Ci sono voluti cinque anni di lavori e un investimento di 20 milioni messi a disposizione dal gruppo Fimalac Entertainment dell’imprenditore Marc Ladreit de Lacharrière, che ha preso il posto di François Pinault dopo un lungo stallo, per ridare lustro all’acciaccato Théâtre Marigny di Parigi e assicurarne la gestione.
Chi invece proverà a riportarlo all’antico splendore di sala consacrata alla leggerezza in musica è Jean-Luc Choplin, manager teatrale di lungo corso con una autentica passione per la commedia musicale stile Broadway. Impresario di altri tempi, dalla forte impronta personale, Choplin è un’autentica star nell’affollata scena parigina: inizio nell’avanguardia musicale e quindi amministratore di compagnie di danza prima con Roland Petit e in seguito all’Opéra de Paris a guida Rudolf Nureiev, associa a lungo il suo nome a Eurodisney prima di essere nominato nel 2004 dall’allora sindaco Bertrand Delanoë direttore generale del Théâtre du Châtelet, la seconda sala d’opera parigina.
Nell’arco di 12 anni Choplin ha letteralmente cambiato la fisionomia del teatro trasformandolo in un luogo popolare e frequentatissimo da un pubblico molto composito con la sua ricetta fatta di titoli classici ma anche di commedie musicali montate con uno sfarzo e professionalità degni delle migliori produzioni di Broadway. A 68 anni, Jean-Luc Choplin non pensa affatto alla pensione e si rimette in gioco accettando la proposta di Marc Ladreit de Lacharrière e la sfida del rilancio di un teatro dopo una lunga fase di decadenza. «Ça c'est du Marigny» vorrebbe si dicesse del suo teatro, proprio come per un buon vino.
Abbiamo incontrato Jean-Luc Choplin nel suo ufficio che si affaccia sugli Champs-Elysées, mentre tutto intorno ci si affanna per mettere a punto il secondo spettacolo di questa nuova stagione del Marigny, Guys and Dolls, che Choplin è molto fiero di aver portato per la prima volta sulle scene francesi.
Monsieur Choplin, comincio con una sua dichiarazione dello scorso novembre, alla vigilia della riapertura del Marigny: «Mi diverte pensare che sono un lontano e modesto successore di Offenbach». Vuole spiegare?
«In effetti, Jacques Offenbach dirigeva le Bouffes Parisiens, una piccola sala che si trovava proprio dietro a questo teatro, distrutta in seguito. A rigore non si può dire che Offenbach abbia diretto questo teatro ma la sua personalità era tale che lo si può associare in qualche modo allo spirito del Marigny. In fondo è un modo per restituire questo luogo alla sua storia, un luogo che è stato il circo d’estate e come tale destinato alle grandi feste con molti café-chantant e avvenimenti e, nell’adiacente sala minore, luogo di concerti anche importanti (anche Berlioz vi si esibì). Da Offenbach fino al XX secolo di qua sono passati grandissimi compositori come Hervé ma anche Robert Planquette, Paul Lacôme, Edmond Audran, André Messager (fra parentesi, due delle opere di Messager sono state tenute a battesimo proprio in questa sala, cioè Passionémment e Coups de roulis). Il Théâtre Marigny dunque possiede delle profonde radici musicali. La musica, sia essa classica o leggera, è nel DNA del Marigny».
Il Marigny è stato anche a lungo dominio di attori anche importanti nella storia del teatro francese, compreso negli anni che hanno preceduto la sua chiusura prima dei lunghi lavori. Non è un azzardo il suo?
«Mi piace ricordare che, anche quando era gestito dalla compagnia teatrale di Jean-Louis Barrault e Madeleine Renaud, questo teatro ha avuto due direttori musicali, che erano Pierre Boulez e Maurice Jarre. Nella sala piccola, quella che oggi è lo Studio Marigny, nel 1953 Pierre Boulez con Barrault, il direttore d'orchestra Hermann Scherchen e il musicologo Pierre Souvtchinsky ha creato Le domaine musical, una società concertistica che voleva soprattutto sostenere la produzione musicale contemporanea. È da questa base che sono partito. Per questo sono particolarmente felice di aver insistito per ricreare la buca per l’orchestra, che nel tempo era stata eliminata, e auspico che la mia programmazione sia costruita attorno al teatro musicale».
Da dove viene la sua passione per il musical e più in generale per il teatro musicale “leggero”?
«Io credo si tratti piuttosto di un’etichetta che mi è stata affibbiata. Per esempio, nei 12 anni alla guida dello Châtelet, ho realizzato 74 grandi produzioni sceniche, se escludiamo i concerti e altre manifestazioni minori. Di queste produzioni, 19 sono state commedie musicali e 5 lavori di teatro musicale di Stephen Sondheim. Chiarito questo, è vero che amo molto il musical perché si tratta di una delle forme sceniche più complesse e difficili. Occorre saper fare tutto, ossia cantare, saper fare la commedia, danzare, essere molto presenti per tutto il tempo. Non si tratta di cantare solo un paio di arie, una nel primo atto e una nel secondo. Nel musical gli interpreti sono sollecitati in permanenza e anche i solisti spesso devono danzare nei pezzi d’insieme».
