Il 23 maggio 1992 nei pressi di Capaci, in Sicilia, Cosa Nostra compie un attentato per uccidere il magistrato antimafia Giovanni Falcone. A trent’anni da questa strage e a quindici dal suo debutto, torna sulla scena l’opera Falcone, il tempo sospeso del volo, lavoro musicato da Nicola Sani su libretto di Franco Ripa di Meana e rappresentato per la prima volta nel 2007 al Teatro Cavallerizza di Reggio Emilia.
La nuova coproduzione promossa dalla Fondazione Haydn con il Teatro Comunale di Bologna ripropone, dunque, la trasposizione teatrale della nota e drammatica vicenda di cronaca rappresentata dalla morte di Giovanni Falcone, ucciso in un attentato con la moglie Francesca Morvillo e i tre uomini della scorta Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani. Un fatto di cronaca che appartiene ormai alla storia recente del nostro Paese, rappresentato dalla scomparsa del magistrato simbolo – assieme a Paolo Borsellino, destinato qualche mese dopo alla stessa sorte – della lotta alla mafia e dalla stessa mafia assassinato.
In un libro pubblicato l’anno prima della sua uccisione (Cose di Cosa Nostra, Rizzoli 1991), lo stesso Falcone annota come «l’interpretazione dei segni, dei gesti, dei messaggi e dei silenzi costituisce una delle attività principali dell’uomo d’onore». Un codice che rappresenta un linguaggio ideale, per quanto terribile, così come il teatro – con la sua combinazione di gestualità, silenzi e suoni – diviene scenario di una rappresentazione sublimata della realtà.
Caratteristiche che abbiamo approfondito con lo stesso Nicola Sani e con Stefano Simone Pintor, regista che ha curato la messa in scena di questo allestimento.
A trent'anni dalla morte del giudice Giovanni Falcone, la sua figura viene riproposta in questa opera Falcone, il tempo sospeso del volo. Oggi, così come già al debutto di questo lavoro, non si tratta dunque di affrontare un evento di stretta attualità, ma di raccontare un dramma che appartiene comunque alla nostra storia recente, un evento che ha segnato il tessuto sociale del nostro Paese. In che modo il teatro musicale oggi ha la forza e gli strumenti per trattare queste tematiche?
Nicola Sani «L'idea di scrivere un'opera su Falcone e sulla sua vicenda umana, storica e civile, è nata in collaborazione tra me e Franco Ripa di Meana. Entrambi ricordiamo esattamente dove eravamo il 23 maggio 1992, quando giunse la notizia dell'assassinio di Falcone. In Italia molti ricordano dove si trovavano e cosa stavano facendo quando ricevettero la drammatica notizia. Per tutta la nostra generazione è stato uno shock enorme. La strage di Capaci è ancora una ferita aperta nella storia italiana. Per noi il legame tra arte e realtà è molto importante. Vogliamo mettere la realtà al centro del nostro processo creativo, perché così il nostro lavoro non ha senso solo per noi, ma anche per la società. Siamo entrambi coinvolti non solo artisticamente ma anche dal punto di vista dell'impegno sociale e politico. C'è stato un movimento molto forte in Italia negli anni '60 e '70 di artisti che sostenevano la connessione tra arte e impegno e nel nostro lavoro volevamo costruire un ponte verso quell'idea e verso quella visione del teatro musicale, alla quale siamo entrambi legati. Non in senso ideologico, ma nel voler testimoniare attraverso il teatro musicale le grandi questioni del nostro tempo e della nostra storia. Il teatro musicale ne ha senz'altro gli strumenti e la forza, oggi come ai tempi di "Intolleranza 1960" di Luigi Nono e come nelle opere di Giuseppe Verdi, che mettono al centro questioni sociali rivoluzionarie per la società del proprio tempo, a partire dalla sua sensibilità verso i destini degli ultimi. Per questo abbiamo sottotitolato l'opera con le parole "teatro musicale della nostra storia". Naturalmente con la consapevolezza del tempo trascorso e degli straordinari sviluppi dei linguaggi sonori negli ultimi decenni, anche nel loro incontro con la drammaturgia scenica. Il teatro musicale oggi è divenuto uno dei territori di ricerca più interessanti per un lavoro sulla compresenza e sulla molteplicità dei codici, proprio perché è esso stesso uno