Die Schachtel, la meraviglia della sperimentazione italiana

Intervista con i fondatori dell'etichetta milanese: dallo Studio di Fonologia della Rai al Gruppo d'Improvvisazione Nuova Consonanza, la storia dell'avanguardia italiana

Die Schachtel: Marino Zuccheri e Luigi Nono
Marino Zuccheri e Luigi Nono allo Studio di Fonologia della Rai
Articolo
classica

Sono ormai 15 anni che il nome Die Schachtel è, per gli appassionati di musica elettronica, concreta e di sound-art, sinonimo di meraviglia e qualità.

Il nome dell’etichetta milanese (la cui traduzione è “scatola”) deriva da quello di un lavoro del compositore Franco Evangelisti e rende perfettamente l’idea di uno spazio creativo in cui il lavoro del musicista e quello dell’editore si fondono.

In questi quindici anni Die Schachtel ha pubblicato una serie ininterrotta di gemme riscoperte e sconosciute, attingendo allo straordinario serbatoio dell’avanguardia italiana tra gli anni Sessanta e Ottanta del Novecento, ma anche testimoniando la vivacità delle nuove generazioni di musicisti sperimentali. Nel catalogo di Die Schachtel trovano infatti posto – rigorosamente in edizione limitata di eccellente accuratezza – documenti storici di autori quali Piero Grossi, Enore Zaffiri, Alvin Curran, Mario Bertoncini, Teresa Rampazzi, il Gruppo d’Improvvisazione Nuova Consonanza, Aldo Clementi, Domenico Guaccero e molti altri, accanto a lavori recenti di Andrea Belfi, Nicola Ratti, Claudio Rocchetti, Alessandro Bosetti, Francesco Giomi e altri…

Una ricognizione di grande profondità, che mette in comunicazione la storia recente, a volte sommersa, della sperimentazione sonora italiana (e non solo) con le urgenze del presente.

Per raccontare questo e molto altro, abbiamo fatto una lunga – ma ne vale la pena, fidatevi – chiacchierata con i due fondatori di Die Schachtel, Bruno Stucchi e Fabio Carboni, anime indipendenti e originalissime di questa avventura discografica e culturale tra le più significative degli ultimi anni.

Incomincerei la nostra conversazione partendo dal recente progetto di documentazione del lavoro dello Studio di Fonologia RAI e di Marino Zuccheri.   

«I nostri progetti non sono quasi mai semplici, anzi talvolta sono ambiziosi al punto da diventare un headache, come si dice in inglese. Possono essere questioni di diritti, di testi o foto, documentazione che vogliamo aggiungere e che ci viene in mente all’ultimo minuto, o talvolta semplicemente la complessità produttiva della confezione. Non ci accontentiamo di "pubblicare" o "ripubblicare" un’opera, ma vogliamo che ogni edizione sia un'esperienza di viaggio e di (ri)scoperta, la più completa possibile. Questo è il motivo per cui talvolta siamo in ritardo sui tempi che ci siamo prefissati, e – ahinoi – è il caso sia del progetto di Zuccheri che quello di Nono».

«La scelta di non riprodurre la grafica originale, ma di dare una veste grafica nuova è dichiarazione di una volontà di rivitalizzazione, anzi è fatta anche per evitare lo sguardo nostalgico sul disco, e piuttosto focalizzare l’attenzione sulla musica». 

«Nel primo caso (Marino Zuccheri and Friends – Die Schachtel DS35), abbiamo preso le mosse da una serie di incontri, convegni, concerti ed una mostra sulla figura di Marino Zuccheri, il “tecnico del suono” dello Studio di Fonologia di Milano della RAI nei suoi anni d’oro, organizzato nel 2017 da Maddalena Novati di NoMus in collaborazione con il Museo del Novecento di Milano. Zuccheri era in realtà molto di più di un semplice “tecnico”: era l’anima della sperimentazione che avveniva in quel luogo, e dalle sue mani sono nati, con la sua attiva collaborazione e in alcuni casi partecipazione, alcuni dei capolavori della musica elettronica di quegli anni. I Friends di Marino sono stati infatti tutti i maggiori compositori del secolo scorso: Berio, Maderna, Nono, Castiglioni, Donatoni, Manzoni, Negri, Gaslini, Gentilucci, Paccagnini, Togni, tanto per citarne alcuni fra gli italiani e Cage, Stockhausen, Pousseur fra gli stranieri».

