Falaschi, dal costume alla regia per cercare se stessi

Il costumista Gianluca Falaschi debutta nella regia lirica con Adriana Lecouvreur a Mainz: lo abbiamo incontrato

Adriana Lecouvreur - Falaschi
Adriana Lecouvreur a Mainz (foto di Andrea J. Etter)
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In tempi in cui non si fa che parlare di chiusure di luoghi di spettacolo o si fanno ipotesi su timide riaperture, sembra davvero strano parlare di uno spettacolo che segna un debutto. Il debutto è quello nella regia lirica di Gianluca Falaschi, costumista affermato (suoi sono i costumi delle ultime inaugurazioni scaligere dall’Attila, alla Tosca fino a quella emergenziale dello scorso dicembre).

Gianluca Falaschi
Gianluca Falaschi

Lo spettacolo è l’Adriana Lecouvreur di Francesco Cilea che Falaschi è stato chiamato ad allestire allo Staatstheater di Mainz, il teatro dove ha già lavorato nel 2015 per i costumi di Perelà di Pascal Dusapin, che gli è valso il titolo della rivista Opernwelt di miglior costumista della stagione, e nel 2016 di Armide di Christoph Willibald Gluck. L’incertezza è grande a Mainz dove, dopo la data inizialmente prevista per il debutto dello spettacolo davanti a 100 spettatori il 3 aprile e un primo rinvio il 6 aprile, il teatro ha appena annunciato la chiusura fino a fine aprile a causa dei non incoraggianti sviluppi della pandemia anche in Germania.

Le prove comunque continuano e lo spettacolo è quasi pronto quando raggiungiamo Gianluca Falaschi durante una pausa per una conversazione su questo suo debutto, sulla sua idea dell’opera di Cilea e sul teatro in tempi di pandemia.

Da costumista a regista: un caso? O un percorso inevitabile per conquistare piena autonomia nella concezione e realizzazione di una produzione?

«Non è un caso. Ho sempre agito in teatro e ho sempre voluto fare altre esperienze. A Mainz mi conoscevano come costumista. Non mi hanno affidato una piccola produzione ma un’opera italiana in quattro atti con poco meno di 200 persone coinvolte fra orchestra, coro, interpreti, macchinisti e artigiani nei laboratori».

«Attraverso la regia cerchi sempre, ti metti in moto non per rappresentare, ma per cercare, e forse anche per cercarti».

«Forse mi sarei dovuto spaventare di fronte a una proposta così generosa, ho colto subito la possibilità di tornare in questo teatro con questo progetto. Certamente la regia era un’aspirazione che è diventata più reale durante il lockdown, quando ho detto a me stesso: “forse devi ricominciare a cercare”. Attraverso la regia cerchi sempre, ti metti in moto non per rappresentare, ma per cercare, e forse anche per cercarti».

Mainz è una realtà defilata rispetto ai grandi teatri tedeschi come Berlino, Monaco e Dresda: come è stata la tua esperienza?

«Lo Staatstheater di Mainz è però un teatro che alla lirica affianca una compagnia di danza conosciuta e una stagione di prosa intensa, affrontando tutto con una curiosità intellettuale che mi ha sempre molto colpito. Questo teatro è un autentico polo di ricerca, che è una delle cose che ha più senso fare durante questi tempi di pandemia. In questo teatro sono arrivato nel 2015 per i costumi di Perelà e ci sono tornato per i costumi di Armide, produzioni che ho disegnato per Lydia Steier. Sono entusiasta di cominciare qua dove conosco le persone e a fondo, e ne riconosco il valore: penso ai reparti trucco, scenografia, decorazione. Li sento molto vicini durante le prove ed è la cosa bella del teatro tedesco: non sei uno dei tanti che passa, ma sei uno di loro. Una bella pratica qui a Mainz è l’AMA, cioè “alles mit allen” (tutto con tutti): una prova in cui tutto il teatro assiste al lavoro, lo condivide, ne parla con te e dice cosa ne pensa. Avere qualcuno che ti dice: “guarda che questo non funziona come vorresti”, lo trovo un grande lusso e ti fa sentire la dimensione del lavorare tutti assieme a uno stesso progetto».

La scelta di Adriana Lecouvreur ti è stata in qualche modo imposta o l’hai condivisa?