spazio dove interagiscono e deflagrano espressioni diverse visive e sonore. Ma di quale teatro musicale oggi si può parlare? Certamente non più di un teatro che nega se stesso, come è stato nel recente passato, in cui un radicale rifiuto di ogni legame con la tradizione operistica ha di fatto eliminato il senso stesso della scrittura per una drammaturgia musicale. O di un teatro che ripropone stancamente forme ormai desuete. Si avverte finalmente la necessità di aprire una nuova fase di ricerca sulla funzione della teatralità del suono, che possa integrare tutta una serie di risorse sviluppate in questi ultimi anni nei vari campi dell’espressione artistica. Intermedialità, elaborazione elettronica del suono in tempo reale, relazione con l’immagine virtuale, spazializzazione. La voce assume in questo senso un’importanza centrale, in quanto elemento di congiunzione fra la storia del teatro musicale e la sua nuova funzione nella teatralità espansa contemporanea. Una voce che non è più portatrice unica del senso letterario, che può essere comunicato attraverso altre modalità, ma che diventa fonte di emissione sonora, di attraversamento plurilinguistico, ambito espressivo dell’intercodice. Con queste considerazioni alla fine ci siamo concentrati sulla figura di Giovanni Falcone. Era qualcuno che voleva un cambiamento. Con questo non intendo un cambiamento politico, ma sociale. Il suo obiettivo era un Paese non più sotto il controllo della criminalità. L'assassinio di Falcone il 23 maggio 1992 fu uno shock per l'intero Paese che ha ancora ripercussioni. Tutto questo ci ha motivati a scrivere un teatro musicale sul nostro tempo, sulla nostra storia, basato sul personaggio di Falcone, trasformandolo in una sorta di eroe verdiano. Falcone si presta bene come protagonista di un'opera: ha tutte le caratteristiche di un personaggio di un'opera verdiana. Si potrebbe definire un "eroe perduto", che ha dedicato la sua vita a migliorare la società. Per questo ci siamo tenuti ben lontani dal biografismo, per raccontare invece la storia di un uomo che si riconosce nel sistema di segni, nell’antropologia del mondo che combatte e che lo ucciderà».
Stefano Simone Pintor «Credo che oggi il teatro mantenga ancora immutata tutta la forza che aveva tremila anni fa, proprio come il teatro musicale ha la stessa forza di quando fece la sua comparsa come nuovo genere indipendente agli albori del XVII secolo. Direi che questa forza deriva principalmente da due aspetti: il primo è quella compresenza fra attore e spettatore che è poi la base stessa del teatro. È questo un aspetto che possiedono solo le arti performative e al cui centro c’è una volontà reciproca di incontro e comunicazione. Oggi più che mai, questo non è un aspetto da sottovalutare. In una società sempre più frammentata, individualista, in cui il progresso della tecnica è il primo valore da perseguire, in una società che tenta a tutti i costi di manipolare la vita in tutte le sue forme, anche questa compresenza fisica viene minata da nuove esperienze che tentano di simulare l’interazione fra attore e spettatore su un altro piano, un piano virtuale. I risultati di questi tentativi ancora non sono soddisfacenti, perché non si è fino in fondo compreso che non bisogna tentare di sostituire il reale col virtuale, ma semmai farli lavorare di concerto. Lo dico con cognizione di causa, da grande sperimentatore io stesso in questo campo. Come ogni altro artista a questo mondo, sono affascinato dalle nuove risorse tecniche, perché costituiscono per me la possibilità di ampliare la forma di un racconto espandendolo verticalmente ad altri livelli. Ma il contatto umano, il rituale di ritrovarsi in uno stesso luogo, quello è insostituibile. Andare a teatro, oggi più di allora, significa prendere una scelta controcorrente, oserei dire rivoluzionaria. Significa mettersi in gioco, non nascondersi dietro uno schermo o un supporto tecnico di altro tipo: significa decidere attivamente di partecipare a uno scambio, a una riflessione che ci viene proposta. I cittadini che si incontrano e riflettono assieme su un aspetto della loro vita, del loro mondo, della loro