Arrivare a 90 anni e mantenere l’entusiasmo e la freschezza di ispirazione che lo spingono a tenere lo stesso passo spedito di sempre: è Pier Luigi Pizzi, celebrato “Gesamtkünstler” della scena teatrale, da 70 anni in attività. Nemmeno il coronavirus lo ha fermato, anzi: «Sono stato a Venezia per tutti i mesi del lockdown ma, devo dire, senza nessun disagio. Anzi, in qualche modo questi mesi sono volati e sono stati anche proficui, perché ho potuto continuare a lavorare, dedicarmi a cose alle quali ero costretto a concedere troppo poco tempo».
Milanese di nascita, da anni Pier Luigi Pizzi ha scelto Venezia come propria casa. E proprio nel teatro lirico della città lagunare, luogo che ha accolto moltissimi dei suoi spettacoli e che lui stesso ha contribuito a far rinascere dalle ceneri del rovinoso incendio del 1996, il 15 giugno ha deciso di celebrare questo suo importante compleanno in compagnia del sovrintendente del Teatro La Fenice, Fortunato Ortombina, con cui ripercorrerà le tappe più significative della sua carriera in una diretta streaming diffusa attraverso i canali social del teatro. Ma anche Milano vuole festeggiarlo con un regalo preparato dal Teatro alla Scala, altro luogo di elezione delle sue magie teatrali e nel quale sta preparando la mostra “Va’, pensiero” che apre in novembre. Il regalo è un video curato da Mattia Palma con testimonianze di molti suoi compagni di avventure, fra questi Riccardo Muti, che sarà diffuso sulla pagina Facebook del teatro nel giorno del suo compleanno.
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Manca ancora qualche giorno alla festa quando lo raggiungiamo nella sua casa veneziana per una conversazione attraverso i ricordi della sua lunga e fortunata carriera.
Maestro Pizzi, è tempo di tornare al lavoro: come giudica la situazione che stiamo vivendo?
«Molto nebulosa, difficile, perché quello che ci chiedono di fare è ridicolo, se non impossibile: riaprire i teatri ma senza pubblico! Ma che vuol dire? Non vuol dire assolutamente niente!».
«Quello che ci chiedono di fare è ridicolo, se non impossibile: riaprire i teatri ma senza pubblico! Ma che vuol dire? Non vuol dire assolutamente niente!».
Non pensa come molti, che si possano anche aprire opportunità per sviluppare idee nuove e diverse soluzioni di messa in scena?
«Non è attraverso delle trovate, o facendo finta di fare, che si inventano le soluzioni. Il teatro ha regole precise. Qualunque cosa presenti e in qualsiasi modo, c'è bisogno del pubblico. Altrimenti che teatro è?
Il problema sta nelle attuali limitazioni: non si possono ammettere più di tante persone, il che significa che i teatri sono in perdita. Persino le Fondazioni sono in difficoltà. Sarà un grosso problema se non c'è un Governo a risolverlo. Comunque sono convinto che si arriverà in modo naturale a una certa normalità, nel senso che si capirà che queste restrizioni sono eccessive e vanno ridimensionate».
Dice che è rimasto bloccato a Venezia, ma Venezia è la sua seconda città, se non la prima.
«Venezia ormai è la mia casa. Ci vivo da vent’anni, anche se poi ovviamente non ho mai smesso di spostarmi. La mia base è questa».
A Venezia lei ha anche "quasi" debuttato come scenografo nel 1951.
«Sì, al Teatro La Fenice, con uno spettacolo di prosa nel Festival del Teatro della Biennale: un Goldoni, L'avaro, con la regia di Cesco Baseggio. Ci sono arrivato, un po’ per fortuna e un po’ per caso, e da quel momento è cominciata una lunga serie di appuntamenti veneziani, nella prosa e poi nell’opera lirica, che non si è mai interrotta veramente, a parte qualche pausa. Sono praticamente 70 anni che ho solidi rapporti con questo Teatro. Una lunghissima storia d'amore».