«La proposta è venuta da Gabriele Donà, il direttore dell’opera. Puoi immaginare quanto gli sia grato. La mia sensazione è che Adriana Lecouvreur non ha il fluire sicuro di Puccini, che dava alla musica un tocco cinematografico, non ha il senso dell’assoluto di Verdi ma contiene quasi nascosto il germe di molto teatro musicale che sarebbe arrivato. Non è un terreno semplice: quest’opera non è un prodotto del verismo in senso stretto perché intriso di un sentimentalismo e di un estetismo liberty, di un sovraccarico di emozioni che si devono razionalizzare, capire, ordinare. Si affaccia l’ombra di D’Annunzio. In Maurizio vedo un modello di italiano protofascista, che si dichiara attaccato alla madre, alla patria e all'onore, eppure in alcuni momenti musicali si diventa un uomo di statura memorabile».

Da quanto dici si potrebbe pensare a una lettura anticonvenzionale di quest’opera: è così?

«All’interno di questa partitura ho ritrovato tanto teatro e tanta bellissima prosa che ho avuto la fortuna di attraversare da Casa di Bambola, a Rumori fuori scena, al Fassbinder teatrale. Non credo di aver dato una lettura anticonvenzionale ma ho messo in quest’opera così metateatrale molti specchi dove si affacciano altri teatri, altre scritture».

Questo di Mainz non è il tuo primo incontro con l’opera di Cilea: hai già firmato i costumi per una produzione a Montecarlo con la regia di Davide Livermore nella quale l’azione dalla Parigi del 1730 veniva posticipata alla prima guerra mondiale trasformando la grande attrice della Comédie Française in una diva del cinema muto. Qual è la chiave che hai scelto per il tuo spettacolo?

«Nello spettacolo di Davide Livermore il riferimento a Sarah Bernhardt era legato ad elementi storici: la Bernhardt aveva recitato a Montecarlo e interpretato il ruolo di Adriana. Nello spettacolo c’era un un gioco di rimandi interni all’Opéra di Montecarlo stessa che arrivava fino ai Ballets Russes, che lo hanno abitato. La chiave visiva era intrisa dello spirito “début de siècle”, di una società sull’orlo dell’abisso e della decadenza. La regia di Livermore riusciva a parlare di Storia e non solo della storia. Il mio allestimento per Mainz, invece, si interroga meno sulla società intorno e di più su quello che significa fare spettacolo, essere spettacolo. Ha a che vedere con la gloria, la memoria e la fine. Questo è un po’ il senso. Come spesso avviene, il teatro diventa lo specchio della vita e riflette sul concetto di fine».

«Come spesso avviene, il teatro diventa lo specchio della vita e riflette sul concetto di fine».

«Con l’orchestra sistemata sulla scena per garantire il necessario distanziamento a causa del Covid-19, ho pensato a quei vecchi film americani con Fred Astaire e Ginger Rogers. La stessa musica in alcuni momenti mi ha fatto pensare ai movimenti di macchine sceniche o all’ingresso delle ballerine, specialmente nel primo atto. Adriana è una Gloria Swanson in Viale del tramonto. È anche una Veronika Voss, che ricorda e rivive la sua esistenza attraverso momenti di spettacolo. Siamo spesso sul confine fra quello che è reale e quello che è immaginato, come se piegassimo il tempo secondo una quarta dimensione magica e avvenisse tutto nello stesso tempo: la morte di Adriana, la sua carriera e la sua caduta, l’amore per Maurizio e il sapere che è tutto finito, come un fiore che appassisce appunto».

Sarà una Adriana stile Broadway?

«È Broadway ed è la Golden Age di Hollywood. Come è sempre stato, il musical si mischia al cinema e diventa un prodotto che noi conosciamo in Europa primariamente attraverso il cinema, che era fatto di vaudeville, di varietà. Ed è quella la casa di Adriana, ma anche il ricordo, la mente, la vita stessa».

E come morirà invece la tua eroina?

«Non avvelenata. Di solitudine forse, di un riflettore che si spegne, di attesa, di silenzio improvviso intorno. Ma forse, banalmente anche solo di vita. Come tutti. Anche se ero partito da un’idea solitaria dell’attrice ritirata, dimenticata, immersa nel suo passato. Forse partire dall’affacciarsi dei personaggi della commedia nell’ultimo atto mi ha fatto pensare a degli attori di fila, che improvvisi tornano in mente ad Adriana sul punto di morire. Ma tutto questo mi ha condotto a stemperare, a rendere più fluida questa morte. Sola, ma immersa nella sua vita. Ritirata, ma accompagnata da cosa e da chi ha amato. Dal teatro. Non è solo l’ombra delle persone di teatro che rimane ad abitare questi edifici, ma è anche l’ombra di tutto il teatro vissuto che accompagna le persone che smettono di farlo fino alla fine. La sua è una solitudine fatta della malinconica felicità che questo mondo caduco ti dà. L’effimera ma intensa gioia del palco, che odora di cerone, di polvere, di costumi antichi sempre riusati».