«Nell’edizione, composta da un libro di ben oltre un centinaio di pagine (in italiano e in inglese – due edizioni differenti) sono state inserite anche molte opere grafiche di Marino Zuccheri per raccontare la sua personalità poliedrica: era infatti anche un artista visivo e un “designer” di spiccata sensibilità, e sue sono molte copertine dei programmi del Prix Italia della RAI. Il libro presenta anche una straordinaria selezione di foto, molte inedite, di Zuccheri al lavoro con i suoi friends. Inoltre ci sono molti schemi di sonorizzazione “live” per opere di Nono, Stockhausen, oltre a schemi costruttivi delle apparecchiature di Fonologia ad opera di Lietti».

Zuccheri, manifesto del Prix Italia
Manifesto del XII Prix Italia

«Forse la vera “ciliegina sulla torta” sono i due schemi delle apparecchiature disegnati di suo pugno da John Cage nel suo soggiorno a Milano nel 1959, quando vinse cinque milioni di lire partecipando in TV al programma  Lascia o Raddoppia di Mike Bongiorno (!) e rispondendo a domande sui funghi. C’è persino una fantastica foto di un Cage teso e concentrato nella cabina di risposta del quiz! Insomma, una vera miniera d’oro di informazioni, riferimenti visivi e anche aneddoti, molti inediti».

Cage a Lascia o Raddoppia
John Cage a Lascia o Raddoppia

«Nel cd (allegato a entrambe le edizioni) sono riprodotte le uniche due composizioni elettroniche di Marino Zuccheri: Plastico (1961 – un altro inedito) realizzato in collaborazione con Lorenzo Dall’Oglio, qui pubblicato in prima assoluta, e Parete ’67, un potente pezzo di elettronica espressionista, un bordone proto-industriale, composto da Marino per la sonorizzazione dell’installazione Percorso/Plurimo/Luce di Emilio Vedova nel padiglione Italia dell’Expo’67 di Montreal. Questo brano è presente anche sul disco in vinile, di fatto la ristampa di quello che pubblicammo nel lontano 2006. Anche questa storia (quella di Expo 67 e di Vedova) viene ampiamente raccontata e documentata nel libro, con delle splendide foto dell’installazione di Vedova e la spiegazione di come è stata realizzata».

Zuccheri, Berio e Cavallarin
Luciano Berio, Marino Zuccheri e Lucio Cavallarin al filtro d'ottava dello Studio di Fonologia della Rai

So che sta anche per essere rieditata l’accoppiata Un volto, e del mare e Non consumiamo Marx di Luigi Nono, come avete lavorato a questa riscoperta?

«Nel caso di Nono, anche questo leggermente in ritardo sui tempi previsti a causa di una inaspettata difficoltà a reperire la versione originale della registrazione (ne esistono infatti almeno due), si tratta della prima ristampa in assoluto di entrambe le opere, originariamente accoppiate su un disco de I Dischi del Sole del 1968 ripubblicato nello stesso anno da Philips in Francia. La data non è casuale: Non consumiamo Marx è infatti un brano “concreto” realizzato con le registrazioni delle manifestazioni del maggio francese (il titolo viene da uno degli slogan dipinti sui muri di Parigi dagli studenti in quel fiammeggiante mese di proteste). Per rendere la cosa ancora più complessa, ma certamente più interessante e completa, ci piacerebbe accostare alla pubblicazione un libro al quale sto lavorando, un catalogo dedicato ai manifesti e agli slogan del maggio francese, con una straordinaria selezione di immagini. Da un punto di vista musicale, il disco verrà pubblicato con l’egida di Dischi Ricordi, e la “benedizione” di Veniero Rizzardi, in accordo con l’Archivio Nono. Ma al di la di questo si tratta davvero di un’opera di grande potenza espressiva, le cui istanze ideali restano assolutamente attuali».

