Franco Nanni, minimalismo all'italiana

Intervista a Franco Nanni in occasione del suo ritorno dal vivo e della ristampa del disco di culto Elicoide, del 1987

Elicoide dal vivo nel 1987
Elicoide dal vivo nel 1987
Articolo
classica

Elicoide, pubblicato nel 1987 dalla Moon Record, è uno degli esempi più illuminati di minimalismo italiano. L’album, ideato, composto e suonato da Franco Nanni è uno degli holy grail del collezionismo musicale. Erano poche le informazioni a riguardo, scambiate su oscuri blog musicali giapponesi e americani, un alone di mistero poi colmato dalla ristampa (che chi scrive ha avuto l’onore di realizzare con Affordable Inner Space, pubblicando un’edizione completata da un secondo vinile di inediti dell’epoca).

Dopo anni di silenzio rotti solo raramente da esibizioni dal vivo, Franco Nanni sarà dal vivo al festival Saturnalia, al Macao di Milano, il prossimo 23 giugno insieme a Paolo Grandi. 

Copertina Elicoide
La ristampa di Elicoide

Insieme a Franco abbiamo ripercorso quegli anni ed i momenti che hanno preceduto e seguito la gestazione del suo gioiello musicale.

Ciao Franco, vorrei partire ricordando quel periodo, sul finire degli anni Ottanta, durante il quale è nato il tuo progetto Elicoide. Dove ti trovavi, cosa studiavi e qual era l’atmosfera che si respirava intorno a te?

«Al tempo vivevo a Bologna, avevo terminato gli studi e collaboravo con un docente del DAMS coltivando interessi e progetti comuni. Per vivere impartivo lezioni di pianoforte».

Chi erano i tuoi compagni? Quali i punti d’incontro e condivisione delle vostre passioni?

«Come musicista al tempo operavo a livello individuale, anche se coltivavo amicizie musicali con persone molto diverse, ad esempio Manuel Rojas, oboista, oggi valente solista nel suo paese, il Costa Rica, Leonardo Croatto, chitarrista, autore, oggi figura di alto rilievo in Uruguay, Marcela Perez Silva, cantante, oggi nel suo Perù con mille attività, e naturalmente lo stesso Paolo Grandi, con il quale i contatti non si sono mai persi». 

Oltre alla musica, immagino, vi confrontavate anche su temi sociali e politici, ed è proprio questo che mi interessa sapere. C’era, insito nelle vostre azioni, anche un approccio politico e propagandistico o riuscivate a tenere l’arte in un limbo estraneo al mondo che vi circondava?

«Propaganda certo no… Ma era inevitabile interessarsi al mondo e prendervi parte. Non dimentichiamo che mentre ultimavo la stesura elettronica del primo brano, "Mitochondria", la centrale di Chernobyl esplodeva... Il richiamo all’ambiente era in quel momento una sorta di emergenza».

Facciamo qualche passo indietro. Sul finire degli anni Settanta sei stato allievo di Gianfelice Fugazza, grande polistrumentista scomparso nel 2007, che proprio durante gli anni Settanta e Ottanta si dedicò alla musica elettronica istituendo poi un corso dedicato all’interno del Conservatorio di Bologna. Cosa puoi raccontarci di quell’esperienza e quali gli insegnamenti più importanti che hai potuto trarne?

«Essere un allievo del corso di Fugazza fu… l’origine di tutto! O almeno, l’origine creativa e produttiva. Come ci arrivai? Dapprima, ragazzino, lasciandomi affascinare da brani come "PopCorn" [Gershon Kingsley, 1969, N.d.R] e "Il gabbiano infelice" (Il Guardiano del Faro, 1972, N.d.R). Poi da un disco fondamentale, regalatomi da mio padre, Switched on Bach di Walter Carlos, di cui ricorre ora il cinquantenario. Essere lì in conservatorio, a imparare l’elettronica proprio su un Moog modulare come quello che appariva nella copertina del disco era… semplicemente elettrizzante. Metteva voglia di imparare tutto». 

«Fugazza era una persona estremamente concreta e dotata di un’intelligenza acuta e molto particolare, che si rivelava all’interno del lavoro quotidiano quasi senza apparire; c’era come una specie di modestia interiore, di rigore… Ho imparato tantissimo da lui, ma quasi senza accorgermene! Eppure ancora oggi mi tornano talvolta in mente sue frasi, sue osservazioni che hanno germinato nel tempo». 

Come sei arrivato alla musica contenuta in Elicoide? Da dove iniziano i tuoi ascolti e in che direzione si sono evoluti per concepire un album simile?