società: questo è il vero progresso. Lo era per i greci, che non a caso costruivano le loro città intorno a tre luoghi principali: l’agorà, il tempio, il teatro. Lo è ancora per noi. Ecco perché i direttori artistici dovrebbero commissionare più opere nuove, come fanno alla Fondazione Haydn, a cui va fatto un grande plauso per questo, ed ecco perché personalmente ho votato il mio percorso artistico alla scrittura di libretti nuovi e alla messinscena di nuove opere: perché oggi più che mai occorre incontrarci a teatro, per dare spazio a riflessioni profonde sul nostro tempo, con titoli scritti nel nostro tempo da artisti del nostro tempo. E lo dimostra anche quest’opera su Falcone: scrivere opere nuove, necessarie e pregnanti rispetto al nostro tempo, si può. Il secondo aspetto che rende un’opera di teatro musicale forte rispetto a un’altra forma è il suo valore di astrazione. Per molte ragioni, anche tecniche, a differenza del cinema o della letteratura, il teatro non è una forma adatta al racconto biografico esaustivo, dettagliato. Dunque è necessario che un autore si concentri su altro: che vada al cuore del dramma, del conflitto, che punti all’essenza, che cerchi con la sua arte di afferrare l’invisibile e di renderlo visibile. La musica, che fra tutte le arti è la più misteriosa, al contempo così fisica e impalpabile, ha la capacità di stabilire una connessione intima con lo spettatore ed elevare poeticamente un racconto, rendendolo universale. Non è un filtro, ma una luce che illumina una vicenda da un nuovo punto di vista, permettendoci così di comprenderne diverse sfaccettature e, dunque, di conoscerla meglio, più a fondo. Non occorre dunque ragionare sempre su storie di fantasia, perché la musica e il teatro sono in grado di dare una nuova voce ai personaggi, anche a quelli realmente esistiti. In questo caso, non si tratta di raccontare la storia di Falcone in un biopic, di cui ce n’è in abbondanza in letteratura e cinematografia, ma di andare al cuore del suo pensiero e della sua lotta».
Dal punto di vista del racconto della vicenda di Falcone, qual è secondo voi il carattere più rilevante del libretto di Franco Ripa di Meana?
NS «Il libretto è composto interamente da autentici documenti storici dell'epoca di Falcone. Non c'è una sola parola che sia stata inventata. Raccogliere tutti questi documenti è stato un compito arduo. Abbiamo attraversato i processi alla mafia e ci siamo fatti strada attraverso una marea di interviste, giornali, libri, lettere e articoli. Franco Ripa di Meana ha organizzato tutto questo materiale in un libretto che ha una fortissima struttura drammaturgico-teatrale. In seguito realizzò anche la regia della prima produzione in Italia, nel 2007 a Reggio Emilia. Falcone è stata ed è tuttora una figura importantissima. Fu il primo a scoprire come era organizzato il complesso sistema mafioso. C'è una dimensione molto simbolica nell'opera. Questo ha a che fare con il linguaggio della mafia, che è molto simbolico. Ci sono sfumature molto piccole che hanno un significato molto grande. Falcone lo sapeva, conosceva benissimo questo linguaggio. Fu il primo e l'unico a poter parlare direttamente con i mafiosi. Riuscì a convincere Tommaso Buscetta a rendersi disponibile come testimone chiave nel maxiprocesso. Quello che sappiamo oggi sull'organizzazione e la struttura della mafia lo sappiamo grazie al suo lavoro, è merito suo. Allo stesso tempo, era anche una figura molto tragica. Ha combattuto contro le strutture di potere politico ed è stato sempre più isolato fino al suo assassinio. Oggi, dopo 30 anni, sono ancora tante le domande senza risposta. Ecco perché questa nuova produzione è incredibilmente significativa, perché oggi siamo arrivati a un punto in cui è importante tornare indietro nella storia e chiederci "A che punto siamo oggi? Abbiamo realizzato ciò per cui Falcone si è sacrificato?". Credo che il merito principale del libretto sia quello di saper raccontare in maniera chiara e diretta, nella sintesi del linguaggio operistico, una vicenda complessa come quella di Falcone e riuscire a rendere espliciti in ognuno di noi quegli interrogativi».
