Il pianista di domani, secondo Emanuel Ax

Intervista a Emanuel Ax: i compositori del Novecento, gli allievi, la carriera del musicista oggi

Emanuel Ax (foto di Lisa Marie Mazzucco)
Emanuel Ax (foto di Lisa Marie Mazzucco)
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Ciò che colpisce di Emanuel Ax è la gioiosa, serena semplicità. Di piccola statura, vivace, umile e auto-ironico, con immediatezza empatica entra subito in contatto con l’interlocutore e lo porta nel suo mondo, sorridente e armonioso.

Originario dell’Ucraina Occidentale, Ax ha vissuto brevemente a Varsavia per poi migrare in Canada e a New York. Qui segue parallelamente gli studi pianistici alla Juilliard e quelli universitari alla Columbia, dove si laurea in letteratura francese. Nel 1974 vince l’Arthur Rubinstein Competition di Tel Aviv, e nel ’79 il prestigioso Avery Fisher Prize. Da allora la sua carriera solistica e cameristica è decollata.

Lo abbiamo incontrato al Teatro Comunale di Vicenza, durante le prove del suo recital per la stagione concertistica organizzata dalla Società del Quartetto.

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Quale è il filo rosso del programma di questa sera?

«Non c’è in realtà un filo conduttore, sono innanzitutto brani che amo molto e che spero possano piacere al pubblico. Una linea guida potrebbe essere quella della forma, in quanto mancano le sonate. Ho scelto infatti di inserire solo polittici, collane di piccoli brani organizzati all’interno di macrostrutture».

Tra questi ci saranno i Piano Figures di Sir George Benjamin. Come ha conosciuto la sua musica?

«Già vent’anni fa aveva scritto per me un’opera sul nome Haydn, seguendo l’esempio di  Debussy e Ravel, una musica favolosa. Sono un suo grande ammiratore. La collana che suono questa sera ha già quattordici anni ed è stata dedicata a Pierre-Laurent Aimard».

Lei ha spesso commissionato opere in prima assoluta. Quale è la sua opinione sull’evoluzione della musica contemporanea?

«Non è facile prevedere quali compositori contemporanei lasceranno una traccia per il futuro, ma ritengo per esempio che, tra gli americani, la musica di John Adams e Christopher Rouse rimarrà nel tempo».

«Degli autori italiani trovo estremamente interessanti le opere di Luciano Berio, Luigi Nono, Luigi Dallapiccola e Goffredo Petrassi».

«Un grande successo ha riscosso anche il Concerto per pianoforte e orchestra di Karl Heinz Gruber, che ho eseguito con la New York Philarmonic Orchestra lo scorso anno.Tra i più giovani stimo molto Thomas Adès. Degli autori italiani trovo estremamente interessanti le opere di Luciano Berio, Luigi Nono, Luigi Dallapiccola e Goffredo Petrassi».

Lei affianca l’attività concertistica a quella didattica presso la Juilliard School. Quali sono le peculiarità della formazione offerta in questa prestigiosa istituzione?

«Gli impegni concertistici non mi consentono di seguire molti studenti e spesso lavoro in collaborazione con altri colleghi estremamente competenti, all’interno del dipartimento pianistico che guido. Abbiamo innanzitutto grandi talenti e credo che la prima caratteristica del percorso formativo proposto alla Juilliard consista nella possibilità di confrontarsi con giovani brillanti provenienti da tutte le parti del mondo. Questa è la prima vera scuola, che consente di imparare gli uni dagli altri. Senza contare poi che vivere a New York offre quotidianamente l’opportunità di assistere ad eventi del più alto livello internazionale. Chi frequenta la nostra scuola, inoltre, usufruisce di varie opportunità per suonare in pubblico in sale prestigiose».

Ci sono studenti europei nel vostro dipartimento?

«Sì, tra i più interessanti c’è proprio un mio allievo, Nicolas Namoradze. Viene da Budapest, si è recentemente  aggiudicato l’Honens Prize, in Canada, premio che gli ha consentito di debuttare al Carnegie Hall di New York, alla Wigmore Hall di Londra e al Konzerthaus di Berlino. La sua mente prodigiosa mi ricorda quella di Andras Schiff…».

Quale è il profilo del musicista del futuro e quale tipo di educazione ritiene vincente per affrontare le sfide che aspettano i giovani nei prossimi anni?

«Credo che oggi ci siano troppe competizioni e anche vincerne qualcuna non è di grande aiuto per la creazione di un percorso artistico. Occorre poi essere veramente fortunati, molti sono i fattori che sono necessari per conseguire una vittoria,  è un po’ come giocare al totocalcio... Negli anni Settanta, quando ero giovane, i concorsi erano meno numerosi e un primo premio poteva davvero contribuire a lanciare una carriera. Oggi non è più così, vedo che i nostri studenti si danno molto da fare per trovare occasioni in cui esibirsi, affrontando nuovi repertori. Hanno una facilità di apprendimento impressionante ma le opportunità non sono molte e la possibilità di farsi conoscere fatalmente si riduce, considerato anche l’alto livello professionale generale e l’elevato numero di competitors».

«Come modello vincente Le potrei segnalare un artista quale il violoncellista Yo-Yo Ma, con cui collaboro da anni. La sua plasticità mentale ed esecutiva gli consente di affrontare bene ogni tipo di repertorio, si trova a suo agio in ogni cultura con la quale viene a contatto. Oppure Lang Lang, un interprete popolare che usa la propria notorietà per interessare alla musica pubblici ampi».

Quali sono i suoi prossimi progetti?

«Ho settantacinque anni. Vorrei innanzitutto stare bene, potere godere i miei nipoti, portarli a conoscere l’Europa che amo».

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