Julius Caesar, tragedia del dubbio

Una conversazione con Giorgio Battistelli a pochi giorni dal debutto al Teatro dell’Opera di Roma della sua nuova tragedia in musica con libretto di Ian Burton tratto da Shakespeare

Giorgio Battistelli alle prove di "Julius Caesar" all'Opera di Roma (foto di Fabrizio Sansoni)
Giorgio Battistelli alle prove di "Julius Caesar" all'Opera di Roma (foto di Fabrizio Sansoni)
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Una scelta coraggiosa quella del Teatro dell’Opera di Roma, senza precedenti nella storia recente del teatro. Il prossimo 20 novembre si inaugura con una prima assoluta: Julius Caesar di Giorgio Battistelli. Anche più insolito per le abitudini del nostro paese è il grande investimento artistico del teatro lirico della capitale per questa produzione: sul podio salirà il direttore musicale Daniele Gatti, mentre Robert Carsen curerà il nuovo allestimento, che avrà le scene di Radu Boruzescu, i costumi di Luis Carvalho e il disegno luci curato dallo stesso regista canadese con Peter Van Praet. Molto curato anche il nutrito cast vocale quasi tutto di lingua inglese, con Clive Bayley come Julius Caesar, Elliot Madore come Brutus, Dominic Sedgwick come Marc Antony, Julian Hubbard come Cassius, Michael J. Scott come Casca, Hugo Hymas come Lucius, Alexander Sprague come Octavius e Ruxandra Donose come Calpurnia, unica presenza femminile, per citare solo i ruoli principali. Per il compositore Giorgio Battistelli questo nuovo Julius Caesar tratto da William Shakespeare, come il fortunato Richard III del 2005, sarà solo il primo titolo di una stagione che si annuncia ricca di occasioni: nel prossimo marzo è annunciato il debutto di Baruffe dalla commedia di Carlo Goldoni al Teatro La Fenice, mentre nel 2023 la Deutsche Oper di Berlino si prepara ad accogliere il suo Teorema da Pier Paolo Pasolini.

Per parlare di questo importante debutto ma anche di come (non) è cambiato il mondo dopo la pandemia, abbiamo incontrato Battistelli a Roma mentre le prove del Julius Caesar stanno entrando nel vivo.

Giorgio Battistelli (foto di Fabrizio Sansoni)
Giorgio Battistelli (foto di Fabrizio Sansoni)

Cominciamo con una citazione verdiana: «Ah, Shakespeare! […] il gran maestro del cuore umano! Ma io non imparerò mai!». Sottoscrivi?

«Sottoscrivo in pieno: nemmeno io non imparerò mai! Ogni volta che leggo Shakespeare anche da angolature diverse, trovo i suoi testi talmente forti e preveggenti su tutti i meandri dello spirito e del comportamento umano. Ed è un aspetto sempre sorprendente per me. Riccardo III è stato davvero un viaggio iniziatico all’interno di quel mondo simbolico. Iniziando a scrivere il Giulio Cesare mi sono reso conto che ci sono delle analogie fortissime come forse in tutte le tragedie di Shakespeare, o per lo meno in quelle che conosco meglio. Ci sono sempre degli elementi che ritornano, come si trattasse non dico di un format ma quasi di un “punctum” come perimetro di proiezione di significati fondamentali che tornano nei vari lavori. In questo Shakespeare è davvero unico: non soltanto ci narra la storia per quella che è, ma ci illumina anche su quello che c'è dietro, cioè la dimensione psicologica, le debolezze della condizione umana ma anche l’aspetto diabolico e il più disumano. La sua è una rilettura della storia umana attraverso una drammaturgia universale e meravigliosa».

In che senso Shakespeare ti aiuta nel tuo lavoro di compositore?

«Shakespeare è il “librettista” o, meglio è l’autore di testi con i quali mi sono sempre sentito tranquillo. Non ho cioè mai avuto incertezze sul percorso drammaturgico del mio lavoro. E questo accade perché c'è una solidità del testo, una struttura, un ritmo talmente forte, talmente bello, che soltanto i grandi drammaturghi hanno. Lo si ritrova anche nella mia esperienza recente con Goldoni, che è tutt'altra cosa rispetto a Shakespeare, ma anche in Goldoni trovi un ritmo drammaturgico che è al di là, che non c’entra nulla con la scrittura del testo vera e propria. Si tratta piuttosto del tempo di scrittura, del tempo dell’apparizione e della sparizione dei personaggi e delle loro parole, della loro voce».