«C’è una ragione musicale e una extramusicale. La prima riguarda la folle passione che la scoperta della musica minimale di Steve Reich aveva suscitato in me già diversi anni prima. La seconda erano gli studi, terminati non molto tempo prima, con il sociologo e studioso Giuliano Piazzi, che aveva dedicato alla biologia e alla sociobiologia le sue migliori energie. Da qui i titoli dei brani».

Elicoide Cover
La copertina originale di Elicoide, 1987

Dove è stato registrato l’album? E quali strumentazioni hai utilizzato?

«In uno studio a Vicenza, col quale collaboravo a vari livelli. Era uno studio analogico molto attrezzato, con riverberi ed effetti “à la page”. Gli strumenti sono quelli riportati sul disco: Yamaha DX7 e relativi expander (una bella batteria con moltissime voci), SCI Prophet5, e per la programmazione un mitico Commodore64! Sembra poco, ma al tempo mi era possibile uscire live con tutti metallofoni di "Mitochondria", cosa che facemmo nel primo e unico live. Anche la registrazione in studio venne fatta in una sola passata per l’elettronica, sia pur distribuite su molte tracce, per differenziare i piani sonori e i riverberi».

Quale fu la reazione del pubblico, riusciste a vendere l’intero stock?

«"Mitochondria" è il brano che ha conquistato sempre l’interesse del pubblico, anche di quello non abituato al minimalismo. In seguito il brano "Elicoide" ha incontrato un certo favore anche in esecuzioni quasi completamente acustiche effettuate a Bologna tra il 1988 e il '90. Per quanto riguarda il disco come prodotto, le vendite non furono ingenti ma coprirono enormi distanze trovandomi a volte interpellato da giornalisti di riviste d’oltre oceano o dell’estremo oriente».

Guardandoti indietro pensi di esser riuscito nell’intento di tramutare in musica ciò che volevi dire con Elicoide?

«Ogni brano di quel disco conteneva un’aspirazione specifica diversa, a eccezione di "Mitosi" che ricalcava assolutamente le idee di "Mitochondria". Sono proprio questi due brani che hanno lasciato il loro segno nel tempo, mentre nel caso degli altri brani c’era già una ricerca dell’ensemble acustico che indeboliva un pò queste realizzazioni soltanto elettroniche».

Il disco fu presentato una sola volta dal vivo a Bologna nel 1987, puoi raccontarci come nacque quell’esperienza e come andò la serata?

«Quella serata fu in definitiva un grande contenitore all’interno di una cornice in qualche modo unica, i cosiddetti Giardini del Guasto vicino a Piazza Verdi a Bologna. Dico “contenitore” perché chiamai a raccolta tutti gli amici che ho già citato precedentemente, ciascuno a dare un suo contributo alla rassegna di brani che spaziava dall’acustico fino all’elettronico».

Nella ristampa del disco pubblicata nel 2017 da Affordable Inner Space sono presenti, su un secondo vinile, cinque brani inediti registrati durante lo stesso periodo di Elicoide. Tra questi spicca il brano "Poesia", qualcosa di estremamente diverso dalle linee principali dell’album, una musica che tu stesso descrissi così: “questo pezzo aprì la porta a spunti musicali che certamente custodivo dentro di me, ma che erano momentaneamente chiusi... e diede insieme voce agli stati d’animo malinconici di quel momento. Fu una rivoluzione: poche cose hanno influenzato il mio modo di fare e sentire la musica come questa”. Qual è la storia di questo brano e perché è stato così importante per te?

«Quella metà degli anni Ottanta per me rappresentò un periodo di grande malessere personale ma anche di espansione dei miei interessi, che si allargarono anche alla collaborazione con uno straordinario docente del DAMS, Mario Baroni, col quale pubblicammo un importante testo tra sociologia e pedagogia musicale che si intitolava Crescere con il rock. Ma fu quel malessere a guidarmi verso nuovi orizzonti musicali».

«C’è un ricordo che resta isolato nella mia memoria: una festa dell’Unità in una zona periferica di Bologna nella quale arrivai piuttosto tardi e abbacchiato per ascoltare almeno una parte dell’esibizione musicale di Leo e Marcela. Quando eseguirono “Poesia”, un brano di Daniel Escobar, rimasi semplicemente folgorato e feci di tutto per fare mio quel pezzo malinconico realizzando un arrangiamento con gli stessi identici suoni che avevo utilizzato in "Mitochondria". La registrazione che compare nel disco fu realizzata a ridosso della partenza di Leo e Marcela per i rispettivi paesi di origine».

Marcela Perez Silva canta Poesia
Marcela Perez Silva canta "Poesia"

Durante il 1990 hai avuto la fortuna di incontrare e interloquire con Arvo Pärt, cos’hai tratto da quell’incontro?

