Se nella Venezia inflazionata di concerti acchiappa turisti è ancora possibile trovare musica di qualità è anche un po’ merito loro, cioè del Quartetto di Venezia e della Fondazione “Giorgio Cini”, che ha dato loro una casa nella propria sede all’isola di San Giorgio. Una casa bellissima, ricavata da un’antica officina per la riparazione delle barche – uno “squero” – trasformato pochi anni fa in luogo per la musica dagli architetti Fabrizio Cattaruzza e Francesco Millosevich.
Il Quartetto di Venezia, però, alla qualità musicale lavora con la meticolosa precisione di un artigiano di altri tempi fin dal 1983, sviluppando un vasto repertorio che ha toccato tutti i capisaldi della grande letteratura quartettistica così come lavori meno noti come i Quartetti per archi di Gian Francesco Malipiero, e raccogliendo riconoscimenti importanti nel corso degli oltre 35 anni di attività.
È appena finito il primo dei loro concerti del ciclo 2019 all’Auditorium Lo Squero a San Giorgio e per parlare della storia e dei progetti del Quartetto di Venezia incontriamo Andrea Vio, il primo violino storico della formazione, che comprende il violinista Alberto Battiston, il violista Mario Paladin e il violoncellista Angelo Zanin.
Due sono gli apporti fondamentali che il Quartetto di Venezia riconosce nel suo fare musica: quella della Scuola mitteleuropea rappresentata dal Quartetto Vegh e quella del Quartetto Italiano e di Piero Farulli, in particolare. Partiamo da Sandor Vegh: che tipo di insegnamento ha segnato maggiormente il vostro modo di fare musica?
«Sandor Vegh è stato una personalità che ha influito in modo determinante sulla nostra formazione. L’abbiamo seguito ai corsi di Assisi, Salisburgo, Zurigo... a partire dal 1981. La scelta di Vegh è stata una scelta di cuore, perché ci sentivamo molto vicini al modo di pensare e interpretare la musica, di questo grandissimo interprete e leader di uno storico quartetto».
Che tipo di segno ha lasciato Sandor Vegh nella vostra formazione?
«L’influenza di Vegh sul nostro modo di far musica è stata enorme. Ha proprio plasmato il nostro modo di suonare. La sua idea musicale partiva sempre da un punto di riferimento tecnico, che è l’arco, messo al sevizio della trasmissione dell’idea musicale. Un altro punto molto curato da Vegh era il tipo di vibrato. Vegh partiva sempre da un concetto di tipo tecnico chiaro, non fraintendibile: un incredibile artigianato del far musica di straordinaria levatura artistica. Vegh ci ha anche insegnato inoltre la cura minuziosa del piccolo dettaglio, che a volte fa la grande differenza. Solo negli anni abbiamo compreso fin in fondo l’immenso valore dei suoi insegnamenti».
Un altro componente del Quartetto Vegh, il violoncellista Paul Szabo, ha dato un apporto importante alla vostra formazione: ne vuole parlare?
«Con Paul Szabo abbiamo lavorato su un repertorio maggiormente ampio rispetto a quello affrontato nei corsi con Vegh. Di Szabo ricordiamo anche la grande umanità e dolcezza d’animo, che ci ha permesso di stringere con lui una profonda e sincera amicizia. Con lui abbiamo anche suonato, e ciò ha ulteriormente contribuito a rinsaldare forti legami anche sul piano personale».
L’anima italiana del Quartetto di Venezia invece deve molto al Quartetto Italiano e a Piero Farulli in particolare. Che segno ha lasciato quella formazione?
«A partire dal 1986 abbiamo frequentato i corsi di Piero Farulli all’Accademia Chigiana, in quegli anni una tappa fondamentale per tutti i giovani quartetti italiani. Piero Farulli ci ha dato un impulso tecnico e musicale molto forte. Farulli ha sempre avuto uno straordinario desiderio di aiutare i giovani. Sul piano musicale, ha sottolineato la centralità dei quartetti di Beethoven nell’affinamento dei quartetti di recente costituzione. Ci ha spinto fin da subito a studiare gli ultimi quartetti beethoveniani, l’Opus 95 (il “quartetto serioso”), l’Opus 127 e l’Opus 132».
Di voi Daniel Cariaga del Los Angeles Times ha scritto: “questo quartetto è più che affascinante, è sincero e concreto”. Cosa vuol dire sincerità quando si affronta un pezzo musicale? E cosa concretezza?
«Confesso che è una definizione che mi ha sorpreso, in senso buono, poiché ha colto perfettamente quello che noi siamo come quartetto. “Sincerità” la tradurrei come un “abbandonarsi” al nostro modo di sentire, alle più personali emozioni, senza “preoccuparsi” del giudizio positivo o negativo di chi ascolta (potrà piacere o meno, de gustibus …)».
«Concretezza e sincerità. Quando si riesce a far combaciare questi due aspetti apparentemente contrastanti, si crea quella che noi intendiamo come interpretazione musicale».