Spostandoci  sul Gruppo d’Improvvisazione Nuova Consonanza, altro collettivo cui Die Schachtel ha dedicato giustamente una profonda attenzione, in arrivo c’è una pubblicazione dedicata a Roland Kayn, compositore che forse è stato un po’ dimenticato rispetto ai suoi colleghi. Di che si tratta?

«Abbiamo chiuso un accordo con Suvini Zerboni per ripubblicare tutta l’opera storica di Kayn, davvero uno dei compositori forse meno conosciuti della musica elettronica, anzi cibernetica, anche perché i suoi dischi solisti (opere massive di più ore in forma di cofanetti multipli) furono pubblicati da una piccola etichetta tedesca (Colosseum) non specializzata e non ebbero mai una vera e propria distribuzione. Recentemente un cofanetto di 16 cd (A little milky way of sound) ha risvegliato un grande interesse intorno alla sua opera e alla sua figura, e ci è sembrato giusto quindi iniziare… dall’inizio, ovvero da Simultan – Kibernetische Musik 1970-72, lavoro pubblicato nel 1972 e che verrà riproposto come cofanetto triplo (solo in vinile, purtroppo: i diritti per il cd o il download non sono concessi da ESZ), appunto come inizio di una serie che vedrà a seguire la pubblicazione di altri lavori straordinari per visione e complessità: Tektra, Makro...

Roland Kayn
Roland Kayn

«Detto in questo modo Kayn sembra una di quelle cariatidi serialiste (di fatto certo non è un compositore melodico), ma ci basti ricordare che nel libro The Crack in the Cosmic Egg di Steve e Alan Freeman, Kayn veniva descritto come “the cosmic composer of the avant-garde” a causa dei suoi “lavori di lunga durata che fluttuano e vibrano, ben oltre i confini di Stockhausen, ma anzi con la vastità e la qualità 'spaziale' di Klaus Schulze”. Visto il riferimento bibliografico prenderei la cosa con le pinze: non bisogna intendere questo come un complimento, e altrettanto chiaramente non aspettarsi melodie “pompier”, ritmi “proto-techno” e tantomeno tonalità, ma la qualità della sua opera la rende accessibile e – perché no –  godibile ben oltre i confini dell’avanguardia in senso storico e stretto».

Particolarmente interessante è stata, lo scorso anno, la riproposizione di un lavoro di Bruce Nauman come Soundtrack From First Violin Film, in un’edizione d’arte, firmata dallo stesso Nauman, davvero preziosa. E costosa (750 euro). Ne sono state comprate?

«Il disco è stato comprato da collezionisti, sia di vinile che di sound art e di arte contemporanea, e – cosa che ci fa molto piacere – anche da importanti istituzioni (Philadelphia Museum of Arts, Stedelijk Museet di Amsterdam, British Library e altri) per entrare a fare parte delle loro collezioni. Una bella soddisfazione, anche se in Italia nessun centro o museo di arte contemporanea sembrava essere interessato, temo per una ragione puramente economica – non voglio certo pensare per disinteresse o peggio ignoranza. Visto il prezzo, diciamo che ne sono state comprate sufficienti copie per fare l’artista felice (ovviamente ha una royalty equiparabile al suo livello di notorietà, e poi è “ammericano”) e anche noi: di fatto ci ha aiutato a finanziare il cofanetto di Nuova Consonanza, e parzialmente anche le edizioni a venire».

