La decima edizione del Festival Aperto, presentata qualche mese fa, prenderà il via sabato 15 settembre con un concerto di Enrico Rava e Stefano Bollani, per poi dispiegare il proprio cartellone fino al mese di dicembre disegnando tracciati stilistico-espressivi variegati, abitati da proposte come, tra le tante, quella di Gidon Kremer che affianca il violino “caminante” di Luigi Nono e i Preludi del compositore ebreo-russo Mojsej Vajnberg (22 settembre), come l’omaggio a Frank Zappa a 25 anni dalla scomparsa con l’Ensemble “Giorgio Bernasconi” dell’Accademia Teatro alla Scala impegnato in The Yellow Shark (12 ottobre), come la fusione tra musica e danza ispirata al Requiem di Mozart nata dalla collaborazione di Fabrizio Cassol, Alain Platel e les ballets C de la B (Requiem pour L., 13 e 14 ottobre) o ancora come il progetto del regista belga Ivo van Hove dedicato al ciclo di canzoni Diary of One Who Disappeared di Leoš Janáček (8 dicembre).
Un programma ampio e diversificato, insomma, per il illustrare il quale abbiamo rivolto qualche domanda a Paolo Cantù, direttore della Fondazione I Teatri di Reggio Emilia.
Tu ricopri il ruolo di Direttore generale della Fondazione I Teatri di Reggio Emilia dal gennaio del 2018: a distanza di qualche mese qual è la tua percezione dell’identità, delle potenzialità e del futuro di questa realtà culturale?
«La fondazione I Teatri rappresenta senza dubbio un’eccellenza e ancor prima un’unicità straordinaria nel panorama nazionale: un sistema di tre teatri, diversi per dimensione e programmazione, affacciati sulla stessa piazza e una istituzione culturale che frequenta tutti i linguaggi e le discipline dello spettacolo: dall’opera alla concertistica, al teatro e alla danza, al circo contemporaneo; oltre agli incontri, alla formazione per piccoli e grandi, alle mostre e alle visite guidate. Questa unicità si riverbera anche nel rapporto con Reggio Emilia. Non è un caso che il Teatro Valli abbia aperto le sue porte nel 1857 come Teatro Comunitativo: è un bene comune ma soprattutto un luogo identitario della comunità, specchio in cui riflettersi, da preservare,valorizzare e far crescere collettivamente».
«Un progetto intrinsecamente unitario nella sua eterogeneità, che intende tradizione e innovazione come angolature diverse di un unico prisma».
«Da questa storia e da una città che continua – in totale controtempo – a credere ed investire in cultura, considerandola parte del welfare primario di una comunità, siamo partiti per definire un possibile percorso presente e futuro: rivendicare un progetto intrinsecamente unitario nella sua eterogeneità, che intende tradizione e innovazione come angolature diverse di un unico prisma, aprendosi sempre più al dialogo e al confronto con ciò che accade fuori, ribadendo la centralità del proprio ruolo e funzione in relazione a un sistema articolato e integrato, per raccontare insieme una città e un territorio».
Il Festival Aperto ormai da anni rappresenta un appuntamento costante dell'autunno di Reggio Emilia ma non solo: in questa decima edizione quali sono gli elementi che rappresentano maggiormente la visione della tua direzione artistica?
«Il festival è in qualche modo il nostro sguardo sul contemporaneo, che innesca e dialoga con tutte le altre stagioni e attività, ancora una volta uno dei tanti mondi che frequentiamo. È un festival che si caratterizza sempre più verso la contaminazione e l’interdisciplinarietà, muovendosi senza soluzione di continuità fra musica, teatro, danza, circo – arti performative?. Segni distintivi sono senza dubbio la permeabilità fra i generi e lo sconfinamento programmatico fra le discipline che caratterizzano la creazione contemporanea più avanzata, che si riflette nella ricerca di molti straordinari artisti presenti in questa edizione. Un festival per il quale siamo partiti indagando il concetto di rivoluzione, di cambiamento e trasformazione, che cambia tutto – o forse ci riporta al punto di partenza? Abbiamo incontrato le canzoni, sintesi perfetta del rapporto singolo-collettivo, per arrivare al titolo scelto di “passaggi”. Passaggi di stato, della materia, storici, passaggi fra generi e linguaggi che spingono più in là il confine della riflessione artistica e che un festival come Aperto penso abbia il compito di mostrare».
“Passaggi” è appunto il titolo scelto per questa edizione: quindi passaggi da un genere musicale all’altro, tra forme e linguaggi espressivi differenti, ma possiamo anche immaginare (o sperare) in passaggi e scambi anche tra “pubblici” diversi, cioè con interessi, formazione, esperienze, età differenti?
«È uno degli aspetti che mi interessano maggiormente: penso che provare a intercettare e conquistare pubblici differenti sia la grande sfida che ci aspetta nel prossimo futuro come programmatori e abbiamo cominciato a farlo e a comunicarlo in questa edizione, a partire da una sezione Aperto Kids dedicata agli spettacoli tout public, da 0 a 99 anni, e dall’Abbonamento XL che è un invito per gli abbonati tradizionali a fidarsi di noi e a frequentare territori inesplorati».
«Ma in questa ricerca proseguiremo. Penso sia fondamentale soprattutto recuperare un rapporto con le nuove generazioni che ci stanno intorno e non considerano il nostro mondo attraente, parlare il loro linguaggio parlando di qualcosa che li interessa: questo non significa cedere alcunché in termini di qualità. Serve piuttosto un’altra lente, altri occhi, che ci permettano di incrociare i loro».