Prima del suo passaggio quasi esclusivo alla lirica, lei ha lavorato moltissimo nel teatro di prosa. Fra gli altri, si ricorda una lunga collaborazione iniziata nel 1955 con la Compagnia dei Giovani, cioè Giorgio De Lullo, Rossella Falk, Annamaria Guarnieri e Romolo Valli. Cosa ricorda di quel sodalizio?
«Per me è stata una palestra straordinaria, indispensabile alla mia formazione. Abbiamo viaggiato insieme, su un percorso lungo 20 anni, interrotto bruscamente e dolorosamente solo perché Romolo Valli se n’è andato troppo presto e Giorgio De Lullo l’ha seguito. Per me questo sodalizio ha significato moltissimo, perché mi ha insegnato l'importanza del lavoro di squadra, della disciplina e del rigore. È stata un’imprescindibile lezione di teatro con grandi scoperte come la rilettura di Shakespeare, Molière, Čechov e soprattutto Pirandello».
Non le manca la dimensione più ridotta del teatro di prosa? A dire il vero qualche volta lei alla prosa ci torna: ricordo uno spettacolo che lei allestì a Venezia, alla Scuola Grande di San Giovanni Evangelista, Una delle ultime sere di Carnovale di Goldoni utilizzando solo le architetture di quello spazio.
«Quella è stata una scelta felice, per un ritorno al teatro nelle condizioni ideali: essere a Venezia, mettere in scena un autore veneziano amatissimo, con un gruppo di attori in perfetta comunione di spirito. Un momento di felicità assoluta. Quando capita torno con passione alla prosa, come col recente Un tram che si chiama desiderio di Tennessee Williams, andato in scena lo scorso ottobre a Pesaro, con grandi consensi, poi in tournée e al Teatro Quirino di Roma, tristemente interrotto per la pandemia. Pare che si riprenda in ottobre».
La sua prima esperienza di scenografo nel teatro lirico è quasi contemporanea al suo debutto nella prosa: Don Giovanni a Genova nel 1952. Poi via via l’opera ha preso il sopravvento nella sua attività. Perché questa scelta?
«Non è andata proprio così. Vediamo. Nei miei anni ho svolto parallelamente la mia attività di scenografo con diversi registi nei teatri di tutto il mondo sia nella prosa che nella lirica. Soltanto dopo il mio debutto come regista, avvenuto nel 1977, ancora con Don Giovanni (curiosamente, un segno del destino!) mi sono principalmente dedicato all’opera. È dipeso soprattutto dalle proposte che ho ricevuto: avrei potuto benissimo continuare a fare la prosa e perfino il cinema anche come regista, se non fosse accaduto che a un certo punto il teatro lirico mi ha coinvolto in modo quasi totale. Non avevo il tempo di accettare tutte le proposte che mi arrivavano. Bisognava scegliere le più stimolanti».
«Avrei potuto benissimo continuare a fare la prosa e perfino il cinema anche come regista, se non fosse accaduto che a un certo punto il teatro lirico mi ha coinvolto in modo quasi totale».
Il suo primo Händel è molto precoce: 1956 a Firenze. È nato da lì il suo amore per l'opera barocca?
«È stato un primo incontro con un tipo di musica che mi ha subito affascinato, Ma il vero colpo di fulmine è arrivato più tardi, quando si è trattato di mettere in scena l’Orlando furioso di Antonio Vivaldi al Filarmonico di Verona. Ho avuto la fortuna di avere Marilyn Horne, come interprete ideale. Tra noi è nata subito una straordinaria complicità e un’amicizia, che ci ha accomunati in tante occasioni successive. Abbiamo portato questo spettacolo anche in America, dove il Vivaldi operista era completamente sconosciuto. A Händel sono tornato spesso: alla Scala con Ariodante e più tardi con Rinaldo, che da Reggio Emilia ha fatto il giro del mondo. È nato 35 anni fa ma continua a vivere. Senza pandemia, sarebbe andato in scena al Teatro del Maggio a Firenze a fine marzo e in questi giorni al Teatro La Fenice a Venezia. Si dovrebbe riprendere in autunno. Vedremo».
«Ci sono state anche altre opere di compositori barocchi con cui mi sono felicemente confrontato. Gli amori di Apollo e Dafne di Cavalli, Orfeo di Sartorio e Orfeo di Bertone. E poi i due Rameau, Hippolyte et Aricie al Festival di Aix-en-Provence e Les Indes galantes al Théâtre du Châtelet, che venne anche ospitato alla Fenice in occasione del bicentenario del compositore».
