In vista dell’inaugurazione di Ferrara Musica alla Pinacoteca Nazionale, abbiamo intervistato Nicola Bruzzo, curatore della rassegna che si terrà a Palazzo dei Diamanti dal 5 maggio al 10 giugno.
Dopo essersi esibito come violinista nelle più importanti sale da concerto e con le migliori orchestre sinfoniche e da camera, da qualche anno Nicola Bruzzo si occupa anche di innovazione nel mondo della musica classica, di divulgazione e valorizzazione della musica da camera per un nuovo e più vasto pubblico, collaborando alla direzione artistica di Ferrara Musica.
Nicola Bruzzo, come avviene la sua collaborazione con Ferrara Musica?
«A novembre 2019 con la presidenza di Francesco Micheli, e con lui Enzo Restagno e Francesca Colombo: tre personaggi importantissimi, assai diversi tra loro, ma che insieme costituiscono il triangolo magico che diede forma a MiTo. Un’occasione che non potevo perdere. Collaborare con loro, e in maniera particolare con Enzo Restagno essendo il nostro direttore artistico, mi ha aperto un mondo. E continua tuttora…»
Musica a Palazzo dei Diamanti: come nasce questa nuova iniziativa?
«Il Palazzo dei Diamanti non è solamente uno dei palazzi più belli e importanti del Rinascimento: è un simbolo, un’idea di perfezione, un luogo identitario. Essendo probabilmente il luogo più nobile che Ferrara ha da offrire, creare una rassegna al suo interno è uno Statement e richiede uno slancio verso i massimi livelli musicali per evitare un contrasto spiacevole tra cornice e tela, se mi passa un paragone pittorico. Enzo Restagno mi ha lasciato massima libertà nel creare questa rassegna, dandomi però solo un’indicazione: gli ensemble e i musicisti coinvolti dovevano essere giovani, con una carriera internazionale già avviata e importante, ma che raramente apparivano nelle stagioni italiane.
In questo modo Ferrara Musica, da sempre in prima linea nel portare un respiro internazionale nel nostro Paese, avrebbe consacrato questi musicisti al pubblico italiano nel modo e nello spazio più bello possibile».
Come si pone la rassegna nei confronti di Ferrara Musica e qual è il suo obiettivo?
«L’intento di Ferrara Musica è stato quello di creare una sorta di Wunderkammer, un distillato preziosissimo estratto dagli alambicchi della storia della nostra stagione dal 1989 ad oggi. Inoltre, con aspettative così alte, per raggiungere questo obiettivo c’è un altro aspetto importante da ricordare, ovvero che la natura intima della musica da camera richiede uno spazio diverso dal teatro italiano.
Il teatro è stato pensato e costruito con intenzioni precise: l’acustica asciutta privilegia la comprensione delle parole e del testo a scapito dei colori sonori. La presenza del palco immediatamente crea un senso drammatico tipico dell’opera, mentre gli spazi più intimi di una sala permettono ai musicisti e ai loro ascoltatori di entrare in contatto, di respirare e vivere la musica insieme. E in questo senso il salone del palazzo patrizio rinascimentale è certamente più vicino al salotto ottocentesco, luogo emblema della musica da camera, che al teatro italiano».
Musica e arte figurativa possono condividere uno spazio comune? Con quale esito?
«Possono e devono. La musica è l’arte delle arti, comunica con tutto e permette il dialogo tra forme artistiche e espressive molto distanti tra loro. Ma in Italia abbiamo un problema e cioè che la coscienza collettiva, e di conseguenza la politica, ignora sempre di più la grande musica e il teatro, quasi estromettendoli dal settore cultura. Basta leggere alcuni dati: dal 2008 al 2018 secondo Federculture il Teatro ha perso il 4,8% dei suoi spettatori. Contemporaneamente il settore museale è cresciuto del 44% con 22 milioni di visitatori in più. Il sistema giustamente educa e incentiva il pubblico in ambito visivo ed esperienziale, mentre ignora totalmente l’educazione all’ascolto. Questo porta a un paradosso: a una mostra di Kandinsky vanno moltissime persone che non per forza hanno gli strumenti per comprendere la sua arte, ma la visitano con la mente aperta e ne escono con un’esperienza nuova. Al concerto con musiche di Webern, Berg e del loro amato maestro troveremo solo pochissimi intrepidi spettatori, e tutti addetti ai lavori, perché le loro opere sono “troppo complesse” all’ascolto… Come se Kandinsky non lo fosse…».