Dopo Richard III e Julius Caesar, quale titolo potrebbe completare una possibile trilogia Shakespeare-Battistelli?

«Una trilogia non sarebbe un percorso esaustivo ma avrebbe una sua forma compiuta, con tre titoli sul dramma del potere. In effetti con Robert Carsen e soprattutto con Ian Burton, che dopo Richard III ha curato anche il libretto del Julius Caesar, abbiamo davvero parlato di completare una trilogia shakesperiana. Come anche Verdi avrebbe voluto farne un’opera, ovviamente il King Lear sarebbe un titolo forte ma anche più popolare con gli aspetti negativi che ciò comporta, senza dire che già esiste un’opera riuscita come quella di Aribert Reimann. Non sarebbe comunque un problema. Piuttosto, il libretto rischierebbe di essere molto vicino a quelli delle altre due opere. Da tempo Ian Burton suggerisce Pericle, che è uno dei primi lavori di Shakespeare, pochissimo conosciuto. Si tratta di un lavoro giovanile ma con molti rimandi anche al teatro antico, ricco di simbologie. Il dibattito è molto acceso e non c'è ancora alcuna decisione. Dipenderà ovviamente anche da chi sarà il produttore: una volta trovato il giusto interlocutore, il giusto “principe” decideremo quale sarà il titolo che completerà la trilogia».

Quanto è determinante la committenza nelle tue scelte?

«A me piace molto sentire la voce del produttore, come è accaduto con Julius Caesar, che viene da un’idea e da una proposta di Carlo Fuortes, sovrintendente uscente dell’Opera di Roma. L’idea gli venne quando vide Richard III e la proposta arrivò quando Fuortes venne a Venezia tre anni fa in occasione della ripresa dello spettacolo al Teatro Fenice. Ricevuta la proposta, mi misi immediatamente al lavoro. È successo anche con l’entusiasmante proposta arrivata dal sovrintendente e direttore artistico del Teatro La Fenice, Fortunato Ortombina, quando mi propose un lavoro sulle Baruffe chiozzotte di Carlo Goldoni dedicandolo alla memoria di Cesare De Michelis, a lungo presidente della Marsilio Editori e presidente del comitato per l’edizione nazionale delle opere di Goldoni. Con questo non voglio dire che io lavoro solo se ricevo una commissione. Per me la commissione non è semplicemente dare carta bianca a un autore. Ovviamente io sono libero, posso scrivere quello che voglio, però per me è importante avere un dialogo con il sovrintendente ossia con l’“impresario”, un personaggio partecipe al processo creativo. Un tale dialogo dà uno spessore culturale di sensibilità, com’era lo stile di un impresario come Paolo Grassi o, in parte, Massimo Bogianckino. Sono stili di altri tempi, ma che avevano un controllo del teatro non soltanto attraverso i numeri, cioè la gestione pratica, ma attraverso un percorso culturale profondo, di innovazione e di diversità rispetto a quello che facevano gli altri. Oggi, invece, assistiamo a un’omologazione impressionante: più o meno tutte le programmazioni si somigliano».

Prove di "Julius Caesar" all'Opera di Roma (foto di Fabrizio Sansoni)
Prove di "Julius Caesar" all'Opera di Roma (foto di Fabrizio Sansoni)

Con Julius Caesar affronti dunque ancora uno Shakespeare e ancora una tragedia del potere: quanto c’è di diverso da Richard III in questa tua nuova avventura shakespeariana?

