È da poco passato il ventennale della scomparsa di Franco Donatoni, che si spense a seguito di un ictus il 17 agosto 2000, a settantatré anni. L’intervista che segue, inedita e risalente al 16 febbraio 1971, è tanto anomala per le finalità che l’hanno motivata da necessitare di alcune informazioni preliminari sui suoi presupposti e i suoi contenuti. Essa infatti fu concepita a corredo della mia tesi di laurea in Architettura all’Università di Firenze, intitolata Recupero di Piazza Maggiore a Bologna come spazio per attività estetiche collettive. Non bisogna dimenticare che si respirava ancora in pieno il clima del Sessantotto con tutte le sue conseguenze; la mia tesi pertanto non voleva qualificarsi come un’elaborazione progettuale, bensì come una ricerca teorico-estetica, partendo da un articolo di Michael Kirby che mi aveva molto stimolato, apparso sul mensile Sipario nel settembre 1969 col titolo “Quale via per le avanguardie?”.
Su suggerimento del mio relatore, Prof. Domenico Cardini, supportai la trattazione, insolita per una facoltà di Architettura, con una sezione introduttiva, in cui raccoglievo otto interviste ad altrettanti esponenti della cultura italiana, in buona parte bolognesi, con l’intento di verificare la tesi sostenuta da Kirby. I personaggi interpellati, esperti di vari ambiti artistici, furono Paolo Bernagozzi, Renzo Tian, Renato Barilli, Vasco Bendini, Tito Gotti, Gianfranco Rimondi, Concetto Pozzati e – appunto – Franco Donatoni. Da segnalare che circa la metà di essi insegnava al neonato DAMS dell’Università di Bologna, dove appunto ebbi l’opportunità di contattarli. Forse anche per la mia giovanile inesperienza, nel trascrivere le interviste riportai il loro parlato con certosina fedeltà, rispettandone le inflessioni, le ripetizioni, le perplessità, le espressioni tipiche del linguaggio di ognuno di loro.
Donatoni mi ricevette alla fine di una sua lezione in un’aula vuota e disadorna, dopo che lo avevo già incontrato una settimana prima per anticipargli il tema e la mia proiezione teorica nello spazio di Piazza Maggiore. Rimanendo comprensibilmente “spiazzato” dalle argomentazioni di Kirby da me esposte succintamente, il compositore non poté fare a meno di ricondurre il dialogo all’interno della sua esperienza musicale. Le sue risposte evidenziano la sua ottica personale, inevitabilmente eurocentrica, per poi dirottare il discorso sui procedimenti compositivi di altri esponenti americani o europei, approdando infine a ipotizzare le caratteristiche fisiche degli spazi destinati ad accogliere musiche diverse. Fra l’altro, anche in quella occasione ebbe modo di ribadire il suo proverbiale cinismo nei confronti del pubblico.
In questo insospettato recupero dell’intervista dopo quasi cinquant’anni, ho in piccolissima misura riveduto il suo linguaggio, che risulta ricco di insistenze, di un eccitato accanimento nel sottolineare le differenze teorico-pratiche fra le diverse culture, ed anche di un’euforica esaltazione nel sostenere le proprie convinzioni.
Michael Kirby, in un articolo apparso su Sipario, sostiene che tutte le forme d’avanguardia si dovrebbero conglobare in un’unica esperienza artistica, che egli chiama “attività”, alla portata di tutti. Fino a che punto si può parlare veramente di un’unica espressione estetica collettiva, democratica, in grado di riunire tutte le discipline tradizionali? Oppure dovranno persistere i filoni tradizionali, che presuppongono tecniche diverse, circuiti separati e la comunicazione di un messaggio?«
Credo che la natura delle attività cambi secondo le modalità tecniche con le quali la materia deve essere pensata, agìta, o comunque messa a confronto con l’individuo, quindi non si può parlare di una “attività” unica. Nella musica almeno, l’idea di espressione, di discorso, o di comunicazione, o di messaggio, o di sintesi, o di linguaggio, insomma di qualche cosa mediante la quale si fa, è già completamente scomparsa».
«La musica non comunica niente, non ha un messaggio, non fa un discorso».
«Cioè la musica non comunica niente, non ha un messaggio, non fa un discorso… Quindi il rapporto che si determina, l’altro da sé diciamo, è proprio la materia per il musicista…».