Una parte significativa del lavoro di regista è anche la direzione degli attori: come ti trovi con i protagonisti della tua produzione di Mainz?

«Adriana a Mainz sarà il soprano Nadja Stefanoff, che è un’attrice eccezionale. Nadja porta nello spettacolo un invecchiare durante gli atti che non ha bisogno di trucco. Alla fine Nadja sembra non vedere più quello che avviene attorno a lei, ma sembra sentirlo, avvertirlo sulla pelle, quasi non vedesse più ma ricordasse solo. Nadja diventa Adriana. Non è più solo la mia idea. È la sua, è la nostra. In questo la aiuta Vincenzo Costanzo, Maurizio. Partivo da un pensiero di Maurizio come un gigolò, forse un figlio di puttana, uno che si approfitta di due donne, magari più fragili, adulte. Ma Vincenzo ha aggiunto a questo personaggio una umanità profonda, facendo sì che la colpa del personaggio sia anche solo l’ingenuo egocentrismo di una gioventù irruenta, che gli impedisce di vedere il male che produce. Sia solo gioventù, sfrontata, appassionata. Se vuoi è come essere semplicemente giovani. In qualche misura l’amore che Vincenzo dichiara è autentico. Il suo problema è che non sa misurarsi all’altro, e scopre l’amore quando è tardi, quando lo perde».

«In questa drammaturgia che diventa di persone e non di personaggi, vedo il percorso dialogico fatto con i cantanti».

«Il Michonnet di Michael Damen porta invece la dolenza del suo amore non corrisposto. Sfugge l’ironia del capocomico e si trasforma in un regista che guarda Adriana con l’amore di sempre, avendola vista crescere, invecchiare e sfiorire. La sensibilità di Michael la racconta con uno sguardo in tralice che sempre la insegue, fino al finale dove, anziano, sembra trattenerla solo col pensiero, come un anziano sposo che non si arrende alla morte della compagna. Potrei parlare di ciascuno, per esempio della altera e già sconfitta Principessa di Bouillon, interpretata da Sanja Anastasia, oppure della simpatica canaglia del produttore, cioè il Principe interpretato da Stephan Bootz, che si rivela peggiore di ogni altro. In questa drammaturgia che diventa di persone e non di personaggi, vedo il percorso dialogico fatto con i cantanti. Il grande arricchimento è stato comprendere di dover condurre un cammino con ciascuno e di arrivare a scoprire assieme una verità di ciò che mettevamo in scena. Nel dialogo, nell'interrogare l’altro quanto me, nel cercare nell’altro i propri dolori, il proprio vissuto, sono nate le cose preziose che ciascuno di loro sa incarnare».

Adriana Lecouvreur a Mainz (foto di Andrea J. Etter)
Adriana Lecouvreur a Mainz (foto di Andrea J. Etter)

Immagino non sia stato facile portare avanti le prove con i protocolli sanitari imposti dalla pandemia. Ci sono state anche delle opportunità?

«Con l’orchestra disposta sulla scena, lo spazio per l’azione si riduce drasticamente. Se poi ci metti anche le regole di distanziamento, capisci quanto sia stato complicato. In realtà, ho spinto gli interpreti in proscenio e li ho avvicinati al pubblico (certo, solo virtuale per ora) lavorando come in uno spettacolo di prosa. E come in uno spettacolo di prosa mi ritrovo continuamente a farmi delle domande. Quando ero più giovane mi commuoveva ascoltare dietro le quinte Arturo Cirillo che chiedeva ai suoi attori: “Ma questa virgola cosa vuol dire?” L’ho sentito di nuovo mentre lavoravo al monologo di Adriana nel terzo atto, “Giusto cielo! che feci in tal giorno? …”, ho sentito risuonare in me quelle stesse domande e lo devo a Arturo, che mi ha fatto capire come la parola scritta non sia mai un caso».

Arturo Cirillo è una figura molto presente nel tuo lavoro come costumista nella prosa e nella lirica. Così come lo sono state e lo sono Davide Livermore e Lydia Steier soprattutto per le tue produzioni liriche. Cosa hai rubato (se hai rubato qualcosa) da ognuno di loro per il tuo debutto come regista?

«Sento di aver fatto un lunghissimo viaggio, e forse una gavetta che non è finita mai davvero, avendo avuto l’opportunità di lavorare con figure di spicco come loro. Senza dimenticare altri grandi nomi a cui devo molto, come Walter Le Moli, Valerio Binasco, Alfonso Antoniozzi. Ogni volta un linguaggio diverso, un porto diverso, una ricerca, un tentativo. Ognuno ha fatto la persona che sono, e quindi non so dirti cosa ho rubato di loro, ma quanto ho imparato. So che ognuno, in qualche maniera, è stato un mio maestro».