«Io credo che nella storia dell’umanità ci sia un prima e un dopo la morte di Giulio Cesare. Si tratta di un punto cruciale importantissimo: nascono una serie di modelli importanti, l'idea della dittatura, l’idea dell'impero. Quell’assassinio, quei pugnali insanguinati, quella congiura rappresentano un archetipo di quello che sarà l'umanità da quel momento in poi.
Rispetto al Richard III c’è una grande differenza: quella è un’opera di azione o di diverse azioni che accadono al suo interno. Quando ho iniziato a scrivere la partitura, mi sono reso conto che Julius Caesar è un lavoro profondamente amletico, cioè di una tragedia “dubitante”. È una lettura per me nuova sotto certi aspetti, perché nei miei incontri precedenti con questo lavoro ero stato rapito più dalle sue dinamiche interne e dalla psicologia dei personaggi. Nel Julius Caesar ci sono certamente delle morti, delle uccisioni, ma si raccontano soprattutto i drammi psicologici di tutti i congiurati e, in più, la dimensione del dubbio che avvolge tutti, anche i nemici più fanatici e dichiarati di Cesare. Il capofila di questa dimensione, che io chiamo dubitante, è proprio Bruto, il personaggio al quale mi sono più affezionato prima di arrivare a scrivere “fine” alla pagina 718 della mia partitura. Certo, Giulio Cesare è un personaggio di grande fascino, di grande carisma, ma Bruto mi ha conquistato per quel suo alone dubitante, racchiuso nella sua affermazione: “Tra Roma e Cesare, ho scelto Roma”, che pronuncia per rafforzare la sua scelta di aver condiviso con i congiurati un omicidio così atroce. Un omicidio seguito dallo spaesamento di tutti i congiurati, che richiama quello di Achille sul cadavere di Ettore. È lo spaesamento che coglie quando si perde un punto di riferimento, una guida precisa. E Cesare lo era. Julius Caesar è fondamentalmente un dramma psicologico ed ha una dimensione amletica. Anche i momenti di azione come la battaglia finale sono sottintesi. La battaglia non si vede in scena, nella mia opera come nella tragedia di Shakespeare: viene raccontata ma soprattutto nella dimensione psicologica di come la vivono i diversi personaggi
».

Rispetto all’originale, vi siete presi qualche libertà con il librettista Ian Burton?

«Un elemento di novità nel libretto di Burton, che naturalmente abbiamo tutti condiviso, è il ritorno di Cesare dopo l’uccisione come fantasma. Cesare si vendica, portando ciascuno dei congiurati, soprattutto quelli più vicini a lui, a uccidersi. Forse quell’apparizione è quello che ciascuno di loro si porta dentro e che li spinge a morire, uno dopo l’altro, soprattutto Cassio e Bruto. Non muoiono perché hanno perso la battaglia, ma per quello che hanno compiuto».

Che tipo di riflessione ritieni possa portare un soggetto come quello del Julius Caesar alla sensibilità del pubblico contemporaneo?

«L'idea della dubitanza mi piace in questo momento in cui tutti vogliono o aspirano a grandi certezze. Viviamo in un mondo globalizzato anche nel dubbio ed è il dubbio che ci fa crescere. Il dubbio amletico, filosofico. La certezza ti chiude il perimetro, il dubbio lo spezza, lo allarga. Per noi che scriviamo, che viviamo il nostro tempo mi sembra una riflessione molto più interessante. E poi non si può non pensare al dramma del potere, alla lotta per la supremazia, riflessione molto importante e quanto mai attuale oggi. E penso a tutte le varie sfaccettature di come si possa esercitare il potere, verso un popolo o verso la diversità.
È quello che l’opera oggi deve essere: non deve solo parlare di sentimenti, ma deve anche stimolare una riflessione critica sul nostro presente».

Giorgio Battistelli e Robert Carsen (foto di Fabrizio Sansoni)
Robert Carsen e Giorgio Battistelli (foto di Fabrizio Sansoni)

Richard III, CO2 e ora Julius Caesar: ancora un tuo lavoro che nasce per la scena grazie a Robert Carsen. Com’è cambiata la vostra collaborazione ormai ventennale?

«La modalità di lavoro non è cambiata. Ognuno di noi conosce i tic, le fisime e le sensibilità dell'altro. Conosciamo reciprocamente anche le nostre diversità. Una di queste è il bilanciamento fra la voce e l'orchestra, fra il suono orchestrale e la voce. Io ritengo che l’apparizione, lo svolgimento, l’andamento della voce e del canto (e quindi della narrazione) sia sempre dialettico con l’orchestra. Se c’è una frase o una mezza frase o una parola che sfugge perché sta “dialetticamente” all'interno dell’orchestra e quindi non è pienamente comprensibile all’ascoltatore nel suo significato letterario o letterale, non vuol dire che non lo possa essere nel suo contenuto psicologico. Molti anni fa alla prova generale di Outis di Luciano Berio alla Scala, ricordo un passaggio in cui la voce del protagonista era totalmente coperta dall'orchestra in alcuni passaggi. Si vedeva solo il movimento labiale del cantante e si sentivano solo suoni deboli coperti dalla massa orchestrale. All’intervallo lo feci notare a Luciano, amichevolmente: “La voce non si sente”, e lui mi rispose piccato: “E chi l'ha detto che si deve sentire?”. Berio era convinto che la voce fosse un pretesto: portatrice di un testo, ma anche “pretesto” per dare un senso diverso al testo o un’altra dimensione di senso. A mio avviso questo è un concetto di teatro musicale forte. C'è poi un concetto “barocco”, al quale è legato molto di più Robert Carsen, che vuole che il testo si debba sentire e comprendere tutto, dalla prima all'ultima parola. È un’altra concezione, non molto diversa da quella che aveva Monteverdi. Su queste due diverse visioni ci confrontiamo sempre in maniera molto viva e interessante».