A proposito dei suoi due Rameau, se posso permettermi un ricordo da spettatore, musica a parte, c’era da rimanere folgorati dalla fantasmagoria delle immagini che lei riuscì a creare sulla scena.
«Quello che mi ha sempre incantato del barocco è la possibilità di vivere nella dimensione del teatro della meraviglia, di stupire, che era poi lo scopo degli scenografi di quel periodo. Penso a Torelli, ai Galli da Bibbiena, Vigarani. Vere star del momento. Ma c'è, prima di tutto, la musica: uno strepitoso motore di immagini. In quelle opere mi trovavo come un topo in una forma di formaggio!».
La sua passione per le macchine teatrali barocche è stata in qualche modo incoraggiata dalla sua lunga e fruttuosa collaborazione con Luca Ronconi, un regista con cui lei ha lavorato molto in spettacoli mitici come l'Orlando furioso?
«In realtà la passione per le macchine teatrali mi viene dalla mia formazione di architetto, un percorso seguito per diventare scenografo, per fare del teatro, non per costruire ponti o ospedali. Ho studiato scenotecnica con particolare attenzione alla macchineria. Nei dieci anni di lavoro comune, con Ronconi abbiamo condiviso questa passione, a cominciare dal film tratto dall'Orlando furioso di Ariosto. Per non parlare de Le Baccanti al Burgtheater di Vienna, e soprattutto della Tetralogia wagneriana».
Parlando dell'Orlando furioso e prima del Rinaldo e poi della Tetralogia di Wagner non si può non pensare ai cavalli: la riconosce come una sua cifra?
«È vero: una serie di autocitazioni! Di cavalli se ne sono visti parecchi nei miei spettacoli. Nell’Orlando furioso si arrampicavano sulle scale e attraversavano le sale del Palazzo Farnese a Caprarola. Ce ne sono nel Rinaldo, ma anche, nell’Armida di Gluck alla Scala con Muti, e tanti nella Leggenda della città invisibile di Kitež di Rimskij-Korsakov, a Firenze con Myung-Whun Chung, e infine nell’Europa riconosciuta di Salieri ancora al Teatro alla Scala, dove in sella c’era addirittura tutto un coro. Dimenticavo il cavallo che portava in scena il tram né Il cappello di paglia di Firenze di Nino Rota. Ma quello era vero».
L’Europa riconosciuta: spettacolo tecnicamente mirabolante, l’opera di Salieri forse un po' meno ...
«Si trattava di un’opera di circostanza per la riapertura del teatro dopo i lavori di rifacimento del palcoscenico, forse senza grande interesse musicale ma con Muti e Ronconi ci siamo molto divertiti a montarla. C’era la fascinazione del teatro e si trattava soprattutto di mostrare le peculiarità di un palcoscenico appena rinnovato secondo una tecnologia avanzata».
Tornando a Luca Ronconi, è azzardato pensare che voi siate in qualche modo gli inventori del "Regietheater", cioè siete stati fra i primi a distaccarvi dall'esecuzione letterale delle prescrizioni sceniche degli autori. Penso ai vostri contrastatissimi allestimenti verdiani a Firenze ma soprattutto alla Tetralogia alla Scala. È d’accordo?
«Nostro malgrado e certamente non per metterci in quella corrente, ci siamo distaccati da un approccio letterale, per così dire, e lo abbiamo fatto in varie occasioni. Con Valchiria nel 1974 alla Scala abbiamo sicuramente aperto un capitolo nuovo nell’interpretazione di Wagner e lo abbiamo fatto due anni prima di Patrice Chéreau e Pierre Boulez a Bayreuth. Come loro, anche noi siamo stati vituperati alla Scala ma, a dire il vero, abbiamo anche avuto da subito dei sostenitori accaniti, e penso, fra i tanti, a Fedele D’Amico. Ci sono stati dei detrattori feroci, che in parte si sono poi convertiti. Alla lunga abbiamo avuto ragione noi. Anzi, ha avuto ragione Massimo Bogianckino, che decise di completare il Ring a Firenze, ripartendo dal Rheingold».