«Per una curiosa serie di coincidenze ho potuto chiacchierare in tedesco con lui a casa mia il 4 ottobre del 1990. Mi è rimasto il suo magnetismo e la testimonianza di quello che per lui era la musica… mi disse qualcosa che suonava più o meno così: “Immagina di essere al buio in un posto vuoto dove non si vede, non si sente niente e non puoi muoverti. A un tratto puoi emettere un suono, un primo suono che emerge dal nulla. Ecco, io con la mia musica cerco di cogliere quel momento”. Sentii che quell’immagine mi apparteneva già da tempo, ma che non ero riuscito a coglierla nel suo significato… E lui con quella semplice descrizione  era riuscito a condensarla».

Ed è proprio all’inizio degli anni Novanta che hai una rottura quasi totale con la musica, o quantomeno con l’idea che questa potesse tramutarsi in un lavoro. Fù difficile lasciar andare un sogno? E quel che in seguito hai abbracciato come professione è riuscito a colmare questo distacco?

«Fu difficilissimo, amaro, rabbioso, doloroso e forse non finirei mai di aggiungere aggettivi. Arrivai a considerare la musica come una specie di malattia. Ci misi anni per giungere a una chiusura che di fatto arrivò soltanto all’alba del 2000. Devo dire che il contributo principale non venne dai musicisti o dal pubblico, ma dalla serie di figure di discografici di varia natura ma accomunati da una levatura morale decisamente bassa quando non infima. Quello che mi salvò fu uno scatto d’orgoglio: non sarei stato carne da macello dei loro intrallazzi, delle loro ipocrisie né ostaggio delle loro firme apposte sui bollettini Siae in cambio di favori peraltro mai ottenuti. Ho ancora la nausea a pensare a quel sottobosco».

Hai comunque continuato a produrre e suonare, dando vita ad altri album come l’Angelo dei Numeri, Motu Proprio e Vita, e tutt’ora componi musiche che ami condividere in forma digitale. In che maniera si è evoluto il tuo modo di approcciare alla musica?

«I lavori che citi sono tutti precedenti il momento della rottura. Le mie ultime apparizioni dal vivo risalgono al biennio 1996-1997. Poi iniziò il silenzio non solo verso l’esterno ma anche corrispondente a una chiusura di ogni attività musicale, anche personale, che è durato circa dieci anni».

«I primi timidi ritorni a produzioni musicali sono databili tra il 2009 e 2010. L’approccio alla musica si è evoluto moltissimo e non saprei tradurre in parole se non in minima parte. Posso solo dire che si è in qualche modo salvato uno slancio vitale che la musica tracciava dentro di me, e la forte volontà di salvaguardare il piacere di fare musica separandolo dal dolore di fare musica. Per una serie di mie difficoltà un certo tipo di produzione musicale ha rappresentato una sorta di fatica anche fisica che a volte mi ha stancato profondamente. Oggi mi attengo assolutamente al principio di seguire la via del piacere lasciando da parte il dolore quando diventerebbe gratuito sforzo. La vita è molto breve e non possiamo dedicarla a sfidare sempre e dovunque i nostri limiti».

Dopo il live tenuto a Roma nel 2017, (il primo dopo 30 anni esatti da quello di Bologna del 1987) tornerai a esibirti in un festival importante come Saturnalia a Milano il prossimo 23 giugno, e lo farai insieme al tuo amico di sempre Paolo Grandi. Come strutturerete l’esibizione e cosa puoi dirci in merito?

«Questa circostanza di Milano è particolarmente fortunata: la proposta di esibirci è arrivata nel momento in cui Paolo e io stavamo cercando di mettere insieme un piccolo repertorio di cose da fare a due anche se inizialmente ci stavamo orientando su altre cose. Eravamo però già pronti a metterci all’opera e la prospettiva di rimettere in sesto le produzioni di Elicoide ci ha trovato entusiasti. Abbiamo creato un’esibizione di circa un’ora dove alterniamo alcune riproduzioni molto fedeli all’originale, sia pure arricchite di nuovi spunti live, con realizzazioni del tutto nuove e con maggiore spazio all’improvvisazione».

Vorrei concludere chiedendoti di elencare 4 brani che hanno rappresentato altrettanti punti di svolta della tua vita.

«Solo  4!?!? Non garantisco che mi bastino!… iniziamo.

A 12 anni: la Toccata e fuga in re minore di Bach;

A 15: Selling England by the Pound, Genesis, e In the Court of the crimson King dei King Crimson. Più tardi anche The Dark Side of the Moon dei Pink Floyd;

Phaedra dei Tangerine Dream;

Music for a Large Ensemble di Steve Reich (in seguito anche Music for 18 Musicians);

Tabula Rasa di Arvo Pärt;

"Oblivion" e altri brani di Astor Piazzolla;

La Scala, concerto solista di Keith Jarrett».

Franco Nanni
Franco Nanni

 

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