È uno dei sassofonisti e compositori più attivi sulla scena del jazz creativo (in particolare quello che connette Chicago alla Scandinavia e non solo) da ormai una ventina di anni.
Musicista a suo modo di culto, ma portatore di un atteggiamento così collaborativo e focalizzato alla condivisione della musica che lo ha preservato da diventare “il nome” di una stagione (in particolare quella dei primi anni 2000) e poi venire dimenticato. È Ken Vandermark, instancabile costruttore di ponti, tra la grande tradizione nera e la ricerca di oggi, tra America e Europa, tra improvvisazione e composizione contemporanea. Arriva in Italia per due date del suo intenso tour con il quartetto Made To Break (completato da Christof Kurzmann all’elettronica, Jasper Stadhouders al basso e Tim Daisy alla batteria), una per il Centro d’Arte di Padova – venerdì 14 ottobre al Cinema Torresino – e una per il festival Jazz & Wine Of Peace di Cormons, sabato 29 ottobre alle 11 del mattino al Kulturni Dom di Nova Gorica (geograficamente in Slovenia, ma il festival è italiano) e ci è sembrata l’occasione giusta per intervistarlo. Partiamo proprio dal progetto Made To Break, che mi pare stia diventando sempre più importante e centrale nel tuo affollato incrociarsi di collaborazioni. Come lavorate in questa band e quali possibilità emergono dall’uso dell’elettronica? «È così: Made To Break è stato e continua a essere un gruppo essenziale per il mio sviluppo creativo. Ha un ruolo centrale perché mi consente di organizzare nuovi modelli di piattaforma compositiva che trovano nell’improvvisazione una risposta spontanea.
Christof Kurzmann è uno dei musicisti più stimolanti e creativi che lavorano con il computer e la sua ingegnosa versatilità ha trasformato l’ambiente elettroacustico della band, spesso riprocessando i suoni acustici in tempo reale per creare nuove possibilità di call and response nell’improvvisazione collettiva». I titoli delle tue composizioni quasi sempre sono accompagnati da una dedica a una personalità dell’arte o della cultura. Oltre a sottolineare il tuo vasto campo di interessi, perché credi sia importante per l’ascoltatore conoscere l’ispirazione o la connessione con quelle figure? «Le connessioni e l’ispirazione non corrispondono direttamente all’estetica delle composizioni, sono riconoscimenti e un modo per ringraziare le persone che mi hanno influenzato e motivato.
So che imparare da cosa ispira musicisti, scrittori, registi che hanno avuto un impatto su di me è sempre stato di grande importanza per la mia stessa ricerca, così ho cercato di indicare queste individualità anche a chi segue la mia musica, nella speranza che venga voglia anche a loro di interessarsi a queste figure straordinariamente creative». Eri già stato ospite del Festival di Cormòns nel 2009, con il Resonance Ensemble. È un progetto ancora attivo? Mi incuriosisce perché volevo sapere da te che tipo di scintille creative (al di là dell’ovvia ricchezza dello scambio umano) ha portato la collaborazione con musicisti di diverse parti d’Europa». «Sfortunatamente non è più possibile supportare l’attività del Resonance Ensemble. Ma sto cercando di allestire un nuovo gruppo allargato e includerà sicuramente musicisti europei, con cui sento una forte affinità per la loro prospettiva creativa, la disciplina e la ricerca rigorosa di nuovi territori da esplorare.
Ho la consapevolezza che per contribuire a quello che accade nella musica di oggi, devo seguire il mio percorso. E per fare questo, ho bisogno delle persone giuste con cui collaborare, musicisti che condividano gli stessi obbiettivi e molti di loro risiedono in Europa». C’è poi il duo con Nate Wooley, che a me sembra interessantissimo… «Lo è… Nate Wooley ha costituito un fattore determinante per me nel tornare a ricercare le risorse musicali che abbiamo negli Stati Uniti.