Come andò quella vicenda? Perché la Scala non portò a termine quel progetto? Se n’è parlato molto ma ha voglia di ricordarla ai lettori più giovani?
«Dopo l’accoglienza contrastata di Valchiria, il direttore d’orchestra Wolfgang Sawallisch aveva minacciato di andarsene. L’allora sovrintendente Paolo Grassi e il direttore artistico Massimo Bogianckino volevano comunque portare a termine quella Tetralogia, anche perché avevano capito che quel discorso iniziato con Valchiria doveva proseguire col Siegfried. Anche Luca ed io eravamo impazienti di mandare avanti il progetto. Però Sawallisch nicchiava, mettendo in crisi la produzione. Bisognava andare a raccontare il progetto di Siegfried a Sawallisch a Monaco, dov’era direttore musicale dell'Opera di Stato Bavarese, e cercare di convincerlo. Luca si rifiutò: i rapporti fra loro erano stati difficili. Allora toccò a me: andai a Monaco a spiegargli il progetto, lui si convinse e il Siegfried si fece. Andò meglio di Valchiria, però anche in quel caso ci furono critiche, anche rivolte al direttore, che si dissociò definitivamente. La produzione entrò in crisi e fu deciso di abbandonare il progetto. Bogianckino, che nel frattempo aveva lasciato la Scala per diventare sovrintendente a Firenze, decise di completare la nostra Tetralogia scaligera al Teatro Comunale con la direzione di Zubin Mehta. Qui i consensi sono stati unanimi. È stata anche la mia ultima collaborazione con Luca, se si esclude Europa riconosciuta, perché nel frattempo avevo dedicato tutto il mio tempo all'attività di regista».
Rossini è una presenza che l'accompagna da numerosi decenni, se non da sempre. I suoi allestimenti non si contano.
«Sì, Rossini è una presenza costante nella mia carriera. Primo incontro a 25 anni, Turco in Italia con Vittorio Gui e Franco Enriquez al Teatro di Corte di Napoli. Poi Barbiere a Roma e a Venezia. Il mio debutto alla Piccola Scala è avvenuto con Il Signor Bruschino, diretto da Gianandrea Gavazzeni, che ho ritrovato alla Scala in La Cenerentola nel 1964 con la regia di Giorgio De Lullo, Giulietta Simionato protagonista. Prima di approdare al Rossini Opera Festival col Tancredi nel 1982 diretto da Gelmetti con Katia Ricciarelli e Lucia Valentini Terrani, ho fatto Semiramide a Aix-en-Provence con Montserrat Caballé, Marilyn Horne e un giovane magnifico Samuel Ramey. Spettacolo indimenticabile. Il rapporto col ROF è stato fantastico. Una serie di scoperte sensazionali. Dopo Tancredi, di cui ho firmato tre diverse versioni, Mosé in Egitto, Maometto II, Bianca e Falliero, il Conte Ory, Guillaume Tell, La pietra del paragone, incredibile!».
Una curiosità: in una sua recente intervista ha detto "Rossini ha sempre ragione". Vuole spiegare?
«Era a proposito del Moïse et Pharaon, un’opera nuova per me che doveva debuttare al ROF il prossimo agosto e invece è stata rinviata al 2021 a causa della pandemia. Ho dovuto confrontarmi con questa versione per Parigi, che rispetto al Mosé in Egitto di Napoli, prima versione in due atti, capolavoro di sintesi e di invenzioni musicali sconvolgenti, è un abilissimo adattamento al Grand Opéra francese: quattro atti, con i pedaggi da pagare al genere, cioè le danze – 20 minuti di divertissement – le grandi scene corali, una massa di figuranti. Quindi ho dovuto cambiare l’idea che avevo seguito per il Mosé in Egitto, cioè una soluzione verticale col potere in alto dominato dal Faraone e gli schiavi in basso stretti attorno a Mosé».
«Rossini non sbaglia mai, nemmeno quando allunga la minestra!».
«Per Moïse, invece, ho dovuto dilatare tutto lo spazio in senso orizzontale, con maggiore spettacolarità, pur non rinunciando al mio abituale rigore. Però va benissimo anche così: Rossini non sbaglia mai, nemmeno quando allunga la minestra!».