«A parte gli aspetti biecamente economici, la storia è davvero interessante. Qui va dato credito a Fabio [Carboni] che è un vero “cane da tartufi” quando si tratta di scovare e reperire fisicamente opere sonore sconosciute, dimenticate e oscure. Nel caso specifico si trattava di un disco LP pubblicato originariamente nel 1969 in sole 100 copie da una casa editrice indipendente (Tanglewood Press – che di fatto è Rosa Esman, un’appassionata e collezionista ormai novantenne) e che faceva parte di un edizione composta da vari multipli di artisti differenti. Fabio è riuscito – non è dato sapere come – a procurarsene una copia perfetta dalla quale abbiamo tratto la traccia audio, rimasterizzata dal solito e ottimo Giuseppe Ielasi, che di fatto è la parte audio di varie performance eseguite da Bruce Nauman con il violino (che non sapeva suonare, ma sennò che arte concettuale sarebbe?)».

«Abbiamo chiesto a Jay Sanders, curatore del Whitney Museum of American Art, di scrivere le note, in pieno accordo con il Bruce Nauman Studio. Da un punto di vista “visivo” il disco è la riproduzione esatta dell’oggetto del 1969, ogni copia numerata e firmata dall’artista, mentre la custodia in plexiglass giallo fluorescente con le scritte incise al laser è una nostra invenzione, ovviamente concordata con Nauman, che aveva espresso il desiderio che ci fosse del giallo (e infatti l’edizione “regolare” pubblicata come Blume è tutta gialla, dalla cover al vinile stesso). Nel caso ve lo chiedeste ci sono ancora alcune copie disponibili… tanto per mandare il vostro conto in giallo!».

Forse però l’uscita che più ha scatenato gli ardori degli appassionati è stata la special edition di Dialoghi Del Presente di Luciano Cilio con BTF. L’avevate già pubblicato con il titolo Dell’universo assente, è un lavoro importante e bellissimo, ma la riproposizione fedelissima dell’originale sembra avere incontrato il favore dei collezionisti e non solo. Cosa ci raccontate a questo proposito?

«Per non smentire quanto scritto sopra (e poi sotto), diciamo che la “nostra” ristampa è Dell’universo assente, il disco che uscì prima in cd nel 2007 e poi come doppio lp tre anni fa circa, a cura di Girolamo de Simone. Non solo presentava per la prima volta dopo anni di oblìo il disco originale completo tratto dagli impeccabili master di Girolamo, ma anche le trascrizioni completate e interpretate, e che quindi dava un contesto più ampio e chiaro dell’opera di Cilio, di cui i 40 minuti scarsi di Dialoghi non possono che essere una selezione che fu dettata da bisogni di formato».

«Questo è il modo in cui ci piace fare le cose. Per analogia, pensiamo al caso di Lino Capra Vaccina e del suo strepitoso Antico Adagio: in quel caso la ristampa è stata “spalmata” su tre dischi, dal momento che la quantità e qualità dei brani appartenenti a quelle session (il cui ripristino ha richiesto cura e lavoro, anche di edit – fatto con l’aiuto di Giuseppe Ielasi e naturalmente la supervisione di Lino) era tale da non poter pensare di limitare la pubblicazione alla sola ristampa del disco singolo, per quanto sublime».

«Consideriamo la riproposta della musica sperimentale di valore che fu pubblicata e poco distribuita, o addirittura mai uscita, un’opera meritoria».

«Tornando a Cilio, non intendiamo chiaramente che Dialoghi del Presente da solo non sia un capolavoro, anzi. Ma nel caso specifico, è stata un’operazione fatta con BTF che entrava appunto nel quadro della “ristampa anastatica”, e di una sorta di feticismo verso l’oggetto disco più che per l’opera. In ogni caso, dal momento che quelle composizioni rappresentano senza dubbio una delle vette della produzione musicale italiana di sempre (secondo noi trascendono ampiamente generi, scuole, periodi) va bene che sia diffusa il più possibile, in qualunque modo».

La domanda precedente ci spinge a ragionare un po’ più profondamente sul fenomeno delle ristampe. Che riflessioni potete condividere dal vostro osservatorio speciale?