Devo ripetermi forse, ma anche qui si tratta di disciplina, rigore e passione: Nate incarna tutte queste caratteristiche e ogni volta che lavoro con lui sono spinto a tornare a casa e esercitarmi di più, a progredire, andare oltre…». Nell’indimenticabile documentario Musician, uscito qualche anno fa, la tua vita in tour era realisticamente documentata in tutta la sua, a volte davvero difficoltosa, fatica e stress. Eppure sei sempre molto attivo in giro per il mondo: è cambiato qualcosa? «Non direi. Ogni anno devo reinventarmi in modo da potere portare avanti il mio processo creative, il che è essenziale. Non c’è nulla di costante, nulla di stabile, molte cose su cui mi sono speso nel 2015 non funzionano nel 2016 e al tempo stesso devo organizzare concerti e dischi che avverranno nel 2017… Il “lavoro” del titolo del documentario resta la logistica e il viaggiare e il pianificare, mentre la gioia sta nel suonare, nella musica». La tua discografia è davvero vasta, ma se dovessi scegliere per i nostri lettori un tuo disco che ritieni sottovalutato o che andrebbe riscoperto, quale sceglieresti? «Ahahah, sono tutti sottovalutati! È una domanda ostica, non so bene come affrontarla, dal momento che tutti i dischi che ho fatto li ho fatti per una ragione precisa. Ma se mi costringi a scegliere direi il disco che ho fatto con Joe McPhee e in cui le sue composizioni sono suonate dal Topology Nonet, Impressions of Po Music. Per ragioni personali questo disco è molto importante – il disco Tenor di Joe mi ha cambiato la vita – e suonare con lui regolarmente, prima nel Peter Brötzmann Chicago Tentet, poi con altri progetti, è stata un’esperienza straordinaria. Arrangiare la sua musica per un ensemble e averlo come ospite poi… beh cosa potevo chiedere di meglio?». Chi era presente all’ultimo Festival di Sant’Anna Arresi ha raccontato che il Summit Quartet in cui hai suonato con Mats Gustafsson, Hamid Drake e Luc Ex è stato fantastico... Speranze che il gruppo continui? «È stato così: suonare con quell gruppo è stato magico, speciale e come tutte le cose speciali si spera che possano continuare, staremo a vedere». Una domanda classica, ma che per un musicista iperattivo come te trova sempre risposte dense di indicazioni: I tuoi prossimi progetti? «In questo viaggio europeo, oltre ai concerti con Made To Break suonerò in duo con Terrie Hessels dei The Ex e in solo, per esplorare nuove strategie in quel formato. Nei prossimi mesi si intensificheranno il lavoro in duo con Wooley di cui abbiamo parlato e le collaborazioni con Tim Barnes, Shelter, DEK (con Elisabeth Harnik e Didi Kern), Lean Left e Paal Nilssen-Love. Non mancheranno poi i dischi, per la mia etichetta Audiographic Records e per alter fantastiche etichetta come la Not Two (DKV Trio/The Thing) e la Trost (DEK, Lean Left, Made To Break)».
Musicista a suo modo di culto, ma portatore di un atteggiamento così collaborativo e focalizzato alla condivisione della musica che lo ha preservato da diventare “il nome” di una stagione (in particolare quella dei primi anni 2000) e poi venire dimenticato. È Ken Vandermark, instancabile costruttore di ponti, tra la grande tradizione nera e la ricerca di oggi, tra America e Europa, tra improvvisazione e composizione contemporanea. Arriva in Italia per due date del suo intenso tour con il quartetto Made To Break (completato da Christof Kurzmann all’elettronica, Jasper Stadhouders al basso e Tim Daisy alla batteria), una per il Centro d’Arte di Padova – venerdì 14 ottobre al Cinema Torresino – e una per il festival Jazz & Wine Of Peace di Cormons, sabato 29 ottobre alle 11 del mattino al Kulturni Dom di Nova Gorica (geograficamente in Slovenia, ma il festival è italiano) e ci è sembrata l’occasione giusta per intervistarlo. Partiamo proprio dal progetto Made To Break, che mi pare stia diventando sempre più importante e centrale nel tuo affollato incrociarsi di collaborazioni. Come lavorate in questa band e quali possibilità emergono dall’uso dell’elettronica? «È così: Made To Break è stato e continua a essere un gruppo essenziale per il mio sviluppo creativo. Ha un ruolo centrale perché mi consente di organizzare nuovi modelli di piattaforma compositiva che trovano nell’improvvisazione una risposta spontanea.
Christof Kurzmann è uno dei musicisti più stimolanti e creativi che lavorano con il computer e la sua ingegnosa versatilità ha trasformato l’ambiente elettroacustico della band, spesso riprocessando i suoni acustici in tempo reale per creare nuove possibilità di call and response nell’improvvisazione collettiva». I titoli delle tue composizioni quasi sempre sono accompagnati da una dedica a una personalità dell’arte o della cultura. Oltre a sottolineare il tuo vasto campo di interessi, perché credi sia importante per l’ascoltatore conoscere l’ispirazione o la connessione con quelle figure? «Le connessioni e l’ispirazione non corrispondono direttamente all’estetica delle composizioni, sono riconoscimenti e un modo per ringraziare le persone che mi hanno influenzato e motivato.
