La carriera da sogno di un pianista non sognatore

Intervista al pianista andaluso Javier Perianes, fra le radici spagnole e musica francese passando per i classici

Javier Perianes
Articolo
classica

Nato solo tre anni fa, il concerto all’aperto della hr Sinfoniorchester, l’orchestra della radiotelevisione pubblica dell’Assia, è diventato uno degli appuntamenti obbligati di fine estate a Francoforte. Grandi numeri da subito, confermati anche nell’edizione 2017 che ha visto circa ventimila presenze, dodicimila sul prato davanti al palco nel Weseler Werft sulla sponda nord del Meno e gli altri affacciati dai balconi, dalle barche e dai ponti sul fiume che taglia in due la città. Ogni anno il programma si ispira a un paese: per prima la Russia, poi l’America e quest’anno è toccato alla Spagna. Antipasto a base di flamenco con la hr Big-Band e la cantante Alba Carmona, in attesa che al tramonto l’orchestra salisse sul palco per un programma fatto apposta per piacere e affidato quest’anno alla focosa bacchetta Pablo Heras-Casado, aperto dal Ravel iberico di “Alborada del gracioso” e “Rapsodie espagnole” e concluso dal “Capriccio espagnol” di Rimski-Korsakov prima di due frammenti di zarzuela (il preludio della “Revoltosa” di Chapí e l’intermezzo piuttosto donizzettiano de “La boda de Luis Alonso” di Giménez) e con l’inevitabile bis del preludio della “Carmen”. In mezzo, le “Noches en los Jardines de España” di Manuel De Falla con un festeggiatissimo Javier Perianes al pianoforte.

“Pianista di gusto impeccabile e raffinato, dotato di uno straordinario calore sonoro” (definizione del britannico Telegraph), l’andaluso Perianes è un giovane talento della tastiera ma riconosciuto a livello internazionale, come testimonia l’attività frenetica nelle sale da concerto di tutto il pianeta in recital solistici o accompagnato da orchestre di grande prestigio come i Wiener Philharmoniker, i Münchner Philharmoniker, l’Orchestre de Paris per non citare le orchestre di Chicago e Boston e la New York Philharmonic nell’altra sponda dell’Atlantico. E nel 2012 il Ministero dell’Istruzione, Cultura e Sport del suo paese gli assegna il prestigioso Premio naciónal de Música, quando non ha nemmeno compiuto 34 anni.

Manca solo qualche ora al concerto ma Javier Perianes ci riceve con il proverbiale calore mediterraneo nel suo camerino del backstage della Sendsaal nella sede della Radiotelevisione dell’Assia, a prove appena concluse. Con lui abbiamo parlato delle tappe di una carriera di successo, delle sue passioni e dei suoi progetti, senza risparmiare qualche critica su quanto poco si investa nel suo paese e non solo per l’educazione alla musica e alle arti.

Due giorni fa hai debuttato ai BBC Proms di Londra e ora a Francoforte ti prepari per l’ormai tradizionale concerto “pop” della hr Sinfonieorchester davanti a un pubblico numericamente da stadio. Dura la vita del pianista …
«In realtà è un privilegio poterti dedicare a quello che ti piace di più, che adori, che ami profondamente come la musica. Certo l’ideale sarebbe avere più tempo per spostarti con tranquillità da un luogo a un altro e per respirare, però a volte il calendario non te lo concede. Anche se a Londra ho suonato spesso con la Philharmonia Orchestra, con i London Philharmonic, quella dei Proms è stata per me un’esperienza unica e bellissima, compreso il debutto con un direttore del livello di Sakari Orano e un’orchestra come la BBC Symphony. Insomma, un vero regalo. E ora qui a Francoforte con un altro buon amico, Pablo Heras Casado, e un’orchestra con la quale ho una relazione stupenda dopo un concerto lo scorso anno».

Il concerto qui a Francoforte è in uno spazio aperto accanto al Meno. Per un pianista particolarmente attento al colore come te non è un problema?
«Chiaro! Il suono che ti arriva non ha niente a che vedere con quello che arriva al pubblico. È una situazione completamente diversa. Quest’anno ho già fatto quattro o cinque concerti all’aperto, di cui uno al Festival di Granada, nel mitico Patio de los Arrayanes. Era un recital con musiche ispirate alla città di Granada, che la televisione Arte utilizzerà, almeno in parte, per un documentario sulla città. È evidente che all’aperto non si può controllare l’elemento acustico e sonoro nello stesso modo. C’è però da considerare che un concerto all’aperto è una specie di festa e un invito a un pubblico meno abituato a frequentare le sale da concerto a unirsi a una festa musicale. Per questo credo sia un’idea straordinaria dell’orchestra e dell’organizzazione».

