Fin da bambino sono stato attratto dal profumo delle falegnamerie. Quando possibile vi entravo come in un luogo magico, camminando divertito su nuvole di trucioli leggeri e croccanti sparpagliati su isole di morbida segatura. Rimanevo a bocca aperta nello scoprire l’abilità, il gesto del falegname nel fare, assemblare oggetti, mobili, forme da un’anonima tavola. Stupore ancora più grande alla scoperta della prima liuteria. Costruire un violino, una chitarra, un contrabbasso, un violoncello, creare un suono da un legno pregiato lo considero tutt’oggi un miracolo artigianale.
Tutte reminiscenze, queste, suscitate dal recente lavoro per percussioni sole Wooden Songs (Stradivarius) di Simone Beneventi. Quattro composizioni – Scraping song di David Lang, Wooden di Silvia Borzelli, One Man Band di John Svensson, Ã (grammatica del delirio) di Riccardo Nova – per strumenti in legno creati ad hoc dall’ebanista Giuseppe Bussi.
Un lavoro di notevole fascino che trascina nel mistero atavico del legno percosso come primo segnale extracorporeo, primo messaggio culturale dell’uomo. Ma qui si va ben oltre gli aspetti ancestrali, romantici, comunicativi del tronco battuto, del tamburo parlante. In Wooden Songs quattro compositori si misurano con il legno, con la materia vegetale, in una lettura contemporanea sulle sue svariate potenzialità sonore, timbriche, ritmiche, non meccanicamente elencate ma sviluppate all’interno di una possibile logica compositiva. Tutto questo è arricchito dall’aspetto creativo-artigianale dello strumento, dell’oggetto sonoro in legno pensato per le composizioni, ideato, costruito in stretta cooperazione tra interprete, compositori e maestri falegnami. Quasi a evocare una ideale bottega rinascimentale dove pensiero creativo e manualità si fondono, trovano sintesi.
Simone Beneventi non ha bisogno di molte presentazioni. Il suo percorso, la sua biografia, le collaborazioni e i concerti in giro per il mondo, le numerose opere a lui dedicate dai maggiori compositori d’oggi (tre su quattro in Wooden Songs), il Leone d’Argento alla Biennale Musica del 2010 parlano ampiamente per lui. Ciò che sorprende in questo cammino è la presenza costante di una ricerca sul piano sonoro di stimoli nuovi, suoni inusuali distribuiti su diversi percorsi compositivi. È sorprendente scoprire come il percussionista, che dispone di un vero e proprio arsenale di strumenti (folklorici, tradizionali, moderni e tecnologici) ai quali attingere, sia comunque e sempre affascinato dalla sfida di aggiungerne uno, quello che può aprire altre strade.
In Wooden Songs Beneventi prosegue su questo cammino anche andando a modificare il set strumentale originario previsto dall’autore. Come in Scraping Song (1997, revisionata nel 2001) di David Lang che grazie alla collaborazione dell’ebanista restauratore Giuseppe Bussi privilegia l’elemento ligneo rispetto al set di percussioni previsto (è possibile confrontare le due versioni in rete). Sicuramente Beneventi ne va a privilegiare l’aspetto minimalista, come un certo intimismo. Rafforza la trama leggera circolare, ipnotica e danzante del pezzo amplificando, tracciando una quasi pulsione umana nell’incastro delle tre voci che si intrecciano ed estraniano. Nel finale, la scelta di un cajon sudamericano a pedale al posto della grancassa rock evoca sapori caldi e popolari, la sabbia del deserto
Più nevrotico e urbano Wooden (2015) di Silvia Borzelli che coinvolge una marimba preparata, un woodblock e un logdrum. La ripetizione di un frullato ritmicamente più o meno marcato, ottenuto usando la struttura lignea della marimba o i suoi tasti stoppati, quindi meno risonanti, disegna un percorso senza fine che trascina in una specie di buco nero. Nella parte centrale della composizione si riprende fiato, si esce dal tunnel con la voglia di ballare tra colori disco per poi ripiombare nella immutabilità della traccia principale ma accompagnati, in sottofondo, dal fascinoso respiro della marimba con il proprio suono riconoscibile e avvolgente.