«Secondo noi ci sono due modi di vedere il fenomeno delle ristampe, anzi di affrontare il problema da un punto di vista “editoriale”. Mi sembra giusto premettere che consideriamo la riproposta della musica sperimentale di valore che fu pubblicata e poco distribuita, o addirittura mai uscita, un’opera meritoria. Si tratta spesso di opere che non ebbero davvero alcuna visibilità o apprezzamento perché non entravano nei canoni di una industria discografica che già dai tardi anni Sessanta (e soprattutto dai Settanta) era diventata avida e concentrata solo sul profitto. Opere o artisti che apparivano “difficili” o poco categorizzabili (nel caso del “pop”), o che non appartenevano a qualche conventicola accademica peri-darmstadiana/seriale (nel caso della musica più “colta”) non avevano alcuna possibilità di vedere la luce o essere distribuite e promosse in modo adeguato. Del resto è sempre stato così – forse in tutte le arti – per le opere o gli artisti più inclassificabili, no?».

Direi che avete ragione da vendere!

«Tornando alle ristampe, temo che del fenomeno possiamo probabilmente essere additati tra i principali responsabili, essendo stati davvero tra i primi (ormai sono quindici anni di vita) a farlo, e sospetto che altri abbiano preso ispirazione da noi, cosa che ci rende orgogliosi e felici. Detto questo, è vero che talvolta si ha l’impressione che si stia “grattando il fondo del barile”. Sicuramente questa situazione sta producendo una saturazione del mercato che non fa tanto bene a nessuno: oggi escono migliaia di titoli al mese, e distinguere cosa davvero vale – al netto del collezionismo – da quello che invece può anche rimanere nell’oblio o nel dormiveglia, diventa davvero difficile».

«Tutto questo va a scapito della musica più attuale e della produzione contemporanea, che non si sente abbastanza supportata o considerata. E così in qualche modo il processo descritto sopra si ripete, perché spesso il pubblico (e bisognerebbe capire anche di chi si parla) preferisce opere o nomi più noti (o iscritti in generi e momenti già “storicizzati”), piuttosto che prendersi il rischio di qualcosa che non conosce».

«In questo senso giro la provocazione a te, riguardo alla scomparsa della stampa specializzata, o meglio alla sua sostituzione con un’informazione che spesso è interessata (quando non superficiale), che certo non aiuta: ogni uscita è fantastica, gigantesca, paradigmatica, imperdibile. Ancora oggi si ha bisogno, forse più di prima, di qualcuno che aiuti a orientarsi, e in questo senso voci come la tua sono importanti. La nostra “strategia” (se così si può dire) per fare sì che la nostra produzione sia vista come necessaria, importante e urgente (e non certo per ragioni biecamente economiche) è la scelta, la profondità e la complessità, tutti termini che sembrano elefanti nella cristalleria (falsa) nella quale tutti ormai viviamo, dominata dalla fretta, dalla superficialità, dall’eccesso di offerta, dal poco – anzi zero – tempo per capire davvero».

Il vostro richiamo alla “scomparsa” della stampa specializzata è pertinente, anche se temo che non finiremmo più questa nostra chiacchierata…

«La scelta è ovviamente relativa ai titoli, e al periodo. Con forse una o due eccezioni non vorremmo spingerci oltre i primi anni Ottanta, perché riteniamo che riguardo al discorso che stiamo facendo lì ci sia ben poco: non è una posizione snobistica, ma solo una sorta di questione di coerenza di proposta. E poi, c’è ancora parecchio da capire... La profondità e la complessità si riflettono nel modo in cui costruiamo le nostre “riedizioni”: con pochissime eccezioni non sono di fatto delle ristampe, ma delle stampe “aumentate” di opere dimenticate: vedi come già detto il caso di Lino Capra Vaccina e dei tre dischi di nastri recuperati del suo archivio; di Luciano Cilio con l’essenziale trascrizione da parte di Girolamo de Simone delle partiture parzialmente o per nulla registrate».