Con Pablo Heras Casado, andaluso come te, hai in programma una serie di concerti nella prossima stagione oltre al concerto di Francoforte. Che relazione hai con lui?
«Con Pablo ci conosciamo da molti anni, siamo amici da lungo tempo, ci stimiamo molto reciprocamente, ma curiosamente non abbiamo mai avuto occasione di lavorare insieme fino allo scorso anno. E da allora abbiamo avuto moltissime occasioni di fare musica insieme. Il mio debutto con lui è stato nel marzo del 2016 alla Carnegy Hall a New York, nella sala grande: dopo un’attesa così lunga alla fine abbiamo debuttato in un luogo così iconico! In seguito abbiamo fatto il Concerto in sol di Ravel al Concertgebouw di Amsterdam con l’Orchestra della Radiotelevisione olandese e quindi con i Münchner Philharmoniker il Terzo concerto per pianoforte di Bartók, che abbiamo anche registrato per un disco che uscirà nella prossima primavera. Nel prossimo febbraio con Pablo abbiamo in programma una tournée in Spagna con i Münchner Philharmoniker e porteremo il concerto di Bartók a Barcellona e nelle Canarie».

Com’è lavorare con lui?
«Molto piacevole. È ovvio dire che parliamo la stessa lingua, intendo lo spagnolo ma anche la lingua musicale. Fra di noi c’è un’ottima intesa. Lavoriamo su composizioni che ci affascinano entrambi – “Noches en los jardinos de España” di De Falla, il “Concerto in sol” di Ravel, il “Concerto n.3” di Bartók. Ci divertiamo cercando angolature particolari, colori particolari. È un collega che stimo, apprezzo e ammiro moltissimo».

Hai citato De Falla di cui a Francoforte hai riproposto “Noches”, composizione alla quale torni spesso nei tuoi concerti. Non ti ha ancora stancato?
«De Falla – e stavo per dire molto “nostro”, ma in realtà molto “di tutti” – è uno dei pochi compositori spagnoli che è riuscito a internazionalizzare la sua musica. Lo scorso anno ho avuto la fortuna di suonare questo pezzo con la Chicago Symphony, la Boston Symphony, la New York Philharmonic, insomma con molte orchestre americane, oltre che qui a Francoforte con la hr Sinfoniorchester, e ti rendi conto di quanto questo pezzo sia ricco: anche se hai chiaramente elementi basici del folclore spagnolo, si respira anche molta musica francese. È curioso come questo pezzo abbia sempre un successo tremendo in Francia: credo che i francesi la sentano davvero come una loro composizione. È un lavoro prezioso, rotondo, che inizia con il mistero dei giardini del Generalife nell’Alhambra e termina in un mistero, con un pianissimo, un invito all’Oriente, al raccoglimento, passando per una festa di colori, di chitarra, di imitazione del “cantaor flamenco” con un colore una trama molto francese. Una composizione assolutamente meravigliosa».

E quindi non ti ha ancora stancato come interprete …
«Certo che no! Come ti puoi stancare di un capolavoro? Impossibile! Ogni giorno si trovano cose nuove. È come un quadro per un pittore, però noi musicisti non abbiamo l’obbligo di firmarlo quando è finito. Noi dobbiamo continuare a ricercare».

Secondo Joaquín Turina le Noches en los jardines de España sono “il più tragico e doloroso fra tutti i lavori di De Falla. Un giudizio abbastanza sorprendente: lo condividi?
«Potrebbe essere. È certamente una definizione curiosa perché questa composizione è così piena di luce. Se però la si confronta con lavori più luminosi o potenti come “El sobrero de tres picos” o “La vida breve” o “El amor brujo”, le “Noches” contengono un tratto nostalgico e anche tragico forse. È vero che è anche la più francese, la più bucolica, la più colorista e paesaggista e quella nella quale si sente maggiormente l’influsso di Debussy o di Ravel».

Andiamo alle origini: tu hai cominciato suonando il clarinetto. Quando hai deciso che saresti diventato un pianista?
«In Spagna, nei piccoli paesi, come quello in cui sono nato, era normale suonare in una banda. Non si vedevano in giro molti violini o violoncelli. E a un bambino inquieto, che iniziava e mostrava un certo interesse per la musica e che è arrivato alla musica un po’ per caso, interessava il clarinetto. Sul punto di comprare il mio primo clarinetto, una zia, che insegnava il pianoforte, me lo impedì e mi portò in un posto dove passavamo le vacanze estive al sud, a Huelga: un albergo, dove c’era un pianoforte a coda. Su di me, ragazzino di otto anni, suonare un pianoforte a coda ebbe un impatto emotivo straordinario. Mi ricordo di aver detto alla zia: “Sembra un’orchestra!”. Chiaro! Aveva un volume di suono e delle possibilità straordinarie. Di ritorno dalle vacanze, non comprammo il clarinetto e cominciai invece a studiare il pianoforte e non ho mai smesso fino a oggi. Insomma, è successo per caso. Sarebbe potuta anche andare diversamente».