Più complessa la struttura di One Man Band (2016) di Johan Svensson, non solo per il numero degli strumenti coinvolti ma anche perché opera attraversata da una visione drammaturgica dove si muovono suoni-personaggi in una vitalissima tessitura ritmica. Compongono questo teatro delle sorprese diversi percussioni di legno, strumenti ad aria, vibratori (sì avete letto bene, quelli da sexy shop) azionati da una pulsantiera elettrica low-fi che entrano in contatto con castagnette, legnetti, woodblock, logdrum, cajon…Dieci brevi tracce che tendono a costruire con suoni anche irriverenti, sorprendenti, un racconto dove l’abilità interpretativa di Beneventi (quella gestuale-performativa la possiamo verificare su Youtube) è quella di un totale controllo di dinamiche, di volumi, condito da una buona dose di libertà, ironie e schiribizzi che rendono godibili i movimenti di figure favolistiche imprevedibili e bizzarre.
Chiude Wooden Songs probabilmente l’opera più intrigante dal punto di vista compositivo, ma anche emotivo, Ã (grammatica del delirio) for wooden percussion and electronic sounds (2017) di Riccardo Nova. Vi si respira una vitale sinergia tra l’aspetto elettroacustico e concezioni ritmico/metriche lontane nel tempo, quelle dei Veda indiani, antichissima raccolta in sanscrito di testi sacri. Proprio l’aspetto sacrale, cerimoniale dello svolgimento dell’opera trascina in una visionarietà, una profondità tale che dimentichi che sono strumenti a percussione e suoni campionati ad agire, perché ci troviamo immersi in trame orchestrali, impasti improbabili, gorghi mistico/meditativi. Aspetti ritmici, tribali, si sviluppano nella parte centrale, dedicata ad azioni danzanti e di combattimento, che poi si diluiscono nel finale in un gesto profondamente simbolico. Il dijeridoo viene immerso nell’acqua evocando un ritorno a ciò che ha dato origine alla sua vita vegetale.
Considerando che in Wooden Songs la stretta collaborazione tra l’artigiano e il musicista risulta elemento decisivo abbiamo pensato di coinvolgerli entrambi in un ulteriore approfondimento del lavoro.
Il musicista: Simone Beneventi
Il musicista solo con il proprio strumento suscita un’aspettativa emotiva profonda. Senza filtri, senza la possibilità di nascondersi, ci si aspetta da lui una dichiarazione d’amore, talento, capacità interpretative ma anche fragilità per sentirlo più vicino a noi, a chi ascolta. Come si prepara, al di là dei repertori, una registrazione in solo?
«Wooden Songs è un album di brani in prima incisione assoluta, condizione comune alla maggior parte dei dischi di musica nuova. Altri aspetti inediti, come la strumentazione impiegata, hanno reso la preparazione di questo disco un unicum nella mia seppur breve esperienza discografica, arrivando a impiegare ben quattro anni per giungere dall’idea iniziale alla stampa del disco. In tutto questo tempo ho potuto mettere alla prova le mie scelte, le mie intenzioni e i miei dubbi, portando queste musiche in concerto nei contesti più differenti, prediligendo quelli meno destinati a questo genere di proposte, tanto per tipologia di pubblico, quanto per caratteristiche acustiche del luogo. Passando per teatri di tradizione (Teatro Rossi di Macerata) a edifici abbandonati (Festival Arsenale di Treviso), da club culto dell’indie-rock (Bloom di Mezzago) a musei d’arte contemporanea (Museo Pecci di Prato), da centri sociali (Circolo Aurora di Arezzo), ad antichi saloni (Castello di Vignola), e anche su un ponte (Kalv Festival, Svezia), ha così preso forma la mia interpretazione. In sala d’incisione abbiamo poi puntato a ricreare lo stesso suono del live sperimentando con il posizionamento dei microfoni e registrando contemporaneamente sia audio che video (disponibili su Youtube)».