«Amo molto il musical perché si tratta di una delle forme sceniche più complesse e difficili. Occorre saper fare tutto, ossia cantare, saper fare la commedia, danzare, essere molto presenti per tutto il tempo. Non si tratta di cantare solo un paio di arie, una nel primo atto e una nel secondo».
«Il "militantismo" che manifesto per quest'arte è anche legato al suo essere un perfetto simbolo del sofisticato e del popolare. Cioè attraverso il musical ci si interessa a tutti, non si ha un atteggiamento elitista. Chiaramente, come anche negli altri generi, ci sono dei lavori di ottima fattura e altri meno riusciti. Tralasciando capolavori come West Side Story di Leonard Bernstein o i musical di Stephen Sondheim, la cui musica si ispira chiaramente ai francesi Satie e Ravel ma anche a Rachmaninov e Brahms, la gran parte dei compositori di commedie musicali di Broadway hanno avuto una formazione musicale impeccabile. Per esempio, Jerome Kern di Showboat si era formato alla grande scuola musicale tedesca, ma anche Franck Loesser – di cui presentiamo in questa stagione Guys and Dolls – veniva da una famiglia tedesca emigrata negli Stati Uniti per sfuggire alla persecuzione nazista e anche lui si formò musicalmente in Germania. A proposito di Guys and Dolls, Damon Runyon, l’autore dei due racconti alla base del libretto, ha una scrittura molto sofisticata e classica e allo stesso tempo possiede lo slang, il gergo degli ambienti popolari, avendo vissuto in quell'ambiente. È questo che mi affascina in questi lavori».
Ha parlato di "militantismo": vuol dire che il suo impegno per la commedia musicale è quasi una battaglia politica o sbaglio?
«Per me è davvero una causa per cui vale la pena combattere. Credo che non bisogna chiudere la cultura in gabbie elitiste. Al contrario, occorre mostrare che alcune opere hanno saputo essere tessute intrecciando due fili: il sofisticato e il popolare. Se si punta a livelli di qualità molto elevata, grazie alla commedia musicale è possibile avvicinare il pubblico anche a lavori più complessi sul piano culturale».
Sbaglio o lei è un po’ sprezzante nei riguardi dell'opera, una faccenda da "un'aria nel primo atto, una nel secondo": che idea ha dell'opera?
«L'opera è una forma d'arte nata nel XVII secolo, che ha il suo apogeo nel XIX secolo ma che sfortunatamente, con qualche bella eccezione, non ha saputo trovare un vero posto nel XX secolo. Intendiamoci: ci sono delle opere molto belle, e ne ho presentate parecchie nei miei anni allo Châtelet (come Nixon in China di John Adams, per esempio)».
«L'opera è una forma d'arte nata nel XVII secolo, che ha il suo apogeo nel XIX secolo ma che sfortunatamente, con qualche bella eccezione, non ha saputo trovare un vero posto nel XX secolo- Penso che l'opera sia un'arte del passato».
«Quando si considera però la profusione per la commedia musicale dell'âge d'or di Broadway, non si può non costatare che un fenomeno simile nell'opera non c'è stato in quegli anni, cioè quello che accadeva con Verdi, Donizetti, Rossini nel XIX secolo. Penso che l'opera sia un'arte del passato, ma poiché la cultura si nutre di opere del passato, l'opera continua ad avere il suo posto nella nostra cultura. A mio avviso, però, si è più prossimi alla creazione contemporanea quando si fa una commedia musicale di Stephen Sondheim degli anni Ottanta e Novanta».
Esiste comunque una produzione classica contemporanea, con cui lei ha cominciato la sua carriera di impresario e penso alla sua esperienza alle Fêtes musicales de la Sainte Baume con un’attenzione particolare a artisti contemporanei come John Cage, Trisha Brown, Henri Pousseur e altri. Che ne pensa oggi?
«È vero. Ho iniziato la mia carriera con la creazione contemporanea, l'avanguardia, e anche allo Châtelet ho incoraggiato la creazione contemporanea con il Festival Présence di Radio France e con commissioni di lavori a compositori francesi come Gérard Pésson, Pascal Dusapin o internazionali come Howard Shore con The Fly. Fortunatamente la musica è molto viva. Allo stesso tempo, credo che quella musica sia un po' chiusa in un ambiente molto sofisticato, anche se va detto che è comunque il ruolo delle avanguardie spostare la frontiera. Le avanguardie devono abbattere i muri, dosare quelle esperienze che poi diventeranno i classici di domani».
Parigi è una città dove di certo l'offerta di teatro musicale è molto ricca: che spazio esiste per il suo Marigny?