SSP «Ricollegandomi a quanto detto prima, la prima cosa da notare in quest’opera è che non vi è un racconto biografico in senso classico. Non c’è la volontà di romanzare la storia di Falcone: formalmente, diremmo che non c’è fiction. Il libretto, con le sue 26 scene, un prologo e un finale che costituiscono il suo frammentario sviluppo narrativo, è interamente basato su documenti, testimonianze, atti giudiziari e articoli di stampa. Grazie a questo rigore documentale, la drammaturgia non cade mai in quella fascinazione siciliana da romanzo e in quei cliché sul mondo mafioso in cui spesso cadono famosi film. Paradossalmente, questo aspetto dà allo spettatore la possibilità di empatizzare ancora di più con il percorso di Falcone, perché ne può comprendere la veridicità, l’assenza di invenzione. Il dato asciutto, oggettivo, ci riporta alla crudezza della realtà vissuta dal protagonista, alla difficoltà della sua lotta, che noi riviviamo con lui. Tuttavia, questa è un’opera preziosa anche e soprattutto per via della scelta dei contenuti scomodi, potremmo dire “rumorosi” da mettere in scena. A conti fatti, analizzandola a fondo, solo in tre scene appaiono un pentito, un padrino e altri due boss mafiosi. In pratica, solo in queste scene appaiono mafiosi intesi “in senso classico”, così come li dipinge troppo spesso la fiction cinematografica o televisiva. Tutto il resto dell’opera cerca invece di far luce su quella lotta intestina che Falcone si trovò a combattere contro un nemico che “non [era] più solo la mafia”, fa luce su quell’improba battaglia con tutti coloro che, di fatto, dovevano stare dalla sua parte e che, invece, l’hanno contrastato aspramente ed esposto a quelle bestie dei Corleonesi, di fatto condannandolo a morte. Una scelta drammaturgica, questa, che non potrebbe essere più corretta e condivisibile se riportata alla necessità più profonda che ancora oggi abbiamo di riflettere sul tema della mafia. A distanza di trent’anni da quella stagione delle stragi, la mafia è tornata a fare silenzio, ma è ben lontana dall’essere sconfitta. Lo stesso Falcone, agli albori degli anni ’90, aveva individuato nella nascita della Comunità Europea (con il trattato di Maastricht, l’apertura dei confini fra i paesi e la costituzione di una moneta unica) un terreno fertile per la crescita e l’evoluzione delle mafie in Europa e nel mondo. Ci invitava ad aggiornare i nostri strumenti di indagine, a stare al passo coi tempi in una lotta che sarebbe diventata sempre più difficile, perché la mafia avrebbe sfruttato questi eventi per ritornare a inserirsi silenziosamente nelle fratture legislative con lo scopo di far perdere i confini della legalità, rendersi invisibile, e così facendo accrescere ancora di più la propria potenza politica ed economica. È dunque questo quello su cui quest’opera si concentra maggiormente: la collusione stato-mafia, la “coincidenza degli interessi”: perché è lì che dobbiamo ancora lottare, facendo tesoro della “pagliuzza” che Falcone disse di voler posare, per essere in grado di andare poi ancora più a fondo nel suo sradicamento del fenomeno mafioso. La decisione di Sani e Ripa di Meana di fare interpretare più personaggi agli stessi artisti rende perfettamente l’idea di questa saldatura di interessi: un mafioso diventa politico, un politico magistrato, un magistrato giornalista, e via dicendo. Ogni personaggio entra fluidamente in un altro così come fluida era l’ideologia e la moralità di queste persone, non importa a quale schieramento appartenessero. L’unica eccezione è rappresentata da Giovanni Falcone che, giustamente, è il perno del racconto e che quindi non cambia mai ruolo, così come avrà lui stesso a dire, commentando con un amico gli attacchi subiti da più fronti: “Tutti hanno fatto credere di essermi amici, poi me li sono trovati dall’altra parte: democristiani, socialisti, comunisti… tutti. Non ti sembra la prova più evidente che io cerco di rimanere sempre lo stesso, mentre gli altri cambiano a seconda dei loro interessi?”»
Nicola Sani, pensando al linguaggio musicale, quali sono le caratteristiche principali che connotano la sua partitura?