Cosa le piace di Rossini?
«L'ironia. È un sentimento che condivido, un filtro straordinario. Rossini prende sempre le distanze. Ha l'aria di non credere a quello che sta facendo, di non prendersi mai sul serio. Il buffo si confonde col tragico, però non è mai solo buffo o solo tragico. Cenerentola sembra un’opera buffa e invece è piena di malinconia, di amarezza. Di Rossini non si finisce mai di apprezzare la genialità, anche quando cita se stesso, con gli autoimprestiti. Lo fa con leggerezza e disinvoltura. Non sono mai gratuiti: hanno sempre una loro ragione. È sorprendente: lo stesso pezzo, diversamente collocato, può essere commovente o farti ridere. Pochi compositori hanno questa grande facilità a fare il teatro in tutte le direzioni e sempre nel giusto tono».
Con le sue produzioni si potrebbe fare una storia dell'opera da Monteverdi al Novecento storico. All'appello manca abbastanza la produzione contemporanea …
«Non direi! Ci sono Death in Venice, The Turn of the Screw e Midsummer Night’s Dream di Britten, c'è Elegy for Young Lovers di Henze, c’è Powder Her Face di Adès, che mi ha molto divertito, e poi c'è Marco Tutino con il quale ho anche collaborato alla scrittura del libretto di Le bel indifférent da Cocteau».
Non c’è una certa mancanza di interesse per lavori più sperimentali?
«A me interessa tutto. Ci sono cose che non mi corrispondono e che tralascio, però la curiosità mi fa prendere in considerazione tutto. D’altra parte nel nostro mestiere le scelte si fanno relativamente alle proposte che ricevi. Quand’ero direttore artistico a Macerata, ho messo in scena Saul di Flavio Testi, ho invitato Marco Tutino con The Servant messo in scena da Gabriele Lavia, e Matteo D’Amico che ha presentato Le malentendu da Camus con la regia di Saverio Marconi. Come vede, il teatro musicale contemporaneo non mi è estraneo».
C'è un'opera che le piacerebbe molto fare e che ancora non le hanno offerto?
«Più d'una. Ho coltivato da sempre una passione per Benjamin Britten, mi piace Billy Budd. Ce ne sono altre... in realtà ho fatto quasi tutto! Devo dire che ritorno volentieri su opere che ho già messo in scena: Tancredi, cinque volte con allestimenti diversi, Macbeth cinque volte, altrettante volte Aida, l’Orfeo di Monteverdi lo rifarò presto a Spoleto. Anche Zauberflöte ha avuto quattro edizioni, di cui due con Gianluigi Gelmetti, completamente diverse, la seconda in chiave massonica. Mi piace interrogare opere che conosco bene per avere risposte nuove».
«Mi piace interrogare opere che conosco bene per avere risposte nuove».
C’è anche il suo Barbiere di Siviglia del 2018 al ROF …
«Fatto tante volte come scenografo mai come regista: che emozione! Verrà ripreso fuori festival nel prossimo novembre».
Come si fa alla sua rispettabile età a mantenere così vivo l’interesse per il suo lavoro e non aver ancora voglia di riposarsi?
«Avrò molto tempo dopo! [ride] Finché se ne ha voglia conviene perseverare. Non mi sono mai stancato di fare questo mestiere, al quale ho dedicato tutta la mia energia, settant'anni di incredibile impegno, naturalmente, senza affanno. Anzi, ho cercato di divertirmi, di trovare sempre nuove ragioni perché questo lavoro continuasse a interessarmi e che non mi facesse perdere l'entusiasmo. Questo lavoro mi ha accompagnato durante tutta la vita e mi ha permesso anche di superare le tante crisi che ho avuto, come chiunque. Seguo un percorso che va avanti in modo naturale, senza ipoteche sul futuro, che mi aspetta».
«Questo lavoro mi ha accompagnato durante tutta la vita e mi ha permesso anche di superare le tante crisi che ho avuto, come chiunque. Seguo un percorso che va avanti in modo naturale, senza ipoteche sul futuro, che mi aspetta».