«“Concretezza”, invece, è esattamente l’opposto e cioè l’attenzione massima al segno scritto e alle indicazioni dell’autore, cercando sempre di far sentire e capire anche i più minimi dettagli nascosti all’interno di ogni singolo passaggio musicale. Quando si riesce a far combaciare questi due aspetti apparentemente contrastanti, si crea quella che noi intendiamo come interpretazione musicale».
A suo avviso, cosa distingue il Quartetto di Venezia dalle altre formazioni? O in cosa provate a essere diversi?
«La lezione di Vegh e di Szabo su questo punto è stata fondamentale: i due Maestri ci fecero capire quanto importante fosse la tecnica strumentale individuale, quanto un solista, per poter sviluppare uno studio e quindi una esecuzione la più chiara possibile. Nessuna nota deve essere eseguita in modo confuso e su questo insistevano in modo molto forte, in particolare per quel che riguarda la tecnica dell’arco. Per quel che riguarda invece l’aspetto interpretativo, credo di poter dire che, senza ombra di dubbio, il nostro modo di sentire la musica, le emozioni, la fantasia, il fraseggio sono fondamentalmente legate all’essere italiani, anzi ancor di più veneziani. La nostra è una città dove, già da piccoli, si vive attorniati da bellezze artistiche e naturali uniche che inevitabilmente diventano formative per il sentire di ogni veneziano».
Il Quartetto di Venezia nasce nel 1983 e lo scorso anno ha festeggiato i 35 anni di attività. Come si riesce a mantenere interesse e la voglia di suonare insieme per un così lungo periodo e per gli anni che verranno?
«Stare assieme per tanti anni non è semplice: non sono mancate le divergenze, ma ha prevalso sempre la comunione d’intenti. In questo senso il quartetto è una grande scuola di democrazia: una forma nobile di composizione di tutte le divergenze. Ognuno ha il diritto di dire la sua opinione, ma alla fine le opinioni devono convergere in un unico progetto».
Come si riesce a fondere quattro personalità diverse in un’unica visione artistica coerente?
«Nei primi anni abbiamo dovuto chiarire molte cose, e ci siamo resi conto che solamente il dialogo e lo sforzo di comprensione delle motivazioni dell’altro aiuta a trovare le risposte giuste per la risoluzione dei problemi. Nel quartetto funziona una forma di democrazia di livello superiore, che non passa per il potere di decisione della maggioranza, ma attraverso l’indispensabile comprensione delle ragioni di ciascun membro della formazione. Chi non è in grado di capire e soprattutto accettare queste caratteristiche di convivenza non può stare in un quartetto. È una forma bellissima di responsabilizzazione delle persone nei confronti degli altri».
«Nel quartetto funziona una forma di democrazia di livello superiore, che non passa per il potere di decisione della maggioranza, ma attraverso l’indispensabile comprensione delle ragioni di ciascun membro della formazione».
«L’entusiasmo che ancora oggi proviamo verso il quartetto viene da una passione e un amore che non muore mai. È come chiedere a un pittore o a uno scrittore "perché dopo tanti anni lei dipinge o scrive ancora?". La risposta sarà la medesima. L’amore e la passione».
Il percorso artistico del Quartetto di Venezia è molto ricco e articolato. Ha attraversato le molte stagioni del quartetto d’archi, a partire dai grandi classici come Haydn, Mozart, Beethoven passando attraverso il periodo romantico per arrivare al Novecento storico soprattutto di area italiana (Martucci, Respighi, Puccini, Zandonai, Casella e Malipiero). Salvo rare eccezioni – e una si chiama Curt Cacioppo, e con il suo disco avete avuto una nomination al Grammy – le vostre incursioni nel contemporaneo sono piuttosto scarse: la musica per quartetto è finita con i classici?
«No. Ogni epoca vive il suo stile e la sua arte. Oggigiorno ci sono molti validissimi autori che hanno scritto interessanti opere per quartetto. Credo però che la musica contemporanea sia talmente variegata e con caratteristiche tecniche particolari, che un artista deve dedicarsi a essa a tempo pieno. Molti quartetti, infatti, si dedicano giustamente solo a questo repertorio. Con Curt Cacioppo, eccellente compositore americano, ci lega una bella amicizia pluriennale che ci ha portato a suonare e incidere parecchie sue opere a noi dedicate».
Dal 2016 il Quartetto di Venezia ha una nuova casa: l’Auditorium Lo Squero nell’Isola di San Giorgio. Come si sta nella nuova casa?
«Lo Squero è una sala davvero magica! Nasce tutto quattro anni fa, quando ci incontrammo con il Professor Gagliardi, Segretario Generale della Fondazione Cini, per presentargli un progetto di residenza. Lui, che ci conosceva già, fu entusiasta dell’idea e, coincidenza, ci disse che stavano per costruire un nuovo auditorium dedicato alla musica. Ci mostrò il plastico e poi ci fece vedere la sala che era quasi ultimata. Fu per noi una splendida sorpresa e iniziammo questa nuova avventura con una integrale beethoveniana. Da allora, ogni anno organizziamo una nostra stagione di concerti. Inoltre, nel 2017, siamo stati nominati “Quartetto in residenza”».
È cambiato qualcosa nella vita del Quartetto di Venezia dopo questa residenza?