Il fatto che il cast vocale di questo Julius Caesar sia praticamente tutto di lingua inglese, con pochissime eccezioni, riflette quindi quell’idea barocca di teatro musicale?

«Non necessariamente. Va detto si tratta di un cast meraviglioso: sono tutti cantanti eccezionali. Per me era soprattutto importante che si sentisse il suono straordinario della lingua di Shakespeare, che è esattamente come lo avevo immaginato scrivendo nota dopo nota. Avere la garanzia che la pronuncia e la padronanza del testo fossero assolute era un’esigenza condivisa da tutti, da Carsen ma anche dal direttore Daniele Gatti e naturalmente da me. Qua e là affiorano venature nella mia scrittura che possono far pensare a Berg o a Britten, ma proprio perché c'è quel colore della voce tipico della pronuncia inglese».

Hai citato Daniele Gatti, direttore musicale dell’Opera di Roma: un grande direttore d’orchestra ma per questa inaugurazione insolita è alle prese con un repertorio, quello contemporaneo, per lui poco consueto. Come è stato il lavoro con lui?

«Daniele è entrato nell’opera lentamente, con molto coinvolgimento emotivo e ha realizzato una concertazione davvero straordinaria. Parliamo di un grande direttore, di un concertatore meraviglioso. In questi ultimi giorni di prove, vedo che è contento nel gesto e lui stesso qualche giorno fa mi ha detto che il lavoro con l’orchestra è a posto e che è quindi possibile lavorare sui dettagli. Ha fatto realmente un lavoro stupendo con l’orchestra del Teatro dell’Opera».

È un problema solo italiano quello di grandi direttori che mostrano una scarsa propensione alla musica nuova o si tratta solo di scarse opportunità, visto che in Italia la produzione contemporanea non è così abbondante?

«Anche Claudio Abbado, quello forse più attento alla contemporaneità fra i direttori d'orchestra italiani, aveva degli innamoramenti molto esclusivi nella produzione contemporanea: Giacomo Manzoni, ma soprattutto Luigi Nono, qualcosa di Bruno Maderna o qualche compositore di area tedesca, qualcosa di Wolfgang Rihm … È un problema culturale di tanti ottimi direttori italiani, che non brillano per curiosità verso quello che si scrive oggi. Va anche detto che un pezzo nuovo richiede molto studio e molto tempo di preparazione: soprattutto gli interpreti più richiesti non potrebbero dedicare troppo tempo allo studio. Ma alcuni sono spaventati dalla contemporaneità e dal confronto con il compositore vivente. Nel mondo della musica, c'è una dimensione consumistica molto forte: i teatri devono produrre, produrre, produrre e i direttori devono poi smaltire tutto il lavoro. Peccato! Si dovrebbe certamente produrre più musica contemporanea ma anche creare le condizioni di un certo tipo per presentarla nel modo migliore e questo è un problema strettamente e profondamente culturale, non pratico. Molto lavoro andrebbe fatto anche sul pubblico. Mi è stato chiesto di recente se ritengo che un ascoltatore medio italiano sia diverso da uno austriaco o tedesco. Ho risposto che un ascoltatore modello, tipico, tedesco della media borghesia non direbbe mai prima di andare a sentire un’opera nuova: “quanto dura?” perché non sarebbe un problema e non sarebbe comunque la prima preoccupazione».

Dopo il Jules Caesar di Roma sono in arrivo Le baruffe da Goldoni al Teatro La Fenice e un po’ più in là Teorema da Pasolini alla Deutsche Oper di Berlino: una tragedia storica, una commedia e un dramma borghese. Come ti misuri con soggetti così diversi? Cambia il tuo approccio alla “messa in musica” di soggetti così diversi e lontani?