Fra i tuoi maestri ci sono stati Julia Hierro, Maria Ramblado, Ana Guijaro e Josep Colon: trascurando gli aspetti tecnici del pianismo, cosa ti hanno trasmesso tutti o qualcuno in particolare?
«Sono stati quattro maestri stupendi. Ho incontrato anche dei grandi pianisti più tardi, ma un maestro è davvero colui con il quale condividi un percorso lungo e fecondo. Con ciascuno di loro ho avuto una relazione molto speciale, di grande vicinanza, molto intima direi. E alcuni, come Ana Guijaro o Josep Colon, continuo a rendere visita e a discutere di nuovi pezzi anche se ormai la relazione non è più da maestro a allievo, ma piuttosto fra colleghi. Lo dico sempre: indipendentemente dal successo o meno di un allievo, un maestro è tale per tutta la vita, fino all’ultimo giorno».

 

Fra le personalità artistiche che hanno inciso sul tuo percorso di interprete citi spesso Alicia de Larrocha e Daniel Barenboim. Che cosa hai appreso da loro?
«Ho conosciuto Alicia de Larrocha quando lei era già molto anziana. Negli ultimi anni, quando si era praticamente ritirata, ho avuto occasione di lavorare con lei in un paio di occasioni. Parlavamo di Mozart, di Brahms, di Rachmaninov e certamente anche di musica spagnola. Credo sia un esempio e una leggenda del pianoforte, stavo per dire spagnola ma in realtà internazionale. Parlando dei BBC Proms, Alicia ci era stata non in una o due ma in sette occasioni! Per un qualsiasi pianista, soprattutto spagnolo, è un modello di carriera, di pianismo. E che dire di Barenboim? Credo sia una delle personalità culturali di maggior rilievo nella storia della musica del XX e XXI secolo. Nonostante la sua agenda fittissima di impegni, l’ho incontrato diverse volte e ogni volta era ricco di consigli su Brahms, Beethoven, Chopin, Schumann. Ci sono stati anche molti altri incontri importanti che non cito per non rischiare di dimenticarmi qualcuno, compresi alcuni che ho avuto modo di conoscere solo in concerto. Ascoltare, nel senso più ampio del termine, significa imparare, anche per contrasto, magari in pezzi che tu eseguiresti in maniera completamente diversa».

Il tuo repertorio è fortemente ancorato alla musica del tuo paese: De Falla, ma anche Granados, Albéniz per non citare i meno noti Federico Mompou e Manuel Blasco de Nebra. È una scelta obbligata per un pianista spagnolo? Personalmente senti un legame speciale con quella musica?
«È curioso: suono molta musica spagnola, in concerto, adesso che ho 38 anni ma con la mia etichetta discografica, Harmonia Mundi, abbiamo fatto Beethoven, Schubert, Mendelssohn, Grieg ma anche Bartók e Ravel, e iniziato un progetto vasto intorno a Chopin. Se suono musica spagnola non è perché sono spagnolo. Non lo considero un obbligo ma una devozione. E credo che, benché non sia un obbligo, un musicista spagnolo dovrebbe comunque eseguire musica del proprio paese, quella di qualità più alta. Detto questo, la musica spagnola è meravigliosa, anche se non tutta lo è né tutta mi interessa. Mi interessa molta musica di De Falla, di Granados, di Turina. In alcuni dei miei recital mi piace invitare il pubblico a un viaggio e proporre parti ben differenziate, come nel mio recital a Granada: nella prima parte lavori di Schubert e nella seconda lavori francesi e spagnoli che si collegavano alla città che ci ospitava. Nel passato ho anche dedicato un disco a Manuel Blasco de Nebra, che esteticamente potremmo paragonare a Carl Philipp Emmanuel Bach o a Domenico Scarlatti. Insomma, musica spagnola sì, ma musica in cui si crede. E comunque non è affatto detto che un mucista spagnolo sia il miglior interprete per quella musica: nelle “Noches” di De Falla ci sono delle registrazioni straordinarie di Arthur Rubinstein, di Marta Argerich e di Daniel Barenboim (anche se a dire il vero lui ha anche un passaporto spagnolo) per non parlare di Aldo Ciccolini, che ha suonato musica spagnola come o meglio di molti spagnoli».