NS «Nel complesso, comporre quest'opera è stata una grande sfida. Come compositore sono stato sempre molto attento alla ricerca, all'innovazione e alla sperimentazione unendo musica e tecnologia. Nell'opera vi è un’ampia presenza dell'elettronica, sia per le tecniche in tempo reale di elaborazione e spazializzazione su otto canali con live electronics, sia per le parti su supporto digitale multicanale. Scritta per ensemble orchestrale, si apre con un "preludio" elettronico, che ha la stessa funzione e le stesse modalità di ascolto dei preludi sinfonici delle opere del repertorio lirico. La produzione della parte elettronica su supporto digitale è stata realizzata presso il CIRM di Nizza, mentre per le elaborazioni con live electronics ho lavorato presso il CSC dell'Università di Padova con Alvise Vidolin, che a Trento curerà la regia del suono. La direzione d'orchestra è affidata a Marco Angius. Ho cercato di raggiungere una cifra espressiva che facesse risuonare il documento contemporaneo contenuto nell'opera. Volevo che i testi fossero chiari e comprensibili, che potessero essere cantati, ma senza utilizzare un concetto tradizionale di melodia. Nelle opere precedenti ho spesso lavorato sperimentalmente con il testo e ho usato le parole come concetto sonoro, ma in Falcone è completamente diverso: ho deciso di incorporare un canto che contenga anche elementi di recitazione. Anche il ritmo gioca un ruolo importante: il teatro musicale di Bertolt Brecht e Hanns Eisler è stato senz'altro un riferimento importante. L'idea di base era quella di creare diversi livelli di ritmo, recitazione e canto. E naturalmente è stata determinante la componente visiva: ogni voce è come una linea che a volte si sviluppa da sola, a volte ne segue un'altra e a volte si sovrappone a un'altra. Le voci scorrono come livelli paralleli. Non ci sono variazioni né elementi artificiali, tutto è molto limpido, lineare e asciutto. Non è facile per i tre cantanti e i due attori. Devono avere un controllo costante dell'emissione vocale, non è possibile lasciare una sola parola al caso. Il piano vocale è stato davvero una sfida per me, perché è diverso dai miei lavori precedenti, mentre il lavoro sulla parte strumentale ed elettroacustica in Falcone va nella stessa direzione di altri miei lavori. In quest'ambito, la struttura timbrica e lo spazio sono dimensioni per me importanti, la costruzione spaziale dello spettro sonoro è un aspetto centrale della mia ricerca musicale. Combinare in maniera coerente tutti questi elementi è stato molto difficile. In più, ovviamente, volevo anche che Falcone fosse presente con la sua personalità, il suo carattere, la sua essenza, la sua intimità. Ad esempio, era molto ironico e talvolta sarcastico. Volevo anche rappresentare quell'aspetto della sua personalità».
«Nell'opera ci sono solo personaggi maschili sulla scena, solo voci profonde, di baritono e basso, perché volevo rappresentare un mondo oscuro, grigio, un mondo senza aria, claustrofobico dove tutto è chiuso, come la vita blindata che conduceva Falcone».
«Nell'opera ci sono solo personaggi maschili sulla scena, solo voci profonde, di baritono e basso, perché volevo rappresentare un mondo oscuro, grigio, un mondo senza aria, claustrofobico dove tutto è chiuso, come la vita blindata che conduceva Falcone. Viveva come in una prigione, con le sue guardie del corpo intorno a lui. Allo stesso modo, anche il mondo della mafia è chiuso e oscuro. Falcone è l'unico personaggio interpretato da un solo cantante durante la commedia. Il ruolo del magistrato è affidato a Roberto Scandiuzzi. Tutti gli altri cambiano i loro ruoli e rappresentano le diverse voci del tempo: politici, mafiosi, giornalisti, scrittori, cittadini, colleghi, amici e nemici. La moglie di Falcone, Francesca Morvillo, non è un personaggio in scena, ma è rappresentata da un coro femminile fuori scena, le cui voci vengono proiettate in sala mediante l'elaborazione con live electronics e di cui si percepisce la presenza, ma non si vedono. Dal coro, dalle sue riverberazioni nello spazio, provengono alcuni dei momenti più intensi e struggenti dell'opera. È una specie di figura collettiva, come il coro nella tragedia greca, l'idea di una metafora femminile. Questo è molto importante perché Francesca era come un angelo accanto a Falcone. Ha scelto di condividere il suo destino fino all'ultimo e di morire con lui. Voleva condividere tutto con lui fino all'ultimo momento. Allo stesso tempo, il coro funge anche da testimone dalla scena del crimine dopo la strage. Come un arido rapporto o un inventario della polizia, elenca tutto ciò che è stato trovato sulla scena del crimine dopo l'esplosione della bomba».
