Il Ravenna Festival 2018 è “Born in the Usa”, perché agli States dedica non solo il titolo (We have a dream, rendendo omaggio a Martin Luther King), ma anche la sezione “Nelle vene dell’America”. Delle molteplici facce del festival (dal 1° giugno al 22 luglio – programma completo su www.ravennafestival.org) abbiamo parlato con Franco Masotti, direttore artistico della manifestazione insieme a Angelo Nicastro.
We Have a Dream, o meglio A j ò fat un sogn, è il titolo dell’edizione 2018 del Ravenna Festival: qual è il sogno di questo festival giunto alla ventinovesima edizione?
«Un sogno intanto è proprio quello di essere giunti alla ventinovesima edizione. Detto questo è un sogno potersi addentrare in tempi non del tutto propizi in un lungo viaggio attraverso territori dove regnano bellezza, armonia ma anche conflitto, ma in senso estetico, come "perturbante", o che ci sveli la dimensione dell'alienazione dell'uomo contemporaneo (un tema "sessantottino" questo, e di adorniana memoria). Il sogno ci svela cose di noi che non sappiamo (o non vogliamo sapere), non è consolante e spesso ci turba, ci inquieta. È la stessa funzione che svolge – o dovrebbe svolgere – l'arte, ove non sia consumo o mera consolazione. Ma non è un sogno solitario: è condiviso».
«Il sogno ci svela cose di noi che non sappiamo (o non vogliamo sapere), non è consolante e spesso ci turba, ci inquieta. È la stessa funzione che svolge –– o dovrebbe svolgere – l'arte.»
«È il sogno di una comunità, quella dei "cittadini" che si fanno pubblico ma anche protagonisti del "loro" festival. Ed è per questo che tanti sono i linguaggi, gli stili, le forme: per avvicinarsi a tutti, evitando le scorciatoie corrive però e sollecitando la riflessione, il pensiero oltre al piacere e al godimento. Questo è il sogno che perseguiamo. È anche il sogno di un mondo migliore, più giusto: quello evocato dal grande Martin Luther King e dal Movimento per i Diritti Civili. La versione in dialetto poi (A j ò fat un sogn) rimanda alla nostra ricerca di radici e a un amore che da sempre ci contraddistingue per le espressioni più vive della cultura popolare. “Reasons To Be Cheerful" è il motto/progetto di David Byrne: in esso ci rispecchiamo perfettamente e lo facciamo nostro. Tra tradizione e contemporaneità tante sono le strade, noi disegniamo una mappa possibile. Poi, perché no, è bello anche perdersi...»
Come si declina in cartellone il tema americano? E cos’è invece la sezione “Il canto ritrovato della cetra”?
«Si inizia dall'America del "sogno" (americano, sì), secondo le leggiadre narrazioni dei musical (ma Kiss Me, Kate è un capolavoro della musica del Novecento, scritto quasi immediatamente dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale), si prosegue con l'omaggio al genio poliedrico di Bernstein, genio felice e ridente ma anche sottile interprete dell'Età dell'Ansia (titolo della sua seconda sinfonia), quella della Guerra Fredda e del maccartismo di cui Lenny fu vittima (ansia che ritorna alla grande, ahinoi, in questi nostri tempi inquieti); poi il Copland dell'intenso Lincoln Portrait, poi gli anni Sessanta, le avanguardie, con la nitida trasparenza del minimalismo della triade Glass, Riley e Reich, gli anni Settanta e Ottanta della No Wave New York, dei Talking Heads, il lirismo estatico di Keith Jarrett, fino a giungere ai giorni nostri».
«È un territorio immenso quello della musica americana, abbiamo scelto necessariamente alcuni "pezzi" che abbiamo ritenuto particolarmente significativi come parte del tutto ed esemplificativi di una sconfinata ricchezza. È anche un piccolo gesto di riconoscenza per il grande Paese che, pur con tutte le sue contraddizioni, ci ha "regalato" gran parte della colonna sonora delle nostre vite. Quello del "canto ritrovato" è un altro sguardo, dall'Est del mondo. È il canto che scaturisce dall'oppressione e dalla censura, dal dolore patito causato dai totalitarismi e dalle guerre e che trova espressione nelle musiche assorte, silenti, meditative di un grande compositore, tra i meno noti – almeno in Italia – tra quelli della sua generazione e formatisi nella Russia sovietica dei grigi anni Sessanta: Valentin Silvestrov. Sarà una bellissima scoperta per i tanti che non lo conoscono. Con lui rendiamo anche omaggio a una terra grande ma sfortunata: l'Ucraina».
Come mai è stata scelta Kiev per le Vie dell’amicizia? Copland, Verdi, Malkovich, Muti: un programma di grande impatto.