(E adesso vediamo se con l’amico Girolamo si riesce a fare qualcosa con la sua riscoperta dei nastri di prove di Luciano…)

«Ma potrei citare i lavori di Francesco Messina (Prati bagnati del Monte Analogo), l’Under The Fig Tree di Alvin Curran (novità in arrivo, ma con calma), e molto altro… Come già detto, inoltre, le nostre uscite hanno sempre un corredo informativo e iconografico che non è di semplice realizzazione, anzi che talvolta diventa una vera e propria zappata sui piedi; ma che certamente da un valore e una profondità diversa alla semplice “ristampa” anastatica».

«Vale per tutti il cofanetto di Nuova Consonanza, dove abbiamo incluso un saggio scritto apposta da Valentina Bertolani per aiutare a capire meglio le modalità “compositive” del gruppo, una selezione di foto “strappate” all’archivio della Biennale di Venezia, una cronologia e una selezione di recensioni coeve raccolta e amorevolmente curata da Maurizio Farina… e la musica, naturalmente, ovvero il recupero, restauro e mastering (sempre sia lodato Giuseppe!) di tutte le improvvisazioni inedite. Oltre a questo, la scelta (nel caso delle ristampe) di non riprodurre la grafica originale, ma di dare una veste grafica nuova (coerente sia all’opera che allo stile dell’etichetta) è dichiarazione di una volontà di rivitalizzazione, anzi è fatta anche per evitare lo sguardo nostalgico sul disco, e piuttosto focalizzare l’attenzione sulla musica (“Buttiamo via i dischi e ricominciamo ad ascoltare la musica” diceva John Cage)».

Come vedete lo stato di salute della sperimentazione elettronica italiana più recente, cui l’etichetta ha dedicato ampio spazio? Cosa vi interessa per Die Schachtel e cosa invece non vi incuriosisce di quello che si ascolta in giro?

«Che domanda difficile e insidiosa! Il recente è per definizione recentissimo, e devo dire che abbiamo il privilegio di ascoltare molte cose che ci vengono mandate come demo che sono interessantissime. Purtroppo non riusciamo a pubblicare tutto quello che ci piace e che vorremmo: il nostro tempo è davvero risicatissimo… Suona come la solita scusa, ma dannazione è vero. In ogni caso la “scena” mi sembra vivissima, con esperienze di livello assolutamente internazionale (non voglio fare nomi di proposito), sia a livello di artisti che di festival, collettivi, e attività in ambito Sound Art».

«Va trovata una nuova forma di produzione/distribuzione musicale che forse bypassi il vecchio schema del supporto a firma dell’artista superstar e della predominanza del Nome Eroico intorno al quale gira tutto».

«Non a caso The Wire di settembre dello scorso anno ha dedicato alla sperimentazione italiana (Milan-based) un articolo intero. Non stiamo parlando del Vangelo (anzi), ma è un segno abbastanza chiaro di una vivacità e di un livello qualitativo che è riuscito ad interessare anche loro, i più snob degli snob, che se non sei inglese del quartiere sperduto di Manchester manco ti si filano, se non come una curiosità antropologica. Andatevi a vedere quante recensioni di artisti italiani sono state fatte dagli ottimi albionici negli ultimi vent'anni. Non hanno mai nemmeno recensito Cilio!».

«Piccole polemiche a parte, tutto questo ha in fondo poco a che fare con i dischi. Va trovata una nuova forma di produzione/distribuzione musicale che forse bypassi il vecchio schema del supporto a firma dell’artista superstar e della predominanza del Nome Eroico intorno al quale gira tutto, stile talent show. Forse nuove modalità di proposta collettiva “diffusa”, tipo “concept” che mettano insieme artisti del suono e dell’immagine, informazione, produzione, distribuzione/shop…(in fondo una casa editrice quello è sempre stato) ma utilizzando al meglio le potenzialità del mezzo digitale. Ci stiamo pensando… e abbiamo già un gran mal di testa».