Stefano Pintor, pensando invece all'impianto drammaturgico, quali sono i caratteri che segnano la sua lettura registica?
SSP «Nell’impianto drammaturgico originale c’è una scena, “In volo”, che dall’inizio alla fine dell’opera ritorna 6 volte, collegando fra loro tutti gli altri frammenti in un unico fil rouge. L’idea è quella di rappresentare in scena l’ultimo volo preso da Giovanni Falcone e sua moglie Francesca Morvillo, solo pochi minuti prima dell’attentato. I due magistrati, accompagnati dalla loro scorta, facevano ritorno in Sicilia per il fine settimana. Com’è noto, pochi minuti dopo, sull’autostrada che collega l’aeroporto di Punta Raisi a Palermo, all’altezza di Capaci, 500kg di tritolo faranno saltare in aria la sua Fiat Croma bianca insieme alle altre due auto della scorta. Quest’ultimo volo aereo è rievocato nell’opera come momento di sospensione temporale. Falcone ha modo di riflettere sul suo passato e noi con lui: tanti flashback, come dei frammenti di ricordi o pezzi di vita, ci forniscono un quadro completo del suo ultimo travagliato decennio di vita. In queste scene “In volo”, un coro di sole voci femminili, fuori scena, rompe con i tratti vocali scuri e magmatici del resto dell’opera e dà voce a Francesca Morvillo, fisicamente assente in questo racconto scenico tutto al maschile, che ben descrive la forte impronta patriarcale di un mondo come quello della mafia, della magistratura, della politica e del settore dell’informazione del tempo. Questo coro alla greca, tuttavia, ha anche il compito di riportare le asettiche e crude descrizioni dei verbali dell’attentato, a partire dalla frase di apertura:
“Come un’ellisse di 14,30 metri, il disfacimento dell’asfalto, profondo 4 metri. / Proiettata a 62 metri, parte del volante. Sui sedili anteriori si ritrovava materia celebrale, oltre a piccole parti di arti. / L’interno invaso da cumuli di detriti e di terra, che raggiungevano i 50 centimetri; il cofano, retto dalla sola cerniera destra…”
«È questo un quadro a dir poco impressionante, sia per i numeri che emergono dalle rilevazioni fatte sia per il grande portato emotivo e simbolico che hanno lasciato queste immagini nella storia d’Italia e, forse, nella storia del mondo intero. È indubbio, infatti, che questo evento, tanto quanto quello del rapimento e dell’uccisione Moro, solo per citare un esempio, sia stato uno di quegli episodi “spartiacque” della storia del nostro paese. È indubbio che quel gesto abbia segnato l’inizio della fine di una stagione sia per il pool palermitano che per la dittatura dei Corleonesi, ma anche l’inizio di una nuova e diversa stagione per il paese intero. Da lì in poi, si è preferito “tappare il buco” anziché scavare più a fondo. Ecco perché ci appare utile riaprirla quella ferita, mostrarla nuovamente. Ci appare utile rappresentarla, simbolicamente, non per una facile e scabrosa spettacolarizzazione, ma per combattere la “cultura dell’oblio” e dell’amnesia, così come la definisce Francesco La Licata nel suo testo fondamentale Storia di Giovanni Falcone e avere il coraggio di non dimenticare. Dobbiamo analizzare di nuovo quell’evento per tentare di comprendere quello che ancora non abbiamo compreso di esso, come si farebbe con l’esperienza dei campi di stermino nazisti, per esempio, o con altri momenti dolorosi della storia dell’umanità e che è necessario continuare a ricordare sempre perché episodi del genere non si ripetano più. È singolare come, nel descrivere Cosa Nostra, sarà lo stesso Falcone a fornire un’immagine che andrà sinistramente a coincidere con la sua fine, con la descrizione del cratere lasciato sull’asfalto dell’autostrada dopo l’esplosione della bomba:
“Oserei dire che, quanto al contenuto delle loro rivelazioni, altri pentiti hanno avuto un’importanza forse maggiore di Buscetta, ma lui solo ci ha insegnato un metodo, qualcosa di decisivo, di grande spessore. Senza un metodo non si capisce niente. Con Buscetta ci siamo accostati all’orlo del precipizio, dove nessuno si era voluto avventurare, perché ogni scusa era buona per rifiutare di vedere, per minimizzare, per spaccare il capello (e le indagini) in quattro, per negare il carattere unitario di Cosa Nostra.”
