Capita a chi scrive di jazz, mentre contempla la pila dei dischi appena usciti – spesso più alta di quanto sia ragionevolmente in grado di ascoltare – di scorgere connessioni, legami, tendenze più o meno esplicite che mettono in relazione questo o quel lavoro.
Senza per forza elevare questi segnali a sempre più improbabili – e certamente opinabili – zeitgeister, difficile è sfuggire alla sensazione (un po’ come quando un conoscente ti ricorda qualcun altro cui pure assomiglia non troppo) di potere raccontare questi dischi tracciando delle linee che li uniscono un po’ trasversalmente.
A me è successo di recente, con quattro nuovi lavori a nome di musicisti italiani, che mi va di segnalarvi attraverso la lente del comune “spirito” di adesione a un linguaggio black intriso di consapevolezza individuale e collettiva. Un linguaggio che guarda apertamente alla stagione della New Thing, all’Africa, anche al senso politico – non necessariamente esplicitato – del fare musica assieme.
Il primo di questi dischi è Chicago Sessions (Fonterossa) a nome della contrabbassista Silvia Bolognesi. La musicista toscana sembra avere un legame speciale con la Windy City, non solo perché la sua musica non nasconde chiari riferimenti alle pratiche e ai musicisti che hanno animato la Chicago creativa degli ultimi cinquant’anni, ma anche per una sempre più assidua frequentazione della città e dei suoi artisti.
Pochi anni fa queste frequentazioni avevano portato all’ottimo trio con la violinista Mazz Swift e la violoncellista Tomeka Reid, ora quello di base è un quartetto in cui alla Reid si aggiungono la batteria di Mike Reed e la tromba di Russ Johnson, entrambi musicisti che non solo hanno metabolizzato al meglio il lessico della tradizione, ma che hanno anche nel proprio DNA la capacità di condividere al meglio questa profondità di approccio. Al quartetto si aggiungono in alcuni momenti le voci di Dee Alexander e Emiliano Nigi.
Il secondo disco è di un altro musicista toscano, il violinista Emanuele Parrini, alla testa di un quartetto con Dimitri Grechi Espinoza al contralto, Giovanni Maier al contrabbasso e Andrea Melani alla batteria. Si intitola The Blessed Prince, è pubblicato da Long Song Records e in un certo senso chiude un po’ il cerchio tracciato con i due volumi di Viaggio al centro del violino.
Leggendo le brevi note di copertina del disco alcune parole saltano all’occhio e ci sono utilissime come potenziali "hashtag" di tutto il discorso: libertà, creatività, comunicazione emozionale, energia, processo, relazione, spirito, vita.
Possono sembrare concetti piuttosto generici, certo passibili di qualsivoglia interpretazione e forse anche un po’ in bilico sul crinale sottile che separa la magia dalla naïveté (torneremo su questo punto), ma in relazione alla musica di questi dischi sono innanzitutto una dichiarazione di onestà, di un atteggiamento nei confronti del momento umano e creativo prima ancora che nei confronti degli elementi musicali specifici.
Elementi musicali che, non è difficile scorgerlo se l’ascoltatore ha anche solo una qualche familiarità con la storia del jazz, sono fortemente ancorati a una serie di esperienze e di figure iconiche (Don Cherry, Ornette Coleman, Archie Shepp, William Parker, Leroy Jenkins nello specifico strumentale di Parrini, solo per dirne alcuni) e non puntano a una rottura o una novità – sebbene la rigidità definitoria spinga spesso esperienze di questo tipo sotto ombrelli ormai lisi come quello dell’avanguardia.
Proseguendo nella scoperta di questi dischi, ritroviamo Parrini anche nel Dinamitri Jazz Folklore di Grechi Espinoza. Gruppo coeso e intensissimo, quello del contraltista riesce ormai da anni a coniugare originalità e capacità di coinvolgere (tanto che ogni volta che lo ascolto mi stupisco che i festival di mezza penisola non se lo litighino) e che al Festival di Sant’Anna Arresi del 2013 si era presentato con il poeta Amiri Baraka.
Live in Sant'Anna Arresi 2013 (Rudi Records) testimonia la forza di quel concerto, con un Baraka ancora vibrante nella sua declamazione (morirà pochi mesi dopo) e i musicisti del gruppo a costruire scintillanti scenari in cui ciascuno di loro rivendica la giusta appartenenza a quel "popolo del blues" di cui ha scritto Baraka/Leroy Jones in un suo celebre libro.
L’ultimo dei quattro dischi è No Time Left (Long Song Records) a nome Brooklyn Express. Sotto questa sigla ci sono due nomi ormai "storici" del jazz italiano come il sassofonista Daniele Cavallanti e il batterista Tiziano Tononi e tre altrettanto esperti maestri d’oltreoceano come Herb Robertson alla cornetta, Steve Swell al trombone e Joe Fonda al contrabbasso.
Dopo la Chicago di Silvia Bolognesi, ecco la New York di Tononi/Cavallanti, musicisti che hanno generazionalmente vissuto le tensioni creative della stagione dei loft (il batterista Andrew Cyrille è per Tononi una specie di nume tutelare) e che hanno con il progetto Nexus traghettato quelle esperienze fino al giorno d’oggi. Anche questo lavoro è innervato da quello spirito, con espliciti omaggi a Bill Dixon, a Jim Pepper, a Gil Evans e all’immancabile Ornette e un’intensità che emerge palpabile dalla materia musicale.
Se l’ombrello dell’avanguardia è inesorabilmente liso e sgocciolante nella sua perduta funzione definitoria – riprendo il discorso da dove lo avevamo interrotto – non c’è dubbio che questi quattro lavori, che sono degli ottimi dischi, raccontino, ognuno alla sua maniera, la volontà di questi musicisti di aderire al jazz come si aderisce a una pratica quotidiana di condivisione emotiva, di ethos, di circolazione di valori.
Da più parti è stato fatto notare, non senza una certa ragione, che rifarsi apertamente a Ornette Coleman o a Archie Shepp non è molto differente dallo sterile mimicking di molti neo-boppers. Io in questo leggo più una difficoltà del jazz in genere di innestare il dialogo con la tradizione (essenziale nel pensiero africano americano che sta alla base del linguaggio) dentro formule in grado di essere significative per nuove generazioni di ascoltatori che non una questione di valore dell’artista.
Di certo, specialmente in quel rito in cerca di nuova linfa che è il “concerto” jazz, l’immediatezza e l’apertura energetica che musicisti come la Bolognesi, Parrini, Grechi Espinoza, Tononi/Cavallanti (tutti artisti che non a caso spesso incrociano anche le loro esperienze) portano con sé è una ricchezza che troppo spesso non trova, nelle ansie da Top Jazz e nella rincorsa del trend che strappa forse una mezza colonnina sul giornale locale, il giusto riconoscimento.
Perché negli anni del jazz globalizzato, della traduzione/tradimento tutta europea o comunque "occidentale" delle istanze della musica africano americana, che escano dischi pieni di sincerità come questi è qualcosa che definisce i contorni di un’importanza che probabilmente nessun cartellone di festival né classifica di fine anno sapranno rappresentare.
Ve li consiglio.