Capita di leggere, in qualche articolo entusiasta (spesso più che giustificatamente) per la vibrante attualità di un certo jazz inglese diasporico e legato a sonorità dancefloor, frasi roboanti in cui “finalmente” il jazz riesce a coinvolgere una nutrita comunità di ascoltatrici e ascoltatori giovani.
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Se non c’è dubbio che alcune proposte che ben rappresentano quella scena e la sua urgenza globale stiano ottenendo una grande attenzione presso pubblici che non sembrano altrettanto entusiasti o interessati per altri linguaggi e pratiche di matrice jazzistica (sui quali non a caso pesa da tempo un inesorabile alzarsi dell’età media del pubblico in sala) e se non c’è dubbio che un po’ di sano, a volte anche ingenuo, entusiasmo è ben più salutare che il disincantato cinismo di qualche esperto connoisseur, è quell’avverbio, “finalmente”, che lascia un po’ di dubbi.
Non solo perché questo storytelling sembra dare per scontata un’idea di “jazz” (stai poi a vedere tu a cosa ci si riferisce…) che prima d’ora aveva galleggiato in una specie di grigiore per pedanti “boomer”, idea chiaramente assurda e disinformata, ma perché non ci vuole molto a farsela passare. Eh, ma il jazz inglese di oggi, direte voi… innervato di tensioni e ritmi diasporici, capace di muovere i giovani…
Eh, ma il jazz inglese di oggi, direte voi… innervato di tensioni e ritmi diasporici, capace di muovere i giovani…
Beh, ecco, qualche giorno fa ho ricevuto da Riccardo Bergerone (ne parliamo meglio tra poco) il disco Elton Dean Quartet, On Italian Roads, Live in Milan 1979 (British Progressive Jazz) e nella note di copertina si legge che la tournée da cui sono tratte le registrazioni aveva fatto tutto esaurito per 2 serate al Teatro Cristallo di Milano (1000 posti a sera), 2500 spettatori al Palasport di Bologna e altri, non specificati, a Torino. Ora, se andate a domandare a qualche direttore artistico quali sono oggi i gruppi jazz che ti fanno 1000, 2000 persone paganti, vedrete probabilmente il suo sguardo un po’ vacillare, perché sono pochi, perché mediamente quelli che attirano tanto pubblico costano parecchio, perché quei numeri – fatti anche grazie al circuito di Radio Popolare e in una temperie politico-sociale giovanile ovviamente non comparabile a quella di quarant’anni dopo – oggi difficilmente appartengono al mondo del jazz.
Altri tempi, certo, però “finalmente” anche no, perché non stiamo parlando di una sala da ballo americana degli anni Venti, ma dell’Italia del 1979. E, guarda un po’, anche allora si trattava di jazz inglese, con un forte contributo diasporico (il contrabbassista Harry Miller e il batterista Louis Moholo, che insieme a Keith Tippett completavano il quartetto del sassofonista, venivano dal Sud Africa dilaniato dalle tensioni razziali e esplosivo di musica) e un pubblico entusiasta. Un rapporto sempre speciale, quello tra il nostro paese e il jazz d’oltre-Manica e vale davvero la pena spendere due parole per la figura di Riccardo Bergerone, che sin da studente ha avuto questo fondamentale ruolo di intersezione tra quella scena e l’Italia.
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Poco più che ventenne all’epoca di quella tournée, organizzata con Renzo Pognant, Bergerone manterrà sempre con Tippett, Moholo, Dean e soci un rapporto di privilegiata connessione e amicizia, che lo ha spinto ora a pubblicare questo documento, vivido, di uno dei concerti milanesi.
La musica è dolce e turbolenta. La registrazione, con il contrabbasso violentemente in primo piano nel mix, restituisce una materia vibrante, in cui convivono gli abbandoni post-free del sassofono di Dean, in particolare al lancinante soprano ricurvo, oasi di languore e la inquietudine ritmica del jazz sudafricano, il tutto unito da un elastico tirato tra la coralità e l’individualismo degli interventi. Disco bello e importante.
Ma la relazione tra il jazz creativo di casa nostra e quello inglese non è solo cosa del passato. Non solo infatti diversi artisti e artiste italiane sono parte integrante della scena londinese, ma si ha continuità e concretezza anche in progetti che uniscono improvvisatori di entrambe le scene, come nel caso del trio Gabriele Mitelli/John Edwards/Mark Sanders con il loro Three Tsuru Origami (We Insist!).
Un’alchimia, quella tra il trombettista (e molto altro) bresciano e i due colleghi inglesi, che percorrono le strade – ormai storicizzate, ma non è un limite, anzi – del triangolo improvvisativo con fantasia e voglia di volare. Non a caso il disco è un tributo agli uccelli e alle migrazioni di ogni sorta e abbina temi di icastica fierezza doncherryana (come “New One” di Sean Bergin) a aperture elettroacustiche in cui la cupezza viene esplorata fino a fare risaltare la luminosità dei singoli dettagli.
Un disco molto bello, che premia gli sforzi di rigore dell’etichetta We Insist! – cui non si può certo rimproverare di cedere a lusinghe e trend – e che conferma come per i musicisti la Brexit non sia mai esistita.
E che la rivalità la continuiamo a esercitare, casomai, nel calcio!