«Certamente questa opportunità è particolarmente importante per noi. Grazie anche al contributo fondamentale di Asolo Musica, oggi possiamo organizzare una stagione concertistica annuale. L’anno scorso è stato memorabile: sei concerti dove abbiamo eseguito l’opera integrale per quartetto, quintetto e sestetto, di Brahms e Schumann, con la partecipazione di grandi interpreti e amici di vecchia data del Quartetto di Venezia come Alessandro Carbonare, Andrea Lucchesini, Danilo Rossi e Mario Brunello».
Una curiosità: non vi distrae suonare in quello spazio con quella grande vetrata che si affaccia su Venezia e su quello spazio acqueo in continuo movimento?
«Noooo! È proprio quella la caratteristica che la contraddistingue da altre sale da concerto: sembra di galleggiare sull’acqua mentre si suona: una cornice davvero magica!».
Il vostro primo concerto della stagione allo Squero è stato quasi uno spettacolo teatrale attorno al quartetto K 465 "Le dissonanze" di Mozart, con la partecipazione di Sandro Cappelletto che ha letto testi dal suo libro La notte delle Dissonanze (EDT, 2006). Come nasce questo progetto?
«Con Sandro ci conosciamo da molti anni. Oltretutto anche lui el xe venexian… Quando ce l’ha proposta, ci è piaciuta subito l’idea di una serata dedicata alla storia travagliata di quest’opera mozartiana e, appena si è presentata l’occasione, l’abbiamo realizzata. Mi sembra sia un’ottima idea, soprattutto perché scritta tenendo conto di chi avrebbe ascoltato testi e musica. Molto piacevole, scorrevole, chiara, efficace, per gli addetti ai lavori e non: questa certamente è l’impronta caratteristica di Sandro Cappelletto».
Non è un’esperienza nuova per voi: penso a un vostro recente concerto per la stagione cameristica a Mestre che prevedeva la partecipazione del compositore e musicologo Giovanni Bietti. Obiettivo pedagogico? Voglia di sperimentare forme alternative alla formula classica?
«Sì, si tratta di un obiettivo pedagogico. Purtroppo, non solo per la musica classica, stiamo vivendo un periodo dove regna superficialità e sempre più ignoranza. Noi musicisti abbiamo il dovere di riportare l’arte musicale al più alto numero di ascoltatori possibile. Le persone comuni semplicemente non sanno cos’è la musica classica, diversamente da qualche anno fa quando, perlomeno, l’opera italiana si conosceva a livello popolare. Quanti di noi avevano i nonni che cantavano o fischiettavano in casa o nei bar fumosi arie d’opera? È quindi importante che le società concertistiche, come ha fatto in modo intelligente Mestre e non solo, facciano opera di divulgazione e conoscenza in questo modo, anche attraverso lezioni concerto. La collaborazione con Giovanni Bietti è stata molto bella, interessante e piacevole per il pubblico presente».
Cosa c’è nel futuro del Quartetto di Venezia?
«Nell’immediato all’Auditorium Lo Squero in questa stagione proporremo i sei quartetti di Mozart dedicati a Haydn e i sei quartetti “Russi” op. 33 di Haydn. Abbiamo iniziato un nuovo importante progetto con la Fondazione Benetton – Studi e Ricerche di Treviso, con cui abbiamo già realizzato una serie di concerti nel 2018 e nel 2019 stiamo organizzando un’altra serie di quattro concerti che si svolgerà fine anno, e una masterclass estiva. In giugno alla Fondazione Cini guideremo le sessioni pratiche del workshop internazionale dedicato al Quartetto n. 6 per archi di Béla Bartók e al Quartetto n. 7 di Gian Francesco Malipiero. Il prossimo anno un “progettone” prenderà corpo in occasione del 250° anniversario della nascita di Beethoven. Sarà un anno pazzesco per tutti i quartetti. L’integrale dei suoi quartetti è sempre una grande emozione e un grande impegno e noi avremo il piacere di eseguirla in più occasioni in Italia e all’estero, soprattutto in Spagna e in Olanda, ed è molto probabile che sarà nella nostra stagione 2020 allo Squero a San Giorgio. E poi molti concerti in Italia e un’intensa attività all’estero: Irlanda, Olanda, Danimarca, Israele, Cina, Brasile, Croazia, Spagna, USA».
Per finire, il grande direttore britannico Jeffrey Tate, recentemente scomparso, ha scritto che “la più perfetta espressione del comportamento umano è il quartetto d’archi”: sottoscrive?
«Assolutamente sì. Di più: aggiungo anche la descrizione del quartetto fatta da Luciano Berio: “Penso che non esista un insieme strumentale che sia stato penetrato tanto profondamente dal pensiero musicale quanto il quartetto d’archi. È infatti attraverso di esso che il vascello della musica ha gettato lo scandaglio nei mari più profondi. Dopo quasi 250 anni di vita esso continua a non essere riducibile alla somma dei suoi componenti e si presenta a noi, invece, come uno “strumento” la cui dialettica fra individualità ed unanimità, fra autonomia e omogeneità, sembra porsi come paradigma di una società ideale”».