Dato che avete tirato in ballo la cosa, vogliamo parlare di supporti? La popolarità del vinile nei circuiti (sempre irrisori rispetto agli anni d’oro) degli appassionati sembra avere steso definitivamente il cd. Voi avete dalla vostra il fatto che ogni uscita ha una accuratezza e una confezione artsy che rende meno “sfigato” il povero cd. Ma che ne pensate? Volessimo azzardare una previsione a cinque, dieci anni?

«La verità è che anche noi abbiamo sospeso la produzione di cd da un annetto a questa parte. Il motivo è semplice, le implicazioni complesse. Il fatto semplice è che i distributori non ti prendono più il cd… punto. Anche se di fatto alcune opere non possono essere riprodotte su vinile, non vogliamo nemmeno trovarci nella situazione di stampare 500 o 1000 cd e poi mandare al macero il 95% (anche di più), come ci è successo recentemente. Sembra un’esagerazione? Non lo è».

«La verità è che anche noi abbiamo sospeso la produzione di cd da un annetto a questa parte. Il motivo è semplice, le implicazioni complesse. Non vogliamo nemmeno trovarci nella situazione di stampare 500 o 1000 cd e poi mandare al macero il 95%».

«La verità però è che per un “cliente” che compra il cd (e magari lo stesso che lo “rippa”) ce ne sono altri 250 o 2500 che lo scaricano gratis… Quindi tutta la polemica sulle etichette che stampano solo vinile ad alto costo per guadagnare è una minchiata solenne, se non una questione di malafede. Se tutti si comprassero una copia del cd magari si potrebbe abbassare ulteriormente il costo, aumentare le tirature. Pagare tutti di meno, ed evitare che la musica di fatto non abbia una diffusione reale. Perché per quanto appassionati di vinile, siamo noi i primi ad essere coscienti del fatto che 500 o addirittura 300 copie stampate di un disco lp (che tanto poi sono sempre meno) non rappresentano certo un grande servizio per la diffusione della musica, anche se sappiamo che queste copie vanno nelle mani di persone che (tipo Enrico Bettinello) che non solo lo sanno apprezzare davvero, ma che funzionano da “evangelisti” (perché ne parlano, ne scrivono, postano, “twittano” e così via)».

«Per quanto appassionati di vinile, siamo noi i primi a essere coscienti del fatto che 500 o addirittura 300 copie stampate di un disco lp non rappresentano certo un grande servizio per la diffusione della musica».

«Insomma degli “opinion leaders” che sono essenziali per allargare la conoscenza, dare la possibilità di ristampare e di conseguenza allargare la diffusione. Anche perché oggi stampare un vinile (almeno con i nostri standard, e in confronto al cd) non è una cosa proprio economica, anzi, e nessuno vuole prendersi il rischio di spendere molto e ritrovarsi pile e pile di invenduti (direi “indistribuiti”) in magazzino, sul quale ci paghi pure le tasse come voce attiva».

Sono sempre molto curioso dei rapporti tra la sperimentazione che avveniva in Italia e quella che avveniva in altre parti del mondo. Ci sono progetti come Prima Materia che nascono negli States da musicisti italiani, musicisti stranieri che a Roma contribuiscono alla nascita di esperienze come MEV, eccetera. Come la vedete?

«Noi la vediamo come uno degli aspetti ancora oggi meno capiti del panorama della musica sperimentale italiana. Noi italiani ci pensiamo sia ottusi esterofili che trogloditi retrivi chiusi dentro stilemi nazionali. È totalmente falso. Almeno per quanto riguarda una certa stagione creativa: oggi è molto diverso, ed è forse tema di un’altra conversazione. Dall’inizio dell’esperienza “moderna” del suono, gli italiani sono sempre stati estremamente aperti a ogni esperienza straniera, ma al contempo sono stati dei grandi iniziatori, dei precursori, con un carattere proprio e definito: basta pensare ai futuristi che (al netto di simpatie politiche quanto meno disgraziate) inventano il "rumore" e il primo concerto lo fanno a Londra: altro che chiusura culturale! (Il fatto è che non ebbero poi un grande riscontro, e poi trogloditi siamo noi)».