«La musica a percussione è la rivoluzione. Suono e ritmo sono stati per troppo tempo sottomessi alle restrizioni della musica ottocentesca». Questo scriveva John Cage negli anni Sessanta. È una riflessione condivisibile? Come si potrebbe sintetizzare il cammino della percussione dal secondo Novecento ad oggi?
«Se escludiamo i primi pionieristici lavori per ensemble di percussione degli anni Trenta del Novecento (Meytuss, Roldán, Varèse), dobbiamo attendere la seconda metà degli anni Cinquanta per vedere letteralmente nascere le prime opere per percussione sola grazie a Cage (27’ 10.554”, 1956), e a Bussotti (Coeur, 1959) per l’Italia. Se pensiamo a quanto è stato realizzato fino a oggi, più che un cammino ci appare come una corsa, nata in seno alle avanguardie e poi propagatasi in ogni direzione, attraversando stili, linguaggi, culture tradizionali e innovazioni tecnologiche. Questa apertura ha ridefinito la figura stessa del percussionista come di un musicista con una disponibilità strumentale pressoché infinita (strumenti etnici, classici, industriali, midi, virtuali, il proprio corpo). Inoltre questa rivoluzione, tutt’altro che terminata, ha trasformato e allargato le potenzialità di ogni altro strumento, quindi le abilità e le tecniche di ogni altro musicista».
«Nella definizione di Cage, quanto mai attuale come gran parte del suo pensiero, erano già rivelati i prodromi di ciò che la musica e l’ascolto hanno oggi pienamente conquistato. In Italia questo processo ha avuto un percorso singolare. A fronte di una produzione di opere per percussione fin dagli anni Sessanta corposa, vivace e internazionalmente riconosciuta, la mancanza fino agli anni Ottanta di interpreti dedicati e di una scuola attenta a queste trasformazioni ha spinto gli stessi compositori a farsi interpreti delle proprie opere (Bertoncini, Battistelli) o a cercare la “musica a percussione” in altri strumenti come la chitarra per Scelsi (Khota, 1962) o la voce per Castaldi (Tendre, 1963). Proprio in questi giorni sto terminando di lavorare a una pubblicazione antologica su tutto il repertorio italiano per percussione sola dalle origini ad oggi (circa 240 opere). Accompagnerà il volume cartaceo, un sito internet dove sarà possibile ascoltare le registrazioni delle interviste telefoniche ai compositori. Il lavoro verrà pubblicato dalla casa editrice Aracne e sarò felice di parlarvene alla prossima occasione».
Quanto ha inciso in Wooden Songs la collaborazione diretta dell’artigiano del legno?
«Potrà sembrare iperbolico ma onestamente, senza le creazioni dell’ebanista appenninico-reggiano Giuseppe Bussi, credo non mi sarei mai trovato a immaginare un progetto di questo tipo. La nostra ventennale amicizia racconta di un’infinità di lavori e lavoretti commissionati: da semplici riparazioni a invenzioni di sculture sonore, da copie (migliori!) degli originali già esistenti a strumenti realizzati su disegni ricevuti dagli stessi compositori (Battistelli, Billone, Dufourt, Lachenmann, Sciarrino)».
«L’opera di Bussi attraversa tutte le composizioni presenti in Wooden Songs, in tre diverse modalità. Per i brani di Borzelli e Svensson sono stati utilizzati alcuni suoi strumenti già costruiti per progetti precedenti. Per il brano di Nova, nuove opere realizzate sviluppando tutti e tre insieme il progetto. Per Scraping song di Lang, lasciando l’autore ampia libertà nella scelta della strumentazione, ho voluto cedere tutto il piacere della creazione a Bussi che ha realizzato in completa autonomia i 12 strumenti di legno del set: 4 enormi guiros in faggio, 4 lastre sonore din palissandro e 4 campane a claves in differenti legni esotici».
