dato così tanto. Da lui ho imparato soprattutto che non porti sulla scena solo il ruolo che hai imparato, ma porti tutta tua vita e la tua gioia». 

È vero che hai imparato Madama Butterfly, un tuo cavallo di battaglia, già nella pancia di tua madre? La tua prima lezione di canto? 

«È vero! [ride] Quando ha cantato quel ruolo, mia madre era incinta e c’ero io dentro la sua pancia. Amo profondamente quel ruolo e sento che questo amore viene da qualcosa di molto profondo in me. È qualcosa che nasce dalla mia storia personale. Per questo la amo così tanto». 

La stagione che verrà sarà pienissima di impegni per te, con importanti debutti alla Metropolitan Opera, al Covent Garden all'Opéra di Parigi ecc. C’è un debutto che ti sta particolarmente a cuore? 

«Già la scorsa stagione è stata impegnativa così come questa e la prossima anche di più. Nella prossima stagione affronterò per la prima volta due nuovi ruoli – Jenufa al Covent Garden e Norma al Theater an der Wien – per i quali avrò bisogno di investire molte energie». 

Norma è stato anche un grande ruolo di tua madre … 

«È vero! Norma è un ruolo completamente diverso da tutto quello che ho fatto finora. Non ho idea di come sarà. C'è sempre un po' di rischio in quello che faccio, ma è quello che fa di me Asmik. Non canto mai due ruoli che so già che sono perfetti per me. Non scelgo i ruoli in quel modo. Le mie scelte comportano sempre dei rischi e prima o poi potrei andare a sbattere. Non so come sarà Norma: potrebbe andare benissimo o anche malissimo. Quel che so è che mi impegnerò al 1000 percento facendo tutto quello che posso fare. Il resto lo lascio al caso e sono curiosa anch’io di vedere come andrà». 

Hai alle spalle davvero molti ruoli: ce n'è uno che non hai ancora fatto e che sogni di fare? 

«Non ho mai avuto il ruolo dei sogni, a parte forse Butterfly. Ce ne sono alcuni nei quali avrei voluto che mio padre mi ascoltasse, come Adriana Lecouvreur o Aida ad esempio. Mi piacerebbe cantarli prima o poi, ma la verità è che amo ogni singolo ruolo che interpreto. Imparare un nuovo ruolo assorbe così tante energie, soprattutto perché cerco sempre di essere perfetta in tutte le lingue (russo, tedesco, italiano eccetera) e mi costa davvero molto. In futuro voglio soprattutto lavorare sulla qualità. Ma al momento sono così stanca di imparare nuovi ruoli –  ogni anno ne aggiungo due o più spesso tre al mio repertorio – che mi viene da dire che i ruoli che ho sognato di fare sono tutti quelli che ho già fatto!».

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