Spagnoli a parte, nel tuo repertorio figurano anche i grandi classici del pianismo come Mozart, Beethoven, Schubert, Schumann, Brahms e altri: scelta necessaria pre crescere come interprete?
«È l’ABC per un pianista! Non si può arrivare a Bartók senza essere passati per tutti loro. Non si può arrivare alla musica francese senza essere passati per Chopin. E del resto si può arrivare a Chopin senza essere passati per Mozart? E si può davvero dire di conoscere Chopin senza essere passati per il belcanto italiano? Per arrivare ai contemporanei occorre passare per i classici. E qual è la base, l’ “imperatore” da cui tutti dipendono: è Johan Sebastian Bach. È un repertorio che va affrontato non soltanto quando si è studenti al Conservatorio ma anche quando si intraprende la carriera concertistica». 

La musica francese occupa un posto speciale nel tuo repertorio: come è nata questa passione?
«È una passione che ho da quando ero molto giovane. Ne ho suonata moltissima e continuo a farlo. Uno dei miei prossimi dischi in uscita con Harmonia Mundi il prossimo anno sarà dedicato ai “Préludes’” e “Estampes” di Debussy, del quale con diversi artisti ci siamo impegnati a registrare l’integrale per l’etichetta francese. Uscirà in disco anche il concerto di Ravel, che ho registrato di recente con l’Orchestre de Paris. A Londra ho fatto il Concerto n. 2 di Saint-Saëns e nella prossima stagione suonerò anche il suo Concerto n. 5».

… che a dispetto della definizione di “Egizio” suona molto spagnolo …
«Certo! Il secondo movimento. Mi ricordo di averlo suonato una volta con la London Philharmonic e Vladimir Jurowski, al quale avevo detto: “È egizio ma suona molto spagnolo”. E lui: “No, no, no. È egizio” Cioè il tema è arabo ed è evidente che esiste un legame fra la musica del nord Africa e quella del sud Europa. L’ho suonato molto nel passato, incluso con Sakari Oramo e la BBC Symphony molti anni fa, e quest’anno lo farò a Indianapolis, Basilea. Saint-Saëns è un compositore molto originale; la sua musica è piena di allegria, ispirata a un melodismo che va dritto al cuore e, come dicevano l’altro giorno ai Proms del Concerto n.2, è “pure joy”».

Come ti definiresti come pianista?
«Le definizioni la lascio agli altri. Non ho tempo per pensare a me stesso. L’altro giorno un giornalista spagnolo mi chiedeva come mi sentissimi prima del debutto “storico” ai BBC Proms citando Alicia de Larrocha, Rafael Orozco, ecc. Io gli ho mostrato la partitura del Secondo concerto di Saint-Saëns e gli ho detto: “Questo è il mio problema!” Più che pensare alle definizioni, io preferisco fare musica. Definizioni, ma anche le critiche positive o negative che siano, le lascio a chi mi ascolta, che ha tutta la libertà e il diritto di darle».

Un tuo pianista ideale?
«Se comincio con la lista temo che non avremo abbastanza tempo. Fra i viventi, Barenboim, Grigory Sokolov, Maria João Pires, e fra i più vicini alla mia generazione Leif Ove Andsnes e Arkadij Volodos. Fra quelli che non ci sono più, Dinu Lipatti, Rubinstein, Jozef Hoffmann, Sofronitsky, che è un pianista magico, Clifford Curzon, ma fra i viventi anche Mitsuko Uchida, Marta Argerich, Murray Perahia, Richard Goode, Emmanuel Ax … non abbiamo tempo di citarli tutti! Ti possono piacere o meno, ma quando vedi una personalità artistica difficile restare indifferenti. Io mi interesso moltissimo a quello che fanno i miei colleghi e, quando ne ho l’opportunità, cerco sempre di ascoltarli o di andare ai loro concerti. Mi piace, mi affascina, mi interessa ascoltare altri colleghi e vedere cosa fanno».

Tornando alle tue scelte di repertorio, la musica contemporanea invece sembra del tutto assente.
«Solo negli ultimi anni. Ma ricordo che all’inizio della professione feci una serie di otto o dieci concerti dedicati alla musica degli anni ’60 dello scorso secolo con musiche di Guibaidulina, Schnittke, Wolfgang Fortner, Berio, Kurtág, Michael Tippett. Fu un programma lunghissimo e durissimo per la tecnica più che per l’ascolto: la musica era meravigliosa. Non nascondo che sto pensando di commissionare un concerto a un compositore. Non ho una scadenza precisa ma voglio farlo prima o poi. Certamente ho un grande interesse per la musica contemporanea».