«Ecco allora l’immagine che abbiamo voluto mettere in scena: un pozzo nero senza fondo, una voragine. Un cratere reale, ovvero sia quello dell’attentato di Falcone, ma anche simbolico, come a rappresentare quella ferita che è la mafia e con cui l’Italia sta tuttora lottando. Oggi, poi, c’è un altro aspetto da tenere a mente: dal 2007, anno in cui l’opera fu scritta e messa in scena la prima volta, sono passati 15 anni, 30 dalla morte di Falcone. Questo significa che una buona fetta del nostro pubblico più giovane ha conosciuto Falcone e Borsellino soprattutto attraverso le immagini dei loro attentati che rimbalzano in Internet e sui vari media. Ripartire da lì significa per noi fare ciò che dicevamo prima: usare il teatro musicale per illuminare di una nuova luce la vicenda, nella duplice speranza di informare le generazioni più giovani poiché, per dirla con Maria Falcone, è solo attraverso l’informazione che si potrà minare dal basso la sottocultura delle mafie, nonché esortare lo spettatore ad “avventurarsi” attivamente in quel pozzo nero, nel tentativo di affrontare direttamente il problema. Come? Scavando, riportando alla luce dati, fatti, nomi anziché accontentarsi di ciò che fa più rumore o scalpore. È dunque questo l’impianto che abbiamo deciso di mettere in scena. Un grande cratere ha invaso completamente il teatro; e non solo la scena, ma anche parte della platea, come a dire che la mafia riguarda noi tutti, ne siamo tutti toccati e non possiamo più rimanere spettatori inermi, poiché restare a guardare equivale a essere complici. In questo senso, il volo aereo si trasforma nel volo fisico compiuto dalla Fiat Croma bianca di Falcone sopra a quel cratere nell’istante esatto dell’esplosione: un volo lungo 62 mt, recitano i rilievi nel verbale di indagine. Quel secondo di detonazione diviene dunque il nostro “tempo sospeso del volo”. In quell’instante in bilico fra la vita e la morte, esteso a 1 ora e 15 minuti circa per noi che assistiamo all’opera, Falcone avrà modo di ritornare indietro nei suoi ricordi, nei suoi frammenti di vita, ma anche di tendere idealmente a noi che oggi, nel 2022, riviviamo la sua vicenda a teatro. Il suo è un volo immaginario verso di noi, per chiamarci in causa, per dirci ancora una volta che “gli uomini passano, le idee restano. Restano le loro tensioni morali e continueranno a camminare sulle gambe di altri uomini”».
In riferimento al primo allestimento di quindici anni fa, quali sono - se ci sono - le principali differenze che segnano questa nuova produzione?