Torniamo alla triade statisticamente più significativa nella tua attività lirica, partendo da Arturo Cirillo, con cui hai fatto decine di produzioni e tre produzioni liriche: Alidoro di Leo a Reggio Emilia nel 2008, Napoli Milionaria di Nino Rota e La donna serpente di Casella a Martina Franca. Cosa hai imparato da lui?

«Con Arturo ho scoperto la dualità fra falso e vero e come il falso, anche quello dichiaratamente falso, può sembrare più vero e toccante dell’autentico. Ho imparato un grande rigore e la libertà di concedersi delle possibilità. È un grande poeta del teatro, non schiaccia mai i personaggi ma li esalta – li cerca – li rende complessi come la vita».

E da Davide Livermore, con il quale vanti le collaborazioni più numerose?

«A Davide devo molto, non solo perché ha creato la mia carriera di costumista lirico. È sempre stato un visionario coraggioso ed ha sempre spinto ogni produzione oltre quello che credevo fosse possibile realizzare. Mi ha spinto oltre – dal bianco e nero di Ciro in Babilonia alla cruda realtà di Attila, alla Tosca autentica ma astratta, immersa nel rosso del cielo di Roma. Nell’opera Davide è un grande maestro, sia visivamente che dentro la partitura. Davide è un musicista che mi ha insegnato ad ascoltare la musica, a capirne il linguaggio, a non andarle mai contro ma a seguirla. Tanto quanto Arturo segue o piuttosto interpreta la parola nei testi di prosa e la esalta, così sento che Davide fa con le note».

Da Lydia Steier, unica donna della triade?

«Lydia mi ha insegnato la libertà, la sfrontatezza e una visione così sottile e coraggiosa che l’animo femminile può dare di opere speso scritte con uno sguardo maschile. È una grande artista che scherza con la finzione per tramutarla in uno specchio della realtà, riuscendo sempre a seguire il filo della propria drammaturgia. Lydia è nasi e protesi di Perelà e uomini orrendamente grassi in Armide, ma anche una Carmen venduta in un mercato della carne a Colonia. Come il genio di Lydia non si spaventa con le convenzioni, così altre donne con le quali lavoro si spingono sempre con coraggio nelle pieghe della loro drammaturgia. E anche questo è stata un grande insegnamento. Penso a Lisa Ferlazzo Natoli, con la quale ho vinto il premio Ubu nel 2019 per il lavoro su When the Rain Stops Falling di Andrew Bovell. Questo anche se Lisa è l’opposto di Lydia: entra sempre nel profondo dei silenzi, delle attese».

Per la tua Adriana Lecouvreur sei regista, ma anche costumista e scenografo: cosa si guadagna e cosa si perde dalla mancanza di un confronto con punti di vista diversi che interagiscono nella costruzione di uno spettacolo?

«Io che nasco dal disegno difficilmente posso essere disgiunto da quello. Soprattutto ora. Certo però che so come il confronto con un costumista o uno scenografo possano portare uno spettacolo ad una complessità anche maggiore fatta di addizione. Condividere e lavorare con altri da te aggiunge, non sottrae mai. Nel continuare questo percorso di regia so che verranno opere in cui chiederò aiuto e confronto ad altri da me. Perché il confronto è tutto in teatro. Qui ho la fortuna di avere un dialogo fitto e quotidiano con la mia assistente nel lavoro sui costumi, Nika Campisi, o con Jenny Mosen e Lina Maria Stein, ma anche con la “Dramaturgin” della produzione Elena Garcia Fernandez, di parlare con Guido Pfaegen, un artista enorme a capo del reparto di effetti speciali e del trucco, o con Ute Noack, che dirige la sartoria. È un teatro fatto di dialogo. Ci sarebbe un numero enorme di nomi da fare perché è un lavoro fatto davvero con tutti. E in quel tutti che nasce quello che fa crescere uno spettacolo».

In Germania spesso si accusa (ingiustamente o no) l’opera come si fa in Italia di essere un concerto in costume, definizione che magari a un costumista fa pure piacere. Come la vedi dal tuo speciale osservatorio?