«Il mio veicolo è sempre la musica e attraverso il veicolo del suono posso entrare ovunque. Berio diceva: “noi abbiamo la fortuna che la nostra astronave è la musica”. Certamente i soggetti che hai citato sono molto diversi ma queste scelte appartengono anche un po' ai miei interessi personali, alla mia sensibilità e anche ai miei ritmi di scrittura. Attraverso la scrittura musicale scopro dei testi, scopro delle ricchezze e ogni opera è qualcosa di diverso. Che collegamento c'è fra Ernst Jünger e Jules Verne? O fra l'Antico Testamento e Goldoni o Shakespeare? Sono fonti diversissime ma tutto questo fa parte del mio presente, del mio mondo».

«Una dimensione alla quale tengo molto è quella della “estetica radicante”, un concetto che è stato applicato all’arte visiva e approfondito meravigliosamente dallo studioso francese Nicolas Bourriaud».

«Una dimensione alla quale tengo molto è quella della “estetica radicante”, un concetto che è stato applicato all’arte visiva e approfondito meravigliosamente dallo studioso francese Nicolas Bourriaud. Nei suoi scritti ho ritrovato in maniera molto chiara quella che è la mia dinamica di scrittura, che potrei descrivere come fatta di radici che vanno in profondità, sviluppandosi in direzioni diverse, nutrendosi di elementi diversi. Crescono in maniera diversa ma tutte insieme fanno crescere un unico fiore, un unico albero che è l’opera. Mi piace questa simbologia, che fa riferimento a un concetto filosofico-estetico completamente diverso dall’eclettismo, dal collage, dal citazionismo, approcci che personalmente trovo davvero riduttivi. Nell’estetica radicante si tratta di qualcosa di molto più profondo, che si sposa molto bene con il tipo di scrittura che sento mia, che ho messo a fuoco negli anni, che è anche un approccio relazionale nel quale situazioni musicali diverse gettano ponti fra di loro e ti mettono in relazione con altre dimensioni. È la dimensione che sento più vicina al mio modo di comporre».

Quanto sono state formative la tua esperienza di spettatore onnivoro fin da bambino?

«L’ho raccontato già spesso che io sono cresciuto in un teatro. Anzi, in due teatri: mia nonna era proprietaria di cinema e teatri, e quindi sono stato abituato sin da piccolo a vedere soprattutto teatro leggero e varietà, e ogni tanto anche l’opera portata da qualche compagnia di giro. Nella mia infanzia e adolescenza avrò visto migliaia di film. Per me quell’esperienza era assolutamente normale e grazie ad essa ho nutrito un tipo di creatività immaginativa molto forte. A volte la musica la vedo prima di scriverla, nel senso che la immagino come forma. e poi vado ad approfondirla con l’orecchio».

Torniamo alle Baruffe chiozzotte, un testo che offre molti spunti comici. La comicità è la grande assente del teatro musicale di oggi. Perché si ride così poco nella musica contemporanea?

«È vero: nella musica contemporanea si ride poco. Ricordo ancora una volta Berio, che mi invitava a tenermi ben stretta la mia dimensione ironica. Anche Mauricio Kagel diceva che si ride troppo poco e quando si ride si pensa che la musica è superficiale, non profonda. Il suo approccio, molto importante per la Neue Musik, è però piuttosto basato sul sarcasmo. I suoi non sono lavori comici ma giocano sul paradosso, sugli eccessi, come Staatstheater, o a molti suoi lavori strumentali che sono piuttosto parodie«».

«Quanto alle Baruffe, non è stato tanto il soggetto comico che mi ha attratto, ma piuttosto lavorare sul suono del dialetto. Mi sono appoggiato molto sul suono di quel dialetto, che credo sia stato messo in musica in pochissime partiture. Il coro sta provando già da diversi mesi, con l’intervento qualche volta di un esperto di dialetto chioggiotto che aiutava con il senso di alcuni termini o frasi. Credo che le linee vocali che ho scritto per quest’opera siano fra le più difficili che ho mai composto: c’è una complessità di scrittura ritmica e intervallare molto elevata. La forma del canto è una ibridazione o una compenetrazione di una specie di Sprechgesang ridondante, enfatico e fortemente espressivo, necessario per raggiungere e chiudere quel tipo di fraseggio che appartiene al suono della lingua chioggiotta, che a volte sembra fatta di suoni quasi onomatopeici. All'interno di quei suoni ci sono significati enormi nei dialoghi tra i personaggi. In contrasto, la struttura musicale o contrappuntistica è molto più semplice: l’armonia è molto più distesa, perché è la voce a muoversi e non volevo avere elementi che potessero distogliere dalla dimensione del testo e della lingua. Nelle Baruffe c’è una drammaturgia di parole straordinarie che diverte e che fa ridere soprattutto chi conosce quella lingua. Per me è stata una grande sfida trasferire quell’idea nella musica».

