Il 13 ottobre scorso si è celebrata la 14° Giornata del Contemporaneo, una manifestazione dedicata all’arte di oggi che dal 2005 è promossa dall’AMACI, l’associazione dei musei di arte contemporanea italiani. Da quest’anno l’iniziativa si è ampliata anche oltre confine alle ambasciate, ai consolati e agli istituti italiani di cultura all’estero, che hanno organizzato dibattiti, conferenze, mostre e concerti. È in quest’ambito che la Società Dante Alighieri di Tangeri ha organizzato un doppio incontro dedicato da un lato al nuovo cinema italiano, con una conferenza di Daniele Zuccalà, membro della Società Dante Alighieri di Malaga e direttore artistico Festival del Cinema Italiano che si terrà Malaga dal 26 al 29 novembre, e dall’altro alla musica contemporanea italiana, con un concerto del pianista Alfonso Alberti.
Il concerto, accompagnato dagli interventi e dalle spiegazioni del critico Fabio Zannoni, ha visto la prima esecuzione assoluta di due brani pianistici di Giovanni Sollima.
Maestro Alberti, come è nata questa lodevole iniziativa?
«È tutto merito di Jamal Ouassini, violinista, compositore e direttore del Comitato di Tangeri della Società Dante Alighieri. È stato lui a pensare di organizzare un concerto che offrisse un campionario delle molteplici forme in cui la contemporaneità è stata declinata dai compositori italiani, un concerto il più possibile vario in cui i pezzi eseguiti non solo fossero intercalati da brevi guide all’ascolto dettagliate, ma anche da un discorso introduttivo più ampio che illustrasse al pubblico marocchino alcune caratteristiche generali del linguaggio musicale contemporaneo. Se ne è occupato Fabio Zannoni che ha anche parlato del rapporto tra video arte e musica elettronica contemporanea, riallacciandosi al precedente intervento di Daniele Zuccalà sul cinema. Insomma, si è preso sul serio lo spirito della Giornata del Contemporaneo, offrendo al pubblico di Tangeri uno sguardo di ricognizione su un repertorio non abituale».
La struttura del concerto procedeva per coppie di autori, abbinando brani di compositori stranieri delle avanguardie novecentesche alle opere di autori contemporanei italiani.
«Sì, è questa l’idea che abbiamo seguito, insieme con Fabio Zannoni. Così facendo abbiamo potuto tracciare delle linee guida nel panorama quanto mai variegato della musica contemporanea e abbiamo allo stesso tempo aiutato il pubblico a collocare stilisticamente degli autori viventi, la cui musica era probabilmente nuova per loro».
La prima coppia era costituita da Pierre Boulez e Martino Traversa.
«Sì, è la via che definirei di una ricerca particolarmente rigorosa sul linguaggio musicale, che ha le sue radici nelle nuove avanguardie di Darmstadt. Ho eseguito quattro delle Notations di Boulez, del 1945 e tre delle Sei annotazioni di Traversa che a esse si rifanno, addirittura con una citazione letterale della numero sette. Le Annotazioni di Traversa hanno lo stesso carattere aforistico del modello e sono state composte nel 2010 con una dedica doppia, a me e a Ciro Longobardi».
La seconda via era rappresentata da György Ligeti e Ivan Fedele, con due studi per pianoforte: L’escalier du diable, del primo, e lo Studio australe 5 “Chionis Alba”, del secondo.
«In questo caso si tratta di un legame poetico, all’interno di un filone della musica contemporanea in cui la ricerca linguistica recupera formule o aspetti tecnici della tradizione (come arpeggi, note ribattute, e via dicendo) in modo da dare dei riferimenti all’ascoltatore, il quale nell’avventura sonora percepisce delle componenti riconoscibili, dei parametri che non variano accanto ad altri che invece sono sottoposti alla massima elaborazione».
Qual è poi il legame che unisce la terza coppia, Erik Satie e Francesco Filidei?
«Qui non si può parlare di filiazione diretta, ma di un accostamento che mette in luce un atteggiamento particolare verso la composizione, quello dell’esplorazione delle potenzialità ironiche della musica, puntando su un effetto di spaesamento dell’ascoltatore. Sia Satie, di cui ho eseguito una selezione dagli Sports et divertissements, sia Filidei problematizzano gradualmente strutture musicali apparentemente semplici, facendo scaturire da questo processo conseguenze dubbie e spiazzanti. Questa falsa ingenuità, questa facciata semplice che nasconde un fondo non semplice, si vede molto bene nella Filastrocca di Filidei, per pianoforte preparato, costruita su temi di nenie infantili che a poco a poco si complicano, e anche nel breve Preludio, un brano scritto di fatto in do maggiore, ma che grazie alla dislocazione costante delle note alle ottave “sbagliate”, suona estremamente ambiguo».
L’ultima coppia era composta da John Cage e da Giovanni Sollima. Qual è il legame tra i due?
«Con questo quarto accostamento abbiamo voluto rendere testimonianza di quella corrente della contemporaneità che cerca contaminazioni tra culture diverse, per esempio con la musica orientale o con il pop. In realtà il brano di Cage che ho eseguito, In a Landscape, del 1948, potrebbe a prima vista non sembrare nemmeno suo, tanto è smaccatamente eufonico. Si tratta infatti di una composizione che nella sua ripetitività anticipa certi procedimenti iterativi della minimal music, ma che è in realtà già molto rappresentativa dello spirito di Cage, perché è un chiaro esempio di esplorazione su come segmentare il tempo, preoccupazione che Cage seguirà per tutta la sua carriera».
I due brani di Sollima sono stati eseguiti in prima assoluta. Sono stati commissionati apposta per questo concerto?
«No, in realtà sono pezzi che Sollima aveva già scritto. Siccome abbiamo suonato insieme in duo e abbiamo altri concerti in programma, questa volta in trio, mi è capitato di chiedergli se per caso avesse in un cassetto qualche pezzo per pianoforte. Tra quelli che mi ha dato ho scelto Preludio I, che è un brano molto ritmato e carico di energia, e I hide myself, un pezzo che gioca molto sulla ripetitività, ma in modo molto più imprevedibile della musica minimalista ortodossa, dove le variazioni sono più impersonali e calcolate, meno dovute all’estro».
Dal quadro che avete proposto, sembrerebbe che la musica contemporanea in Italia e altrove, sia a suo agio nelle piccole forme epigrammatiche o ripetitive. C’è forse un limite del linguaggio attuale ad affrontare grandi forme, elaborate e scandite da una dialettica interna?
«No, quest’impressione che si può ricavare dal programma proposto a Tangeri deriva solo dall’intenzione di cercare la massima varietà in un concerto-conferenza che non poteva essere troppo lungo. In realtà, ci sono molti bei brani pianistici scritti negli ultimi decenni che articolano la forma musicale in composizioni di ampio respiro. Proprio tra poco eseguirò in concerto, dopo una prima parte dedicata a Liszt, Territoires de l’oubli di Tristan Murail, una composizione di quasi mezz’ora di grande drammaticità, che è per me uno dei capolavori pianistici del secondo Novecento. Oppure, in un genere diverso, posso citare Il sogno di Stradella, un importante lavoro per pianoforte e ensemble di Salvatore Sciarrino, che avrò il privilegio di eseguire al festival di Erl il prossimo dicembre».