Per un quarto di secolo anni la danza contemporanea a Francoforte ha avuto un nome, quello di William Forsythe. Fondatore e direttore del Ballet Frankfurt dal 1984 alla sua fine ufficiale nel 2004 e in seguito anima della Forsythe Company, il coreografo americano ha annunciato l'intenzione di abbandonare l'attività artistica un paio di estati fa. Il suo testimone è stato raccolto da uno dei ballerini di punta del Ballet Frankfurt, Jacopo Godani, coreografo da sempre, che dalla fine degli anni novanta crea per compagnie di danza come Les Ballets de Monte Carlo, di cui è stato coreografo associato, il Royal Ballet Covent Garden, il Bayerisches Staatsballett, la Compañía Nacional de Danza di Madrid, il Nederlands Dans Theater, il Royal Danish Ballet, la Sydney Dance Company e molte altre, e in Italia il corpo di ballo del Teatro alla Scala e l'Aterballetto. Nativo di La Spezia, Jacopo Godani è stato allievo dell'École Mudra, il centro di formazione per giovani danzatori creato a Bruxelles da Maurice Béjart negli anni '70, che gli apre le porte del mondo della danza internazionale. Da questa stagione Godani è direttore artistico della nuova Dresden Frankfurt Dance Company (Dance) che, come la disciolta Forsythe Company, si dividerà fra i due poli di Dresda e Francoforte sul Meno. Il primo titolo in programma, "The Primate Trilogy" resterà in cartellone al Bockenheimer Depot di Francoforte dal 1 all'11 ottobre prima di trasferirsi all'Hellerau di Dresda il 22 ottobre. Abbiamo incontrato Godani durante una prova della nuova compagnia, 14 danzatori scelti dal coreografo e già al lavoro dallo scorso luglio.
Parlare di danza contemporanea a Francoforte significa inevitabilmente parlare di William Forsythe ... La sua ombra si proietta anche su questa compagnia?
«Non mi sento di aver ereditato un impero o qualcosa del genere da lui. La compagnia è andata avanti come struttura a prescindere da come è stato lui o da quello che ha fatto lui negli ultimi anni. La compagnia è una struttura che vive di fondi pubblici e contributi privati allo stesso tempo e che rappresenta la cultura della danza in questo paese. Io ho "ereditato" questa struttura perché Forsythe a un certo punto ha deciso di uscirne».
Non c'è dubbio, ma come vivi il confronto con un gigante della danza come Forsythe?
«Non mi sento un prolungamento dell'esperienza di Forsythe. Forsythe ha indicato me ben cosciente che il mio profilo artistico è completamente diverso dal suo, che faccio un lavoro completamente diverso da quello che lui ha fatto negli ultimi dieci anni. E scegliendo me come direttore artistico è chiaro che i responsabilli della politica culturale hanno scelto volutamente un percorso diverso per la compagnia».
Vuoi provare a dare una definizione di te stesso?
«Io mi considero molto chiaro in quello che faccio. Mi definirei un "artigiano esperto", cosciente di poter offrire un prodotto di buona qualità e di elevato livello artistico. Non sta a me decidere quale sarà il giudizio critico o la risposta della gente. Ci saranno di sicuro critiche, ma se me ne preoccupassi troppo, sarebbe come se chiudessi la porta in faccia a me stesso».
Per una decina d'anni, nel corso degli anni '90, tu sei stato una delle presenze di punta nel Ballet Frankfurt? È rimasta qualche traccia di quella esperienza nel Godani coreografo?
«L'esperienza con il Ballet Frankfurt è stata per me un training meraviglioso che mi ha aperto molte porte. Un'esperienza assolutamente essenziale e vitale e fondamentale per la mia formazione. Mi sento però di aver dato un contributo importante alla costruzione dello stile del Ballet Frankfurt in quel decennio. Non rivelo certo un segreto se dico che Forsythe in quegli anni ha sempre lavorato con il materiale coreografico dei suoi ballerini, così come hanno fatto Pina Bausch con i suoi ballerini e molti altri coreografi. Il mio contributo alle coreografie c'è stato in come Quintett, "il" pezzo degli anni '90, in ALIE/N A(C)TION, in Sleepers Guts, in Eidos:Telos ... Forsythe faceva un lavoro di "mise en scène" importante, codificava, si occupava direttamente di tutto il tipo di lavoro di composizione che facevamo, guidava le improvvisazioni, eccetera. Ha inventato molte cose ed è stato un visionario meraviglioso. Sono già 15 anni che porto avanti da solo il mio lavoro di coreografo».
Quindi prima di Godani c'è solo Godani ...
«No, è chiaro se devo darti un riferimento è chiaramente William Forsythe. Io ho cominciato a lavorare con lui che avevo vent'anni con alle spalle un background professionale pressoché inesistente: un anno a Parigi come free lance con una compagnia di danza contemporanea e poi un anno a Bruxelles con la mia compagnia».