«In qualche modo siamo stati scelti. Una "chiamata" da un Paese che sta vivendo momenti difficili, schiacciato com'è da una superpotenza da una parte e dall'emergere di un nazionalismo ripiegato su se stesso in un'ottica di isolamento. Ma è una nazione culturalmente molto ricca (ne sono espressione il già citato Silvestrov ma anche un'artista come Zhanna Kadyrova, le cui opere provocatorie sono state esposte in una recente Biennale), giovane da tutti i punti di vista, in fermento e che desidera attenzione, ascolto da parte dell'Occidente e visibilità. Una situazione ideale quindi per la filosofia alla base dei nostri "Viaggi dell'Amicizia". Il programma che Muti ha scelto poi, decisamente non banale o celebrativo, parla lingue – anche musicali – diverse e con diversi accenti, ma di due autori che hanno entrambe un forte senso della storia e che hanno creduto fortemente a una nozione di impegno civile dell'arte, per la crescita e l'unione di un popolo e dei popoli. Verdi e Copland, Muti e Malkovich... what else?».
Che cos’è “Alla scoperta delle energie creative della Romagna"?
«Questa è da una parte la realizzazione di uno dei sogni di Cristina Muti: mettersi al servizio dei giovani con tutto il bagaglio della sua esperienza e della sua capacità di ascolto (nel senso più ampio del termine). Dare loro la possibilità di esprimersi, al di fuori di qualsiasi dimensione competitiva (tutto l'opposto rispetto a un talent) con l'opportunità di ascoltare qualche consiglio, di ricevere un incoraggiamento e comunque un'attenzione. È anche fornire l'occasione ai giovani tra gli otto e i diciott'anni di svelare i propri di sogni. Un sogno lungo otto giorni, parafrasando il titolo di un bel film dell'americano Coppola».
C’è anche un omaggio quotidiano a Dante?
«Sì, con la prosecuzione (è il terzo anno) del progetto Giovani artisti per Dante che vedrà tutte le mattine per la durata di un intero mese ai chiostri danteschi (a pochi metri dalla tomba) piccoli spettacoli di musica, teatro e danza (o le tre cose assieme) scelti attraverso un bando o per commissione diretta ma in collaborazione con le scuole di Ravenna, con l'Associazione Cantieri Danza, eccetera. È una fucina, un laboratorio di nuove idee, senza alcuna pedanteria o accademismo o anche soggezione per colui che è ancora chiamato Sommo Poeta proprio per rendercelo più distante. Negli anni passati abbiamo visto cose molto belle e originali, e sono emersi veri talenti come quello del coreografo Nicola Galli o del regista Nicola Borghesi. Poi sul far della sera ci sarà un momento meditativo nella più bella basilica di Ravenna: San Vitale, con i Vespri. Anche questo un omaggio a Dante, che dai mosaici di queste chiese trasse ispirazione per le sue visioni paradisiache».
In cosa consiste il progetto “Le 100 chitarre elettriche”?
«È un omaggio allo strumento principe della seconda metà del Novecento, la chitarra elettrica, nata negli Stati Uniti (e quindi un altro episodio del nostro affresco musicale americano). Per generazioni la chitarra elettrica è stata un simbolo universale di libertà, ribellione, edonismo. È stata la voce roboante e spesso rabbiosa di una generazione: quella delle Pantere Nere, di Woodstock, del Vietnam, che ha aiutato anche ad abbattere le barriere razziali verso i musicisti di colore (da B.B. King a John Lee Hooker). Colonna sonora metallica e distorta della rivoluzione psichedelica, del punk, della new wave, la chitarra elettrica ritrova un momento da protagonista, nella sua – si spera momentanea – eclissi nell'era della techno e di musiche ad alto coefficiente digitale, nelle composizioni di autori "colti" o di derivazione accademica e che però hanno vissuto con le loro orecchie l'era d'oro del rock perlomeno fino al grunge».
«Compositori come Michele Tadini (che è anche chitarrista) che ha scritto una sorta di sinfonia roboante per 100 chitarre elettriche non aliena da echi prog o speed metal, o l'americano Christopher Trapani del quale si ascolterà una prima mondiale, oppure chitarristi di gruppi rock come Bryce Dessner dei National che – analogamente al collega Jonny Greenwood dei Radiohead – approdano alla composizione, scrivendo anche per l'Ensemble Intercontemporain o la London Sinfonietta. Ma c'è posto anche per Steve Reich che alla chitarra elettrica ha dedicato alcune delle sue composizioni più belle, o il post-punk di Glenn Branca. E comunque alla nostra chiamata hanno risposto numerosissimi, 100 coraggiosi chitarristi che affronteranno una prova ardua condotti dal chitarrista Luca Nostro (a cui si deve l'articolato palinsesto del progetto 100 chitarre) e diretti da Tonino Battista».
Non solo musica, ma anche teatro e danza. Due spettacoli da non perdere?
