Questo non è un libro di Igor Levit. Non è nemmeno un libro su Levit. Questo è un libro che il pianista Igor Levit ha voluto scrivere con Florian Zinnecker per raccontare – o meglio, per condividere – il suo sguardo sul (proprio) mondo. Un racconto che intreccia senza soluzione di continuità l’io (narrante e non solo) del pianista e quello di Zinnecker – quest’ultimo giornalista e vicedirettore del settimanale “Die Zeit” – alternandoli in una sorta di altalena narrativa tra flashback e flashforward, miscelandoli inoltre con dichiarazioni del protagonista e testimonianze di conoscenti, amici e parenti.
Per inquadrare la prospettiva lungo la quale si dipana questo resoconto possiamo riportare le righe in cui è lo stesso Zinnecher ad annotare come «bisognerebbe raccontare di come prima della nascita di Igor lei [Elena Levit, la madre di Igor, ndr] sogni di assistere a un concerto in cui suo figlio, sul palcoscenico, esegue il Concerto per pianoforte n. 2 op. 18 in Do minore di Sergej Rachmaninov. E di come quindici anni dopo, in occasione del Gran premio internazionale per pianoforte “Maria Callas”, Elena Levit si trovi di fatto in una sala da concerto e ascolti il figlio eseguire sul palcoscenico proprio il Concerto per pianoforte n. 2, op. 18 in Do minore di Rachmaninov». Zinnecher riporta questo passaggio schernendosene in qualche modo, chiedendosi poche righe dopo: «per capire se un pianista suoni come suona, pensi come pensa, senta come sente, bisogna per forza cominciare dalla prima nota?» La domanda – come la risposta – non ci appassiona, quindi andiamo oltre.
Igor Levit è un pianista affermato e prolifico (ricordiamo che è da poco uscito il nuovo album Fantasia che segue il precedente Tristan, solo per citare i due dischi più recenti di quelli pubblicati per Sony Classical negli ultimi dieci anni) e dal carattere artistico originale, ma è anche un attivista politico, che si espone direttamente contro il razzismo, l’antisemitismo e ogni forma di intolleranza e pregiudizio. Un personaggio la cui storia raccontata in queste pagine trova la sua ragion d’essere – e il proprio titolo – in una svolta inattesa avvenuta nel 2020, anno nel quale si è celebrato il duecentocinquantesimo anniversario dalla nascita di Ludwig van Beethoven e Levit, tra gli interpreti più richiesti del compositore di Bonn, era alle prese con un’agenda fitta di impegni. A marzo di quell’anno, come sappiamo, a causa dell’epidemia da Covid19 ogni attività viene cancellata, tutti gli appuntamenti – ogni tipo di concerto, di spettacolo, di manifestazione – finiscono per essere annullati. Levit tuttavia vuole continuare a suonare per il suo pubblico e decide di farlo da casa – con gli “house concert”, appunto – trasmettendo le proprie performance in diretta streaming via Twitter (oggi “X”): «Le sale da concerto sono vuote. È triste, ma necessario. Io vorrei però condividere ancora la musica con voi. L’ascolto, l’esperienza. Così come viene. Farò dunque un esperimento: un concerto domestico. Il pubblico siete voi tutti. A partire da stasera, alle 19.00, ogni volta che posso suonerò per voi da casa mia».
L’immediato successo dell’iniziativa ha contribuito a rafforzare la popolarità di Levit in qualità sia di artista sia di personaggio, come documentano anche queste pagine pubblicate in origine nel 2021 dall’editore Carl Hanser di Monaco di Baviera – titolo originale di Haus Konzert – e proposte qualche mese fa nella traduzione italiana di Silvia Albesano sovvenzionata dal Goethe-Institut (Igor Levit, Florian Zinnecker, House Concert. Conversazioni con il pianista, l'uomo, il cittadino del mondo, il Saggiatore 2023, 248 pp., 26,00 €).
«L’obiettivo non è l’esecuzione dell’opera fedele all’originale. L’obiettivo è che il pianista si appropri del brano. Racconti la propria storia».