Visto il suo profilo di violinista e assistente alla direzione artistica, il bisogno di riunire l'arte alla musica nasce da un'esperienza personale?
«Idealmente vedo il mondo dell’arte, della musica e della cultura unito e in sinergia. So che non è così, almeno per il momento. Più che altro l’avvicinarmi alla direzione artistica, che preferisco pensare come estensione della mia carriera di musicista piuttosto che un’attività distinta, deriva da un’esigenza personale. Sono e rimarrò sempre musicista-esecutore: questo mi porta da più di dieci anni in giro per il mondo e mi permette di conoscere e collaborare con alcuni musicisti di livello assoluto che sono costante fonte di ispirazione e di sviluppo. Ma mi permette anche di vedere come in altri Paesi le programmazioni musicali siano spesso più innovative e coraggiose rispetto alla media italiana. Credo che i musicisti debbano mettersi in gioco di più e cercare di creare situazioni nuove e più in sintonia con quello che è il mondo musicale internazionale. Bisogna recuperare un rapporto vero con il nostro pubblico, che forse si è perso anche perché negli ultimi 50 anni, salvo rare eccezioni, i direttori artistici provenivano dalle fila dei compositori e accademici di grande spessore e cultura, ma chiusi in un cerchio autoreferenziale che non dialogava più con le persone al di fuori del settore. Il cerchio da chiuso deve tornare ad essere aperto e spero di poter dare un mio piccolo contributo, ora come in futuro. Comunicare con il pubblico, prepararlo e dialogare con esso, sono solo alcuni dei compiti che spettano alle nuove generazioni di direttori artistici».
Con quale criterio è avvenuta la scelta degli artisti coinvolti?
«Si tratta esclusivamente di musicisti che stimo moltissimo e conosco personalmente, che hanno una carriera importante e sono regolarmente ospiti nelle sale più importanti al mondo. Sono inviti diretti che rispecchiano una nostra idea di percorso musicale. Nell’arco di un mese a Ferrara ci saranno quattro concerti che abitualmente possono essere ascoltati a Wigmore Hall di Londra, alla Kammermusiksaal della Philharmonie di Berlino o in altre sale importantissime di capitali europee. Di questo vado molto fiero. Musicisti di primissimo ordine, come il duo Alexandra Conunova e Denis Kozhukhin (19 maggio), la pianista tedesca Elisabeth Brauß (26 maggio) e la pianista Gile Bae (10 giugno), già protagonista a ottobre di un’applauditissima esibizione con l’Orchestra Rai di Torino. La rassegna verrà inaugurata dal Trio Boccherini venerdì 5 maggio».
E per quanto riguarda la scelta del repertorio?
«Ho ricercato il giusto equilibrio tra brani del grande repertorio inserendo però pagine meno conosciute o particolarmente interessanti anche se non semplici. Soprattutto il criterio principale è dialogare con i musicisti e proporre loro un programma che esprimesse al meglio le loro qualità e sensibilità artistiche. Abbiamo optato per un format inusuale: un’ora di musica, senza pausa, preceduta da una breve ma puntuale introduzione al pubblico. Parlare al pubblico è un metodo efficace per avvicinare nuovamente le persone al repertorio classico in maniera fresca e dar loro le coordinate necessarie ad apprezzare il programma a pieno. La musica è un linguaggio universale e come tale parla da sé, ma parlare di musica è diventato importantissimo: deve essere compresa da più persone possibili per evitare che diventi una lingua morta, studiata e apprezzata dai soli musicisti, e sta a noi rendere questo linguaggio più accessibile e amato».