«Sceglierei due "lettere", una a una figlia e l'altra al nipote. Si tratta di A Letter to My Nephew, il nuovo lavoro di Bill T. Jones (anch'esso parte del tema americano), con cui la danza, come sempre in Bill T. Jones, diventa strumento di impegno politico: un linguaggio aspro e potente, capace di centrare le debolezze e le contraddizioni della società, rovesciandole sul palco in visioni scomode e memorabili. L'altro è Lettere a Nour dell'islamologo franco-marocchino Rachid Benzine, che con questo romanzo epistolare, scritto nel 2016, riesce a trattare con delicatezza temi complessi, soprattutto in un Paese colpito duramente dal terrorismo. Sono le lettere che un padre scrive alla giovane figlia Nour, che pur cresciuta in un milieu liberale e illuminista, è fuggita in Siria per raggiungere l’uomo che ama, un combattente dell’Isis, lasciando suo padre, filosofo di fede islamica, solo a torturarsi per questa assurda decisione. Una prima italiana, con Franco Branciaroli, Marina Occhionero e il trio Mothra che eseguirà dal vivo la sua musica intensamente speziata di oriente non priva di accenti violenti e rabbiosi».
C’è anche un omaggio a Battisti
«In questi ultimi anni si è giustamente riconosciuto a Battisti un ruolo di primissimo ordine nella storia della canzone d'autore italiana. Considerato negli anni della contestazione una sorta di simbolo del disimpegno (nonostante il suo "canto libero"), si è poi sottovalutata la sua seconda fase, quella post-Mogol, sui testi di Panella, troppo frettolosamente etichettata come enigmatica se non criptica. A suo tempo commissionammo un fortunato omaggio a Battisti a Enrico Rava, che poi lo incise, ora è la volta di un gruppo di eccellenza del jazz e della canzone italiana, con la voce da crooner filosofico di Peppe Servilo e i sapienti arrangiamenti di Javier Girotto».
E Riccardo Muti torna a Macbeth
«Sì, certo. Macbeth è certamente una delle opere più amate dal Maestro Muti. È un’opera potente e che affronta, come poche altre, il tema del potere, eterno quanto l’uomo. E in quest’opera, non priva di straordinarie raffinatezze ed intuizioni musicali, di “segrete armonie” e di “suoni rivoluzionari” come dice Muti stesso, c’è già tutto il genio assoluto di Verdi».
Qual è il pubblico del Festival? Vi siete fatti un idea di quanti vengono apposta a Ravenna per un determinato concerto, di chi siano i fedelissimi…
«È un pubblico molto composito, anche per la sua natura dichiaratamente e strutturalmente interdisciplinare, e che quindi intercetta segmenti di pubblico diversi e variegati (il pubblico della sinfonica, quello dell’opera, della danza, del teatro, ecc.). Parlerei di pubblici quindi, che hanno modalità di approccio e di fruizione anche molto diversi tra loro. Anche la provenienza geografica può variare molto da spettacolo a spettacolo, eminentemente locale o territoriale per alcuni, internazionale per altri».
«La scommessa è quella di invogliare il nostro pubblico a travalicare i generi prediletti, ad aprirsi ad altre prospettive, incuriosendolo o anche provocandolo».
«Ma c’è anche chi ci segue a prescindere dai linguaggi e dai generi, chi ama intraprendere un viaggio di ascolto e di visione magari affascinato dal tema o anche dai luoghi di spettacolo, fortunatamente magnifici come le nostre basiliche bizantine (Ravenna vanta ben otto siti UNESCO). O magari intraprende viaggi veri e propri come nei nostri "concerti trekking", tra valli palustri e valli appenniniche. La scommessa è quella di invogliare il nostro pubblico a travalicare i generi prediletti, ad aprirsi ad altre prospettive, incuriosendolo o anche provocandolo. Passare da Muti a David Byrne ad esempio, o da Palestrina a Battisti. Aiutiamo il pubblico a orientarsi nel mondo delle arti performative salvo poi permettergli di disorientarsi, per uscire dal già noto. Questa è la nostra scommessa e fortunatamente sono in molti a seguirci».
Ma non finisce qui, in autunno Triplo Verdi
«Già... la Trilogia d’Autunno, formula fortunata che negli anni si sta consolidando, portando a Ravenna anche moltissime persone dall’estero (per tornare alla penultima domanda) e che vede avvicendarsi sul medesimo palcoscenico – quello del Teatro Alighieri – tre opere diverse nel giro di tre giorni. Una full immersion verdiana quindi (la terza dopo la trilogia "popolare" e quella shakespeariana) che sicuramente sarà molto gradita. È anche una sorta di laboratorio che gioca sul filo dell’invenzione e della creatività, intrecciando giovani talenti e moderne tecnologie, come ad esempio l’uso sistematico delle videoproiezioni. Quest’anno poi, a una produzione inedita, Nabucco, si affiancherà la rilettura di altre due opere già presentate dal “repertorio” che la formula autunnale già può vantare, Rigoletto e Otello.