«Se a Torino o Firenze le istituzioni avessero finanziato gli esperimenti di Zaffiri e Grossi? Quante opere in più, quanti allievi (non Allevi) in più, quanta cultura in più avremmo?».

«Oppure la scena dell’avanguardia romana degli anni Sessanta/Settanta, che sembra un’estensione “freak” della scena creativa americana (Curran, Rzewski, Lacy, MEV) ma che, proprio perché in Italia, riesce a essere ancora più radicale e profonda perché attivamente partecipata da musicisti italiani. Basta leggere quello che scrive Alvin Curran in Live in Roma per capire quello di cui sto parlando. Devo dire che Valerio Mattioli ha raccontato in modo molto godibile tutto questo nel suo Superonda, a mio parere uno dei libri migliori per capire il “paradosso” italiano: tanto “global” quanto “local”, dimostrazione di un’apertura mentale e creativa molto, ma molto, più ampia di quanto masochisticamente ci piace raccontare e pensare, ma al contempo viziata dai nostri soliti difetti». 

Cosa, secondo voi, ha penalizzato la produzione creativa italiana di quegli anni?

«Sicuramente l’assenza di un “sistema”, sia economico che politico (sai che novità): da un lato non avevamo istituzioni così lungimiranti come INA GRM, IRCAM che incoraggiavano, sostenevano e promuovevano la produzione nazionale (leggi: la RAI che al massimo faceva Fonologia – e saremo sempre eternamente grati alle capacità politiche di Berio e Maderna altrimenti manco quella avremmo – e poi ha chiuso tutto, archivi compresi per anni e anni). La conseguenza è stata che molti musicisti erano costretti a pubblicare in modo privato (Curran, Prima Materia, Scelsi, Insiememusicadiversa, per dirne alcuni) e quindi non potevano accedere ad una reale distribuzione e promozione culturale. Altri addirittura erano proprio negletti (Grossi, Rampazzi, Zaffiri, Guaccero). Non è solo una questione di pubblicare: se sei un’artista che ha fondi o sostegno, o un canale aperto per concerti, produzioni o festival (tutto quello che qui è mancato a parte qualche eroico e privato caso), puoi dedicarti a produrre più opere, a sperimentare di più e meglio, e magari accedere a tecnologie o modalità che altrimenti ti sono precluse».

«Cosa avrebbe potuto fare Rampazzi, costretta a usare il computer dell’amministrazione alla fine dell’orario di lavoro per i suoi esperimenti, se avesse potuto avere fondi da uno Stato, in particolare nella figura dei suoi rappresentanti, che allora come oggi è rozzo e ignorante? (Penso ad Allevi che viene chiamato come sommo rappresentante della musica italiana per suonare alla Camera dei Deputati, forse il coacervo di grettezza e mediocrità intellettuale più spaventoso che esista in Italia, altro che i quartieri disagiati del Sud o del profondo Nord). O se a Torino o Firenze le istituzioni (attraverso fondi statali, naturalmente) avessero finanziato gli esperimenti di Zaffiri e Grossi? Quante opere in più, quanti allievi (non Allevi) in più, quanta cultura in più avremmo? Sia chiaro, questi artisti, tra cui Evangelisti, Bertoncini, Macchi, Guaccero, Gelmetti, e molti altri, sono dei veri e propri eroi italiani, di levatura assolutamente internazionale, come spesso all’estero viene riconosciuto – per quanto questo possa valere».

Quindi?

«Insomma, come al solito, viva gli italiani e abbasso la loro classe politica. Se quest’ultima sembra aver sempre richiamato i peggiori tra noi (con qualche eccezione, vedi l’attuale giunta milanese), mi piace pensare che la musica abbia attratto i migliori. Beh, forse con qualche eccezione anche qui. Di sicuro i biechi e avidi discografici milanesi…».

Studio Fonologia Rai
In piedi da sinistra: Luciano Berio, Marino Zuccheri, Bruno Maderna. Seduti: Alfredo Lietti, Nino Castelnuovo.

 

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