Parlando di sfide, nella nostra conversazione in piena pandemia nel maggio 2020, hai usato parole dure contro la “dittatura del numero” che è sembrata prevalere nelle logiche ministeriali fino a prima della pandemia. Il fatto di aver chiuso i teatri paradossalmente poteva aprire delle nuove prospettive. Vedi dei segnali di cambiamento o siamo tornati all’antico?

«Peggio: siamo tornati molto più indietro. Siamo tornati alla restaurazione, alla paura, perché sono mancati il coraggio, la curiosità, l'intelligenza e la volontà. Non c'è stato un pensiero che ha trascinato, che ha prodotto una visione di sviluppo e di come immaginare il teatro del futuro. Nella gran parte dei teatri in Italia c'è stata un'attesa, come nel Deserto dei tartari, di qualcosa che non verrà mai oppure di una soluzione che altri dovranno trovare. Gli altri sono il Ministero oppure, chissà, il mondo della scienza, i medici, i virologi, senza sapere che anche nel momento in cui diranno che è tutto tornato alla normalità (cosa impossibile secondo me), da un punto di vista culturale non si tornerà mai più alla situazione precedente. Insomma, non c'è stata la capacità di inventarsi un mondo nuovo. Noi abbiamo subito, abbiamo vissuto, stiamo ancora vivendo una trasformazione antropologica e culturale profonda, forte, e stiamo riapplicando invece i modelli del passato rispetto alla comunicazione del teatro, di come proporre l’opera. E questo è un errore perché abbiamo perso un’opportunità straordinaria di inventarci la costruzione di un teatro nuovo ma anche di un cinema nuovo. Di un modo nuovo di pensare a questi involucri, a questi spazi dove proporre cultura. Ecco, la pandemia ci ha dato l'opportunità di inventare una cosa e invece stiamo stati terrorizzati dalla paura di perdere il pubblico, di perdere i “numeri”, che ci ha tolto una visione, una creatività, la possibilità di avere una visione da proiettare all'orizzonte».

“Quo Vadis, Orchestra?” è il motto per la tua prima stagione alla direzione artistica dell’Orchestra Haydn. Qual è la tua risposta?

«Quel "Quo vadis?" viene in effetti da un convegno che volevo organizzare in uno spazio fra Trento e Bolzano ma che poi è saltato per problemi di autorizzazione. Mi auguro di recuperare forse a Torre del Lago la prossima estate. La domanda però resta sempre attuale e forte e magari a Torre del Lago si chiamerà “Quo vadis, opera?”, domanda altrettanto importante e insidiosa come quella che ci poniamo sull'orchestra. L'orchestra è un oggetto culturale, non naturale, che ha qualche centinaio di anni. Non può rimanere invariata, come non possono rimanere invariati gli spazi dove noi ascoltiamo musica. Ma anche chi produce la musica deve cambiare: è l'inquietudine che hanno avuto dei compositori Maderna, Kurtág, Grisay, Boulez e tutti coloro che hanno cercato di allontanarsi dalla forma storica dell'orchestra. Tutti loro hanno sempre affrontato il problema di come uscire dalla forte connotazione storica dell’orchestra e dal suo suono codificato. È necessario inventare nuove modalità, che non significa rinunciare a suonare Haydn, Mozart, Beethoven, Schubert o non rappresentare più Monteverdi, Händel, Mozart o Reimann. Significa piuttosto ampliare, avere una dimensione modulare e plastica che oggi è necessaria, perché è quello che ci chiede oggi il nostro tempo. Non cambiare significa ridursi a gestori del museo. Su questo si pone la domanda, retorica, di ministri e programmatori: come avvicinare i giovani alla musica?».

E come si avvicinano i giovani alla musica?

«Sicuramente non proponendogli una cosa mummificata. Due anni fa feci un ciclo di conferenze in alcune scuole di Roma. Per mia curiosità posi a tutti la stessa domanda che riguardava il loro rapporto con l’ascolto in un concerto sinfonico o di un’opera. Gli aspetti problematici per i ragazzi erano la durata e come si sta seduti dentro alle sale da concerto. Vogliamo cominciare a porci questo problema?».

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Articolo in collaborazione con Fondazione Busoni

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