Prova a darti una definizione come coreografo: in che tradizione ti collocheresti? «Non amo le classificazioni ma direi che io cerco di fare del balletto contemporaneo. Mi interessa meno un tipo di danza in cui il ballerino sta seduto e fa dei gesti minimi. Io penso che la danza sia tale se c'è movimento ma non solamente movimento allo stato puro (è danza, altrimenti lo avremmo chiamato movimento!) Ora come ora mi interessa esplorare la danza nel senso tradizionale, una danza che balla, che è atletica e credo sia importante non mollare su questo. A me piace vedere la bravura».
Ci sono stati dei riferimenti particolarmente importanti nella danza contemporanea durante gli anni della tua formazione?
«Nei primi anni '80 guardavo Kylián come oro colato. Pina Bausch mi piaciucchiava, anche se non era il mio stile preferito. Mi piaceva Carolyn Carson, che si vedeva molto in Italia. Ho sicuramente avuto la grande fortuna di avere una maestra di danza, Loredana Rovagna, che nei miei due anni di studio con lei la domenica mi faceva vedere i video della sua collezione. Ed era una collezione ricca. Era interessante per me poter vedere esperienze molto diverse. Nonostante io mi sia avvicinato alla danza relativamente tardi (avevo 16 anni), quando sono arrivato a Mudra ne sapevo più io di danza contemporanea che la maggior parte dei miei colleghi che studiavano danza dall'età di 8 o 10 anni. In effetti, molti di quei ballerini che avevano doti fisiche forti e una tecnica strepitosa, degli arabesque meravigliosi, delle linee impressionanti si sono persi per strada».
Come ti sei lanciato nella danza?
«Nel contesto di ciò che poteva offrire l'intorno di una cittadina come La Spezia nei primi anni ottanta, non sopportavo niente! (ride) Quando ho trovato la danza è stato come mettere la goccia di nitroglicerina nel componente chimico adatto e succede l'esplosione! Mi piaceva molto la creatività, mi piaceva "fare". In un certo senso io non mi sono mai identificato con il mondo che mi stava attorno. Non capivo perché dovevo stare chiuso in una stanza durante la mia giovinezza. Io come "bestia" pura, allo stato brado, non capivo questa cosa. Grazie alla danza sono maturato, ho cominciato a capire me stesso, a conoscere me stesso, a liberarmi e utilizzare al massimo il mio potenziale».
Quanto è stato importante il tuo percorso formativo?
«Per la danza lo è stato, ma lo sono state anche tutte le altre esperienze che ho fatto. Luci, costumi, scenografie, tutto quello che mi piace ho imparato a farlo in maniera professionale senza aver fatto una formazione o una scuola specifica. Ci sono arrivato perché mi sono interessato io, perché ho imparato da autodidatta. Alla fine chi fa dei veri passi avanti è chi decide di imparare da solo e fare il proprio cammino da solo, magari liberandosi da certi condizionamenti che la società, la famiglia o la scuola ti impongono».
Come si riesce ad "arrivare" nel mondo della danza?
«È importante avere le idee chiare e non essere un sottoprodotto di genitori o insegnanti. E occorre essere decisi. Io di audizioni ne ho fatte moltissime e non mi ha preso nessuno. Ma io mi sono detto "non me ne frega niente; voglio ballare e ballerò!" anche se voleva dire andarsene a Parigi e ballare in una compagnia di danza contemporanea, come ho fatto. È quello che mi ha permesso di crescere e di entrare nella compagnia di Forsythe».
A questo punto sei tu che fai i provini: come li scegli i tuoi ballerini? Cosa ti colpisce in un giovane danzatore?
«Tendo a scegliere danzatori che prediligono l'intelligenza al corpo. Perché è soprattutto l'intelligenza che porta il corpo a fare miracoli. Questo è fondamentale se vuoi creare una compagnia che faccia un certo tipo di ricerca che si sviluppi nel tempo. È importante avere dei danzatori che siano duttili, aperti di mente, ricettivi, non troppo attaccati al loro passato, alla loro maniera di fare le cose. È importante che si lascino andare quando tu vuoi portarli verso un'altra direzione, che non siano vittime delle loro abitudini, dei loro automatismi».
E tutti i tuoi 14 danzatori della tua compagnia corrispondono a questo ideale?
«Abbiamo scelto un bel gruppo di persone, con background molto diversi: c'è chi proviene da una formazione molto classica, chi da piccole compagnie di danza contemporanea ... Sono tutte persone di talento».
Con loro stai costruendo The Primate Trilogy: che significa questo titolo? C'entrano le scimmie?
«No, si parla di esseri umani. Mi interessa il primate uomo. Per iniziare qualcosa di così importante avevo bisogno di una materia prima così essenziale come l'essere umano, però spogliato di tutto il bagaglio sociale, culturale, educativo, morale ecc. Per questo ho pensato a una materia prima ancora più primaria dell'essere umano. Da cui il primate, ossia quello che siamo noi uomini come categoria animale».
Nella presentazione di questo lavoro hai scritto che "le coreografie, sviluppate metodicamente e analiticamente durante prove intensive, non lasciano spazio all'improvvisato o all'imprevisto". È il tuo metodo abituale?