NS «La nuova produzione della Fondazione Haydn di Bolzano, in coproduzione con il Teatro Comunale di Bologna, che andrà in scena per la prima volta al Teatro Sociale di Trento il 12 e 13 marzo, è molto diversa da quella realizzata alla “Cavallerizza" di Reggio Emilia nel 2007 e altrettanto diversa da quella prodotta dalla Staatsoper di Berlino nel 2017 per l'innovativo palcoscenico della Werksattbühne, entrambe pensate per spazi modulari e riconfigurabili. Il regista Stefano Simone Pintor ambienta per la prima volta l'opera negli spazi e nelle geometrie di un teatro all'italiana, rendendola "compatibile" con qualsiasi tipo di palcoscenico. Ma non si deve per questo pensare a una regia "tradizionale", in quanto Pintor lavora su piani percettivi paralleli che si sviluppano attorno all'immagine che ha maggiormente colpito tutti coloro che ricordano quella tragica giornata del 23 maggio 1992: un pozzo nero senza fondo, una voragine. Un cratere in parte realistico, come quello dell’attentato di Falcone, ma anche simbolico, come a rappresentare quella ferita o cancro con cui l’Italia sta tuttora lottando, ovverosia la mafia. Perché da allora, purtroppo, siamo ancora in bilico sull’orlo di questo precipizio, con il paese spaccato in due fra quelli che rimangono a guardare, come dei voyeur attirati solo al dato superficiale, dalla spettacolarizzazione della mafia e della cronaca, e quelli che invece decidono attivamente di avventurarsi dentro a quel pozzo nero, nel tentativo di affrontare il problema. Come? Scavando, sporcandoci le mani, riportando alla luce dati, fatti, nomi anziché accontentarsi di ciò che fa più rumore o scalpore. Senza alcun compiacimento, indulgenza o finzione decorativa. È dunque questo l’impianto scenico. Un grande cratere invade completamente la scena e non solo: una porzione di carreggiata si spinge al di là del proscenio per andare in aggetto sopra a una parte della platea del teatro. Il tentativo è quello di suggerire l’idea che la mafia è cosa che riguarda noi tutti anche attraverso l’utilizzo dello spazio e cioè avvicinandoci al pubblico, rompendo la quarta parete e la classica visuale meramente frontale. È importante che il pubblico si senta coinvolto, poiché questi sono temi che ci riguardano, che toccano noi tutti. Non possiamo più rimanere spettatori inermi, poiché restare semplicemente a guardare equivale a diventare complici, equivale alla mercificazione dell’orrore».
SSP «Al di là dello spostamento del nodo drammaturgico principale dall’ultimo volo aereo al momento dell’esplosione di Capaci che, come dicevo, è un “aggiornamento” che abbiamo sentito necessario – anche per via della maggiore distanza temporale che ci separa da quei fatti e che ci spingono quindi a ripartire da quell’immagine che è senz’altro la più conosciuta al nostro pubblico – il resto della messinscena è estremamente fedele al testo. L’obiettivo, però, non è solo una fedeltà alla volontà narrative degli autori, ma anche ai loro intenti artistici più profondi. In particolare modo, quello che abbiamo voluto preservare è l’alto grado di partecipazione del pubblico richiesto dall’opera originale, un coinvolgimento che all’epoca veniva promosso in molti modi. Veniva fatto anzitutto richiamando spesso e volentieri lo spettatore fuori da un processo di immedesimazione passiva. Infatti, nella prima iconica messinscena di 15 anni fa al Teatro Cavallerizza di Reggio Emilia, veniva fatto un utilizzo quasi brechtiano di cartelli, titoli e didascalie, che con la loro presenza ci ricordavano costantemente di essere a teatro, di essere dei cittadini ritrovatisi volontariamente in un unico luogo per riflettere. Inoltre, lo spazio teatrale veniva utilizzato a 360°: il pubblico era immerso nell’azione e condivideva lo spazio scenico con i cantanti. Le sedie del pubblico simulavano le sedute degli aerei. Tutto succedeva intorno, in mezzo, sopra lo spettatore. Persino l’orchestra e il coro erano fuori della buca d’orchestra, condividendo idealmente lo stesso spazio del pubblico. L’obiettivo nostro è mantenere tutto questo, pur nelle differenze spaziali che il Teatro Sociale di Trento, con la sua bellissima architettura da teatro all’italiana, ci impone. La scena rompe la quarta parete e invade il pubblico, con una porzione aggettante su di essa. Il coro e l’orchestra sono fuori dalla buca, a ridosso del cratere dell’esplosione tanto quanto il pubblico, ma il suono è amplificato in sala grazie a una spazializzazione sonora a otto canali che ci fa immergere nella scena anche a livello acustico. I cartelli stradali si trasformano sotto gli occhi del pubblico, divenendo titoli di scene, porzioni di documenti, citazioni oniriche di testo e quindi esulando dal loro ruolo diegetico. Infine, per combattere ancora di più quella logica di estraneità dalla mafia che si nasconde dietro l’idea del “noi” cittadini-spettatori e del “loro" mafiosi-attori, abbiamo deciso di coinvolgere il pubblico in alcune azioni facendoli partecipare in alcuni momenti culminanti dell’opera. Ma per vedere, anzi, per partecipare a questo momento, non mi rimane che invitarvi a teatro…».