Al di là di una affabile tendenza agiografica che Zinnecker sparpaglia qua e là tra le righe, anche con paralleli musicali di gusto un poco ingenuo («[…] parla come suona. […] Può giocare con il tempo e variare il volume, passando da piano a fortissimo, poi mezzo forte, e a un tratto subito piano. […] Ogni parola, ogni pausa è proprio lì dove deve essere, e non viene semplicemente recitata, tutto quanto è realmente sentito nel momento in cui viene pronunciato»), il libro restituisce comunque prospettive interessanti. Per esempio, a pagina 87 si legge: «L’obiettivo non è l’esecuzione dell’opera fedele all’originale. L’obiettivo è che il pianista si appropri del brano. Racconti la propria storia». Una posizione perlomeno intrigante se collocata in un panorama alimentato da un’attenzione sempre maggiore rivolta all’interpretazione storicamente informata, che interessa ormai repertori di tutte le epoche. Oppure il “reset” pianistico maturato con Lajós Rovátkay quando, a diciassette anni, Levit si sente chiedere dal maestro ungherese: “Conosce Josquin?”. La risposta negativa e le successive lezioni hanno inciso parecchio sul carattere del pianista: «Sentivamo una quantità pazzesca di musica. Ha un modo di insegnare che mi ha permesso di imparare anche molte cose su di me». Anche l’incontro con Grigorij Sokolov non è stato, possiamo dire, indifferente: «Nessuno le ha mai parlato di articolazione? […] Nessuno le ha mai parlato di dinamica?» sono le domande che il pianista russo ha rivolto a Levit dopo averlo ascoltato suonare qualche frammento di Schumann e Beethoven.
A questa e ad altre prove Igor Levit ha reagito con un carattere che gli ha permesso di tracciare una sua personale traiettoria nel mondo concertistico. Almeno fino al 12 marzo del 2020, dopo la chiusura delle attività dovuta alla pandemia: «Sapevo che non sarei riuscito a fare musica solo per me. […] Avevo bisogno della musica per superare quei giorni. Ma avevo anche bisogno di un motivo per mettermi al pianoforte». Iniziano in questo modo gli “House Concert”, che termineranno il 4 maggio di quell’anno. È un periodo nel quale il pianista indaga anche reminiscenze musicali popular della sua adolescenza: «Riascolto dischi che da studente ascoltavo di continuo, sempre, non stop. Adesso li riascolto e li trovo ancora pazzeschi». Il rapper Eminem, per esempio, è un vero e proprio punto di riferimento: «Mi sembrava incredibilmente coraggioso e fantastico che qualcuno costruisse tutto il suo percorso artistico sulla parola “io”, e non preoccupasse di quel [che] si deve o non si deve fare. Eminem mi ha conquistato proprio nella fase in cui avevo stabilito per me: voglio poter dire “io”». Dalle pagine di questo volume emergono anche altre figure emblematiche che hanno influito sull’immaginario di Levit: «Thelonious Monk è probabilmente il mio più grande eroe del xx secolo accanto a Ferruccio Busoni. Monk, per me, è la libertà che si avvera […]».
«Thelonious Monk è probabilmente il mio più grande eroe del xx secolo accanto a Ferruccio Busoni. Monk, per me, è la libertà che si avvera […]».
Un percorso, quello offerto da questo libro, che miscela il versante personale dell’artista, sia pubblico che privato – dagli atteggiamenti antisemiti subiti e dalle minacce di morte ricevute via social da gruppi di neonazisti alla morte di un caro e fraterno amico – e il versante artistico, quest’ultimo attraversato da tappe significative come, tra le altre, l’impegnativo articolo pubblicato il 3 maggio 2010 sulla “Frankfurter Allgemeine Zeitung” e firmato dalla critica musicale Elisabeth Eleonore Büning – che definisce un Igor Letiv all’epoca ventitreenne «uno dei maggiori pianisti del secolo» (!) – fino alla maratona di venti ore rappresentata dall’esecuzione trasmessa in streaming nel maggio del 2020 delle 840 ripetizioni del tema e variazioni previste da Vexations di Eric Satie.
Un volume eclettico e variegato, insomma, scritto da Florian Zinnecker “con” e “su” Igor Levit e che restituisce in estrema sintesi un significativo ritratto di un artista il quale, sotto diversi aspetti, vive e rappresenta appieno il proprio (e il nostro) tempo.