«Ho detto della mia esperienza di 12 anni alla testa del Théâtre du Châtélet, che è un’autentica istituzione. E tuttavia lo Châtélet è meno vecchio del Marigny: il primo è del 1862 mentre il secondo del 1835. Quel che voglio fare del Marigny è farlo diventare una istituzione. Un po' come un marchio. Così come si diceva “ça c’est du Châtélet”, domani vorrei si potesse dire “ça c'est du Marigny”. C'è molta strada da fare».
«Così come si diceva “ça c’est du Châtélet”, domani vorrei si potesse dire “ça c'est du Marigny”».
«Credo che il posto che spetta al Marigny sia quello del teatro musicale, che non vuol dire semplicemente commedia musicale. Le due cose non coincidono necessariamente: “teatro musicale” è teatro con musica. Specie in Francia, quando si parla di "commedia musicale" è un po' come dire spettacolo di varietà, ossia un juke box musicale, una serie di canzoni legate da una trama approssimativa, come sono in effetti le commedie musicali alla francese. A me interessa fare piuttosto del teatro in musica o della musica al servizio del teatro».
Nella sua prima stagione ha presentato due musical, Peau d'âne e Guys and Dolls, nella sala grande. Seguirà la stessa formula anche nelle prossime stagioni?
«È ancora presto per parlarne ma posso anticipare che sarà divisa in due parti: nella prima, da settembre a marzo, presenterò uno spettacolo che non voglio anticipare adesso, mentre nella seconda, da aprile all'estate, ospiteremo una produzione della Comédie Française con musiche».
Ha in mente anche delle creazioni?
«Ma una creazione l’abbiamo già fatta in questa stagione inaugurando il teatro con Peau d’âne, un film di Jacques Démy in origine, che noi abbiamo trasformato in un pezzo di teatro musicale. E allo Châtelet lo stesso abbiamo fatto con Singin’ in the Rain, che da film è diventato una commedia musicale di straordinario successo. Piuttosto, sono io a farle una domanda: lei sa dove posso trovare il Bernstein di domani? Sono convinto che il nuovo Leonard Bernstein sia là fuori. Dobbiamo solo trovarlo e creare le condizioni perché cresca e produca i capolavori del teatro musicale di domani».
E per la sala piccola che cosa ha in mente?
«Voglio dare spazio a piccole forme musicali, fra le quali metterei le produzioni in cooperazione con il Palazzetto Bru-Zane. Con loro, abbiamo avuto discussioni fruttuose nelle quali ho espresso da subito il mio interesse a rappresentare compositori che hanno segnato il periodo di gloria del Marigny. Mi sono stati proposti i quattro programmi, che presentiamo in questa stagione, cioè il dittico Les deux aveugles di Hervé e Le compositeur toqué di Offenbach, poi Le retour d’Ulysse di Hervé, seguito da On demande une femme de chambre di Planquette e Chanteuse par amour di Henrion e, a fine stagione, Faust et Marguerite di Barbier e Sauvons la caisse di Lecocq. Il programma mi è sembrato subito perfetto per la programmazione che avevo in mente».
Conta di continuare questa collaborazione?
«Certamente l'intenzione è di continuare anche nelle prossime stagioni, ovviamente dopo aver fatto un bilancio alla fine di questa. Non siamo sposati!».
Il pubblico è lo stesso che la seguiva negli anni dello Châtélet?
«Sì. Poco fa, prima di arrivare nel mio ufficio, sono passato davanti alla biglietteria dove c'era una piccola coda di spettatori. Una persona mi ha afferrato il braccio e mi ha detto: "La seguiamo, Monsieur Choplin!". In generale, mi sforzo di fare spettacoli che facciano venire a teatro pubblico diverso. Non lavoro per una piccola élite. Ho l’impressione che l’opera attragga soprattutto un certo tipo di pubblico, mentre da noi viene chi va normalmente all’opera, ma anche un pubblico diverso, più variegato. Io lavoro per la diversità del pubblico».
Non ha mai avuto voglia di diventare regista e di firmare l'allestimento di un suo proprio spettacolo?
«No, mai. È un altro mestiere. Io sono un produttore, un produttore creativo, cioè so mettere insieme delle équipe con un’esigenza di gusto, di qualità. Non considero me stesso un artista, anche se io stesso faccio musica. Da molti anni ho preso un'altra strada, mi sono seduto sulla sedia del produttore e ci sto molto bene».
«Non lavoro per una piccola élite. Io lavoro per la diversità del pubblico».
«Amo collocarmi fra le idee ma penso che il mio ruolo non sia quello di soddisfare me stesso, come un artista. Credo piuttosto di dover servire e regalare felicità al pubblico. Il mio lavoro è cercare il modo per farlo. In un certo senso è una doppia ricerca: da un lato, ho la gioia di far lavorare gli artisti, dall'altro, cercare di rendere felice il pubblico. Sono le due gambe con le quali cammino».