…Quindi non c’è un pubblico al quale inviare una comunicazione…
«No! Ma questo già da molto tempo, perché già nel 1930, anzi nel '24 addirittura, Schoenberg già lo diceva: il pubblico può anche starci, non mi dà fastidio; certo che ne ho bisogno perché altrimenti la risonanza della sala sarebbe cattiva. Non è che il pubblico mi serve perché lui deve capire qualche cosa che io devo dirgli, ma che gli potrei dire al di fuori della musica che ascolta, cioè è una cosa che potrei dirgli anche a parole».
«Certo che del pubblico ne ho bisogno, altrimenti la risonanza della sala sarebbe cattiva».
«La musica rappresenta semmai la mia personale esperienza nel formare quella materia, la cui indagine quindi non può dare assolutamente niente agli altri individui che non sono me stesso e che non hanno indagato su quella materia come io ho fatto. È un’esperienza, diciamo in termini eccessivi, paradossali se si vuole, che mette l’arte in rapporto solamente con chi la fa. Quindi, vuoi essere artista? Fatti la tua arte! Non sei un tipo artistico solo perché vai ad ascoltare l’arte degli altri; fattela!»
Questo è appunto il nocciolo del mio discorso. Non è che si pretende di comunicare un messaggio valido oggettivamente, ma si cerca di estendere un atteggiamento creativo, estetico a tutti i livelli. Non veicolare quindi un certo messaggio a un pubblico che sta passivamente ad ascoltare. Questo tipo di pubblico non m’interessa, mi interesserebbe piuttosto che quel pubblico producesse autonomamente un certo sforzo creativo, partecipativo.
«Il fatto è semmai che tutto il bagaglio che l’Occidente ha portato con sé debba mutare funzione, cioè l’individuo non si pone come creatore, ma pone tutto il suo bagaglio di conoscenze della materia nell’elaborarla, estirpando dalla materia stessa, o meglio dalla propria intenzione nei confronti della materia, il carattere proprio, sopraffattorio, della tecnica nei confronti della materia per produrre l’opera. Si tratta solamente di dare, di sottolineare nella materia, certi principi costitutivi che ne mettono in risalto le capacità di mutamento, la possibilità di trasformazione. Si tratta di trovare nella materia musicale un principio d’incessante mutamento che ne riveli sostanzialmente non lo stato privilegiato dell’opera nei confronti della materia prima; l’opera trasformata ha la stessa dignità della materia e di nuovo ha la medesima possibilità di trasformazione. Almeno questo, credo, è un modo mio di pensare. Per esempio Stockhausen impone alla materia di diventare delle sostanze al cui interno trovare la legge immanente della forma, sia nel caso che si trovino materie poco consuete, sia nel caso che si elaborino materie ancora abbastanza consuete; questo in effetti molte volte lascia non del tutto convinti».
«Quindi, vuoi essere artista? Fatti la tua arte! Non sei un tipo artistico solo perché vai ad ascoltare l’arte degli altri; fattela!»
«In altri casi, come nell’anti Stockhausen che è il compositore americano Morton Feldman, si parte da presupposti molto diversi, cioè di lasciare le note come stanno perché il loro ordine è come si trovano in natura. Quindi in qualsiasi ordine le note si trovino lasciamole come stanno, non interveniamo, sentiamo il suono risuonare ma non crediamo che la forma sia qualche cosa che si pone al di là e quindi in una situazione migliore del suono quale si manifesta in uno stato di natura. Questa è una visione estrema».
Cosa intende per “come il suono si trova allo stato di natura”?
«Io non conosco con esattezza il suo modo di scrivere, certo si basa su degli incontri casuali di suoni, su note che durano moltissimo tempo, su un pullulare di note fortemente timbrate; non per dare dei meravigliosi timbri in senso edonistico, ma per dare un senso di annullamento del tempo. Lui vorrebbe che il tempo si riducesse a una superficie, vorrebbe che il tempo fosse spazializzato, dando un tipo di esperienze di non trascorrimento del tempo e di simultaneità e quindi di un tempo circolare direi. Non ci sono degli avvenimenti, non ci sono dei decorsi, non si tratta di un tempo rettilineo che va da A a B. Quindi è un abbandono al suono, ma non a quello che tramite il suono può essere fatto, cioè l’opera, una resa al suono… una rinuncia per noi europei con una mentalità storica se non storicistica. Mentre ciò è possibile per l’americano che ne è sgombro, che è passato attraverso l’avanguardia, attraverso Cage, ma che ha anche in buona parte trasceso e addirittura trascurato, e comunque non ha risentito molto dell’esperienza viennese, che per noi è stata traumatica, di tutto l’espressionismo, della dodecafonia…».
Si può vedere in questo anche un aggancio alla filosofia zen?