Di contemporaneo c’è anche il tuo interesse per la musica folk del tuo paese, il flamenco in particolare. È dello scorso anno la registrazione con Estrella Morentes delle “Siete canciones populares españolas” di De Falla e delle “Canciones españolas antiguas” di García Lorca. Stai pensando a altri progetti come questo?
«Quello è stato una specie di esperimento o di semplice follia che ha coinvolto me, Estrella e tutta Harmonia Mundi. Estrella appartiene al mondo del flamenco, io al mondo classico. Fin dall’inizio, però, avevo chiaro che non mi sarei messo in un mondo che non mi corrisponde. Tutto il repertorio di questo disco con Estrella che può fare qualsiasi pianista “classico”: la musica di De Falla è scritta di suo pugno, sia le canzoni che anche l’adattamento dei quattro numeri di “El amor brujo”. Quelle di García Lorca sono trascrizioni di canzoni popolari, che la gente cantava nei paesi, e quindi si prestavano ad essere interpretate da una voce folk come quella di Estrella, che cantava quelle canzoni fin da bambina. La scelta di chiamare quel disco “Encuentro” è stata molto felice perché si tratta davvero di un incontro fra due artisti che provengono da tradizioni musicali completamente differenti. Se ci saranno altri progetti come questo, non ti so dire. Al momento mi concentro sui programmi già organizzati per il prossimo anno e non ci sono spazi per progetti come quello».

Come vedi la situazione della musica nel tuo paese? Intendo l’offerta di musica ma anche l’educazione musicale?
«Hai detto la parola giusta: educazione. Tralasciando gli anni della grande crisi economica che ha colpito molti paesi europei e la Spagna in particolare, negli ultimi 25 anni nel paese c’è stato un boom con la creazione di auditori e di nuove orchestre. Ossia, si è creato un tessuto culturale molto potente e però senza avere la tradizione musicale del centro Europa. E questo sicuramente si nota. Si nota anche di più che la musica, ma anche le altri arti, non ha ancora un posto preciso, soprattutto perché manca l’educazione alle arti. L’investimento in Spagna, ma anche altrove, dovrebbe essere esteso anche e soprattutto all’educazione. La musica e le altre arti dovrebbero entrare nel curriculum di ogni studente come parte della sua formazione. Per me è penoso constatare che giovani universitari di 25 anni non sappiano esattamente chi sia Schumann. Molte iniziative vengono attualmente prese direttamente dalle orchestre, che sviluppano programmi educativi per le scuole primarie e secondarie soprattutto per avvicinare i giovani alla musica classica. Matematica, geografia, storia e letteratura sono sicuramente discipline fondamentali per la formazione degli esseri umani, però anche l’arte, la scultura, l’architettura, il cinema e ovviamente la musica dovrebbero essere trattate allo stesso livello».

Personalmente ti dedichi a qualche attività in questa direzione?
«Sinceramente, mi considero ancora uno studente! Scherzi a parte, il mio calendario davvero non me lo concede. Curiosamente a Huelga hanno deciso anni fa di intitolarmi il Conservatorio locale. Da ex studente di quel Conservatorio, mi sono sentito lusingato ma ho anche provato un senso di vergogna. Certamente nel futuro mi piacerebbe stabilire un qualche contatto con quel conservatorio, magari per delle masterclass da tenere una volta l’anno. Al momento però non potrei dedicarmici anima e corpo, come in tutto quello che faccio, per poter dare il massimo. Per quanto mi riguarda, trovo ancora appassionante studiare: quando mi siedo davanti alla tastiera e so di poter dedicare due o tre ore allo studio, per me è il miglior momento. Forse anche meglio del concerto. Diciamo che mi sento ancora un po’ giovane per dare consigli. Preferisco lasciarlo per domani».

Per chiudere: un tuo sogno?
«Non sono un sognatore. Se cinque o sei anni fa mi avessero detto che avrei suonato ai Proms, alla Carnegy Hall, con la New York Philharmonic, con la Chicago Symphony, con i Wiener Philharmoniker, con i Münchner Philharmoniker, avrei pensato che sì, sarebbe stato un sogno fantastico. Il fatto è che non lo penso come un sogno. A me piace vivere di cose reali, di un giorno dopo l’altro, concentrandomi nel presente. Mi piace ricordare una battuta di un film di Almodóvar che dice: “Stai attento a quello che sogni, perché potrebbe diventare realtà”».

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