«Direi di sì. Particolarmente per questo debutto ho utilizzato come materiale di base drammaturgica due pezzi che mi hanno molto rappresentato negli ultimi due anni. Ho ripreso la struttura delle scene che avevo concepito per un contesto diverso, ossia da coreografo free lance che ha cinque o sei settimane per sviluppare una coreografia con danzatori che non sono abituati a lavorare con te e che sei obbligato a scegliere da una compagnia (e magari non sono necessariamente quelli che avresti voluto). Volevo partire da qualcosa che rappresentasse dove io sono adesso però che mi aprisse più spazio per approfondire lo studio, per vedere cosa posso fare con i danzatori della mia compagnia. Ho fatto un lavoro analitico a tavolino "strutturale e matematico" interrogandomi sulle difficoltà, i punti di forza, cosa potesse essere sviluppato».
Quanto conta la musica nel costruire una tua coreografia?
«Non parto mai dalla musica per costruire una coreografia. Il risultato sarebbe banale. Il punto di partenza è una materia che non ha carattere però ha originalità strutturale. A quel punto devi dargli un carattere, magari plasmandola in una musica. Cioè strutturo in maniera completamente astratta, basandomi su quella che è la ricchezza formale e architetturale delle composizioni, la dinamica, la "musicalità" il più varia possibile, più ricca possibile, più sofisticata e complessa possibile. Poi quando mi trovo con un prodotto che è indecodificabile per complessità inizio a mallearlo sulla musica. In questo senso la musica è il momento finale per trovare una sintesi fra movimento e suono che abbia un senso più compiuto».
Parlando di musica, da parecchi anni Ulrich Müller e Siegfried Rössert di 48nord firmano la musica dei tuoi spettacoli. Come è nata questa collaborazione?
«Innanzitutto con Ulrich e Siegfried ci capiamo in maniera profonda. Entrambi hanno quel giusto spessore di conoscenza della musica classica e quindi un certo dominio della tecnica musicale ma con una visione molto contemporanea. Da questo punto di vista siamo simili nei nostri rispettivi campi. Mi piace la loro musica molto "avanguardista", molto di ricerca. Come gruppo 48nord si focalizzano sulla ricerca acustica e l'improvvisazione con altri artisti da tutto il mondo che lavorano in campi diversi. Non fanno musica melodica, tradizionale, ma neanche jazz o free jazz ma organizzano sessioni di improvvisazione acustica».
Come funziona la vostra collaborazione?
«È un vero "Zusammenarbeit", un lavorare insieme. In genere partiamo da un'idea, da un'intuizione per una certa scena, cerchiamo di costruire una certa atmosfera. Cominciamo magari lavorando a un tema che poi spingiamo a ipervelocità. In questo modo facciamo degli esperimenti, aggiustiamo dove la musica non funziona o un tale strumento non va e così via. È un lavoro "step by step": confonto, riflessione, avanzamento».
Quando inizi il lavoro con i danzatori la musica è fatta, quindi. «A questo punto del lavoro lo è. All'inizio delle prove, però, c'è stata molta interazione. Sulla velocità c'è da subito un gran lavoro per raggiungerla o finisci per accettare subito dei compromessi che alla lunga non funzionano. Comunque, se serve, la adattiamo ancora adesso».
Di lavorare con musiche del passato non ci pensi proprio? Bach per dirne uno ...
«Bach come gli altri sono stati dei geni, però a me non interessa. Non lo condivido l'atteggiamento di chi dice "ci sono state quelle quattro cose e il nostro universo finisce lì". Secondo me c'è ancora molto da esplorare, altrimenti io non sarei qua! Ma magari un giorno troverò il pezzo che mi fa cambiare idea, chissà...».
Parliamo del futuro: in questa stagione presenterete una seconda creazione a Dresda in febbraio ...
«Sì e ci sto già lavorando. Anche questa sarà basata su un pezzo che mi ha rappresentato parecchio e che non ho mai avuto il tempo finora di sviluppare pienamente. Per come vedo il lavoro con questa compagnia, il mio futuro però è quello di costruire un terreno solido su cui costruire uno sviluppo nei prossimi anni. La compagnia vive grazie al contributo di due stati, Sassonia e Assia, e due città che sono molto diverse e molto lontane, Dresda e Francoforte».
Più che ogni altra forma d'arte, la danza gira. Avete già inviti in Germania o all'estero?
«Sì, per ora andremo al Festival Internaciónal Madrid en Danza in novembre e al Festival di Danza di Belgrado nel prossimo aprile. Abbiamo anche numerosi altri contatti per altre date all'estero. Alcuni vogliono aspettare la prima per concludere».
Una definizione della tua compagnia.
«Siamo un'entità di ricerca artistica e tale dobbiamo rimanere, nonostante la ricerca si sia imposta di rimanere fedele a quello che è il termine tradizionale di danza, cioè una danza che danza, non una danza che per esplorare sfocia in una qualsiasi altra forma di arte».