«Sì, ma questo per noi è stata una mania turistica. Noi non abbiamo vissuto in Giappone per vent’anni, non possiamo farci giapponesi, però una certa disposizione allo scoraggiamento per la finalità e un avvicinamento a un pensiero non finalistico ci può essere, anche se un’assunzione di questi principi non può essere fatta se non mediante la cancellazione, quella sì razionale, di tutto ciò che la musica occidentale ci ha lasciato in eredità e quindi la concezione di tutta un’arte progressiva che è alla base di tutta la nostra storia; una concezione secondo la quale deve esistere un’avanguardia che porta avanti un discorso. “Perché mai un discorso deve essere a tutti i costi portato avanti?” – potrebbe dire un orientale – “Il discorso sta bene dove sta, sta bene fermo”. Potrebbe anche Feldman dire così. A questo da noi si è abituati a dare il nome di “arte reazionaria”, no? Cioè siamo legati a dei feticci di questo genere, per cui reazionario è contrario di progressivo. Finché non ci si libera da tutte queste idee allora veramente Cage, Feldman e tutte le avanguardie storiche, il primitivismo, l’arte povera, saranno passati invano».
«Siamo legati a dei feticci per cui reazionario è contrario di progressivo. Finché non ci si libera da tutte queste idee allora veramente Cage, Feldman e tutte le avanguardie storiche, il primitivismo, l’arte povera, saranno passati invano».
«Ricadremo nel solito schiavismo di certi feticci culturali: se c’è l’impegno allora c’è il disimpegno, se c’è l’avanguardia c’è anche la retroguardia, se c’è il progressismo c’è la reazione; così il pensiero è sempre para-dialettico e non riesce mai a comporre la dualità in modo non dialettico. Oggi invece il rapporto uomo-materia, compositore-suono è in termini non dialettici».
Un’ultima domanda: si può parlare di uno spazio musicale ideale, come ha sostenuto Stockhausen, cioè uno spazio per la fruizione della musica?
«Ci sono vari spazi ideali. Come Stockhausen aveva immaginato una sfera con un ascolto continuo, noi possiamo immaginare sale con disposizione variabile dei posti per esempio, sale che dispongano di un’attrezzatura che permetta di spostare il rapporto tradizionale di palcoscenico-platea. Quindi un palco centrale, ma, perché no, anche palcoscenici ai quattro vertici della sala, oppure una sala circolare, oppure uno spostamento e dislocazione degli esecutori in vari punti della sala; ma c’è l’esigenza soprattutto di rendere variabile lo spazio disponibile dell’esecutore e quindi anche del pubblico. Oppure spazi circolanti, ma questo mi risulta che lo facciano perfino in Inghilterra in sale regolarissime come la Royal Albert Hall: cioè i concerti passeggiata, durante i quali il pubblico si può muovere. Naturalmente questo non significa fare sì che la Quinta di Beethoven sia ascoltata mentre il pubblico passeggia, ma di eseguire opere nate per essere ascoltate anche parzialmente, il cui ascolto sia valido in qualsiasi momento. Si può intervenire in qualsiasi momento perché non c’è un discorso rettilineo, ma un senso circolare dell’ascolto e ogni momento esaurisce se stesso. Ecco allora che ognuno può entrare, uscire, ascoltare più o meno…».
«Quindi uno spazio ideale non direi che possa esistere, perché le musiche che oggi vengono prodotte sono di un numero piuttosto grande di stili e tecniche, per cui ognuna avrebbe bisogno di un suo spazio specifico. Ci sarebbe bisogno piuttosto di uno spazio variabile e flessibile. Venendo alla sua idea di Piazza Maggiore recuperabile per musiche di questo genere, non mi risulta che sia stata fatta nessuna opera di avanguardia che esiga uno spazio all’aria aperta, salvo nel caso di un lavoro che Cage stava facendo alcuni anni fa e che aveva bisogno di una quantità enorme di altoparlanti, per cui lo spazio era un’intera università. Oppure quell’esperimento di Stockhausen di una musica fatta per un’intera piazza, un intero luna park o un’intera galleria d’arte…; allora sono spazi particolari per opere pensate per quel genere di manifestazioni. Si direbbe che per avere un’opera da esibirsi in Piazza Maggiore bisognerebbe commissionare a un musicista d’avanguardia un’opera apposta per quella piazza, perché qualsiasi spazio è utilizzabile a questo punto. Però direi anche che non mi pare che la questione spazio sia l’unico fatto che rappresenti un interesse nel fare musica».