«In Italia abbiamo una grande tradizione nel disegno. Io stesso ho imparato da una delle più grandi costumiste liriche, Odette Nicoletti. La concentrazione di Odette sul progetto è qualcosa che mi aiuta persino nella regia, perché almeno avendo disegnato i costumi so dove vado, so anche togliere o mettere, come se, costruita l’impalcatura, dovessi togliere qualche pietra senza far crollare il castello. È ovvio che in Italia e in Germania veniamo da due diverse tradizioni di regia ma entrambe hanno un valore credo. C’è anche una ragione funzionale che dipende dal sistema a repertorio, mentre da noi prevale la stagione. Nel sistema tedesco, gli allestimenti devono poter essere rimessi in scena a getto continuo. Nel momento in cui si incontrassero il teatro di regia come si fa in Germania con la nostra ricerca estetica succederebbe qualcosa di importante, ma di certo lo vediamo che già accade. Prendi ad esempio Paolo Fantin, uno dei più grandi scenografi italiani e sicuramente il più grande della mia generazione: chiaramente unisce un teatro di grande regia, quella di Michieletto, a una ricerca estetica e artistica che viene anche dalla grande tradizione italiana, e questo è parte della sua forza dialogica. La realtà è che le distanze sono solo delle proiezioni linguistiche che si colmano nei fatti».

Come sei arrivato a questa conclusione?

«Lavorando ormai spesso in Germania, ho scoperto che i tedeschi hanno un animo che, quando si apre, ti fa scoprire degli scorci immensi, e quando entri nei meandri della loro sensibilità vieni accolto da una profonda generosità umana ed intellettuale. Quando ho fatto con loro i costumi di Perelà e Armide come mi hanno insegnato a fare in Italia, all'inizio magari erano un po’ perplessi per la quantità. Ma nel momento in cui il costume acquistava significato per lo spettacolo, hanno abbracciato il progetto con passione. Per questa Adriana c’è un teatro di artigiani che da sei mesi lavora sullo spettacolo: 60 parrucche nei corridoi, 70 costumi sulle scale, l’orchestra, le pedane, i marmi, le finestre. C’è anche un grandissimo light designer, Ulrich Schneider, il maestro delle luci del teatro che dipinge con la luce la profondità dello spazio: un poeta. Nelle ore di prove, nel fitto parlarsi, nello stare assieme ho capito come questo ponte tra i nostri linguaggi sia breve e molto semplice da valicare».

Adriana Lecouvreur a Mainz (foto di Andrea J. Etter)
Adriana Lecouvreur a Mainz (foto di Andrea J. Etter)

In una tua intervista di qualche tempo fa del teatro in Italia dicevi “Bisogna garantire accessibilità al pubblico e questa probabilmente potrebbe essere una strada per riportare il teatro al centro. Perché il teatro, come tutte le cose, esiste finché la gente ci tiene.” Diresti lo stesso del teatro in Germania?

«Per i tedeschi il teatro fa parte della vita quotidiana. Il teatro non è né mio come regista, né del compositore, né tuo, né di nessuno. Il teatro è pubblico perché è del pubblico che lo va a vedere. Nell’atto di andare in sala, il pubblico completa l’atto del fare teatro. Il teatro è centrale nella sua città ed è questo che più di tutto sento dovremo prendere in Italia: la centralità del teatro nel suo territorio, il luogo teatro come casa dove riunire la comunità. In ogni territorio, anche nelle piccolissime città».

Ci saranno ancora regie nel futuro di Gianluca Falaschi?

«La prossima estate tornerò a Martina Franca per i costumi di una produzione scenica di La Creazione di Haydn con la regia di Fabio Ceresa, ma sarò anche impegnato nella regia della serenata L’Angelica di Nicola Porpora. Sono felice perché Martina Franca è sempre stato un territorio di ricerche grazie al percorso dettato dal direttore artistico Alberto Triola, che conosco da anni e apprezzo per la sua apertura a ricercare e assumersi dei rischi. Più in là mi aspettano dei progetti ancora come costumista con Livermore e con la Steier, fra cui una Salome all'Opéra di Parigi nel 2022.»

La data di debutto del tuo spettacolo non si conosce al momento. Per di più la direzione dello Staatstheater di Mainz è stata piuttosto drastica già in ottobre rifiutando il compromesso dello streaming. Deluso?

«Dovrei essere preoccupato che il mio spettacolo si possa vedere. Ma, al contrario, ti confesso che quello che davvero importa non è tanto parlare di ciò che io penso di Adriana Lecouvreur, ma che la gente capisca, che viva delle cose. Non ho accettato questo progetto per ambizione, ma per capire. E capire come parlare con altri linguaggi. Oggi è come essere reduci da una guerra che ha chiuso i nostri teatri e quello che è importante per lo Staatstheater e per me è che, quando sarà di nuovo possibile, sarà importante per tutti noi che gli spettatori tornino per restituirci con il loro pensiero l’idea di quello per cui abbiamo lavorato».

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