Nella musica contemporanea l’interprete ha la possibilità di confrontarsi, dialogare con il compositore su eventuali aspetti controversi della partitura. Secondo lei questa possibilità è un vantaggio o un limite, cioè una limitazione della libertà interpretativa?
«Certamente l’opera ha la sua autonomia e la libertà interpretativa resta uno strumento fondamentale per affermare la propria sensibilità, ma il confronto tra compositori e interpreti, quando possibile, mi pare assolutamente vitale, fosse anche solo per condividere le urgenze e le circostanze che hanno portato alla creazione e allo studio dell’opera in questione. Come interprete, più informazioni possiedo e più aumentano gli stimoli e il terreno su cui sperimentare la mia creatività, andando anche oltre la questione interpretativa poiché la presenza di un brano all’interno di un disco o di un concerto risponde già a ragioni artistiche».
«Nel caso di Wooden Songs, poi, il rapporto con i compositori è stato determinante dalla nascita all’ultimazione dei brani stessi: insieme abbiamo immaginato e sperimentato il mondo sonoro, insieme abbiamo selezionato e assemblato la strumentazione, insieme abbiamo definito gesti e segni, e sempre insieme, concerto dopo concerto abbiamo migliorato le stesse partiture. Questo lavoro di bottega, che lega così tanto l’opera al suo primo interprete e in questo caso anche alla sua specifica strumentazione, ha un grande vantaggio che è al tempo stesso una limitazione (la sola che vedo): l’opera, come un vestito di sartoria, risponde meglio alle caratteristiche dell’interprete accorciando la distanza tra rigidità della scrittura e performance, ma potrebbe rivelarsi meno facilmente “indossabile” da altri interpreti, riducendo le occasioni di circuitazione».
L'ebanista: Giuseppe Bussi
Quale è il suo rapporto con la musica? Quale ascolta e ama di più?
«Ho avuto la fortuna di crescere in una famiglia in cui la musica è sempre presente e considerata parte importante della cultura e, quindi, frequentato teatri fin da tenera età e mai smesso di apprezzarne l’ascolto. Diverso il discorso per la pratica, dopo qualche fallimentare esperienza in età scolare, per qualche anno ho cantato in una corale mista, a livello amatoriale, una bella esperienza, rimane il dispiacere di non saper padroneggiare uno strumento musicale, la mia professione attualmente non mi dà il tempo materiale per lo studio. Ascolto e apprezzo molti generi musicali e come altri prima di me credo che esista solamente buona e cattiva musica. Mentre lavoro la musica barocca non mi stanca mai, mi piace molto il suono degli strumenti antichi».
Come ha vissuto la recente collaborazione con Simone Beneventi in Wooden Songs ?
«Sono legato da profondo affetto e amicizia a Simone, da prima della nostra collaborazione professionale e da prima che entrambi intraprendessimo le nostre carriere ed è sempre un piacere poter essere coinvolto o meglio travolto dai suoi vulcanici progetti».
La scelta del legno per uno strumento a percussione è legata al suono che si ricerca? La forma dello stesso possiede un valore estetico o è solo funzionale al suo uso?
«Per quanto riguarda la realizzazione di uno strumento credo che la scelta dei materiali sia principalmente legata al suono che si vuole ottenere. Ci sono essenze lignee che risuonano e altre meno o per nulla, anche la forma e le dimensioni sono funzionali al suono, il lato estetico, che comunque ritengo importante, viene per ultimo. Le percussioni che ho realizzato per Simone hanno un design minimale, la scelta dei legni delle varie parti dello strumento sono legate alla loro funzione. Se per le parti risonanti le scelte sono limitate, per la costruzione delle casse armoniche o di elementi strutturali ho un po' di libertà, ma ognuno deve avere le giuste caratteristiche e devono funzionare bene insieme».