So che imparare da cosa ispira musicisti, scrittori, registi che hanno avuto un impatto su di me è sempre stato di grande importanza per la mia stessa ricerca, così ho cercato di indicare queste individualità anche a chi segue la mia musica, nella speranza che venga voglia anche a loro di interessarsi a queste figure straordinariamente creative». Eri già stato ospite del Festival di Cormòns nel 2009, con il Resonance Ensemble. È un progetto ancora attivo? Mi incuriosisce perché volevo sapere da te che tipo di scintille creative (al di là dell’ovvia ricchezza dello scambio umano) ha portato la collaborazione con musicisti di diverse parti d’Europa». «Sfortunatamente non è più possibile supportare l’attività del Resonance Ensemble. Ma sto cercando di allestire un nuovo gruppo allargato e includerà sicuramente musicisti europei, con cui sento una forte affinità per la loro prospettiva creativa, la disciplina e la ricerca rigorosa di nuovi territori da esplorare.
Ho la consapevolezza che per contribuire a quello che accade nella musica di oggi, devo seguire il mio percorso. E per fare questo, ho bisogno delle persone giuste con cui collaborare, musicisti che condividano gli stessi obbiettivi e molti di loro risiedono in Europa». C’è poi il duo con Nate Wooley, che a me sembra interessantissimo… «Lo è… Nate Wooley ha costituito un fattore determinante per me nel tornare a ricercare le risorse musicali che abbiamo negli Stati Uniti.
Devo ripetermi forse, ma anche qui si tratta di disciplina, rigore e passione: Nate incarna tutte queste caratteristiche e ogni volta che lavoro con lui sono spinto a tornare a casa e esercitarmi di più, a progredire, andare oltre…». Nell’indimenticabile documentario Musician, uscito qualche anno fa, la tua vita in tour era realisticamente documentata in tutta la sua, a volte davvero difficoltosa, fatica e stress. Eppure sei sempre molto attivo in giro per il mondo: è cambiato qualcosa? «Non direi. Ogni anno devo reinventarmi in modo da potere portare avanti il mio processo creative, il che è essenziale. Non c’è nulla di costante, nulla di stabile, molte cose su cui mi sono speso nel 2015 non funzionano nel 2016 e al tempo stesso devo organizzare concerti e dischi che avverranno nel 2017… Il “lavoro” del titolo del documentario resta la logistica e il viaggiare e il pianificare, mentre la gioia sta nel suonare, nella musica». La tua discografia è davvero vasta, ma se dovessi scegliere per i nostri lettori un tuo disco che ritieni sottovalutato o che andrebbe riscoperto, quale sceglieresti? «Ahahah, sono tutti sottovalutati! È una domanda ostica, non so bene come affrontarla, dal momento che tutti i dischi che ho fatto li ho fatti per una ragione precisa. Ma se mi costringi a scegliere direi il disco che ho fatto con Joe McPhee e in cui le sue composizioni sono suonate dal Topology Nonet, Impressions of Po Music. Per ragioni personali questo disco è molto importante – il disco Tenor di Joe mi ha cambiato la vita – e suonare con lui regolarmente, prima nel Peter Brötzmann Chicago Tentet, poi con altri progetti, è stata un’esperienza straordinaria. Arrangiare la sua musica per un ensemble e averlo come ospite poi… beh cosa potevo chiedere di meglio?». Chi era presente all’ultimo Festival di Sant’Anna Arresi ha raccontato che il Summit Quartet in cui hai suonato con Mats Gustafsson, Hamid Drake e Luc Ex è stato fantastico... Speranze che il gruppo continui? «È stato così: suonare con quell gruppo è stato magico, speciale e come tutte le cose speciali si spera che possano continuare, staremo a vedere». Una domanda classica, ma che per un musicista iperattivo come te trova sempre risposte dense di indicazioni: I tuoi prossimi progetti? «In questo viaggio europeo, oltre ai concerti con Made To Break suonerò in duo con Terrie Hessels dei The Ex e in solo, per esplorare nuove strategie in quel formato. Nei prossimi mesi si intensificheranno il lavoro in duo con Wooley di cui abbiamo parlato e le collaborazioni con Tim Barnes, Shelter, DEK (con Elisabeth Harnik e Didi Kern), Lean Left e Paal Nilssen-Love. Non mancheranno poi i dischi, per la mia etichetta Audiographic Records e per alter fantastiche etichetta come la Not Two (DKV Trio/The Thing) e la Trost (DEK, Lean Left, Made To Break)».