Con “Macbeth” in viaggio nel territorio del rimosso

Formazione da cineasta, lunga esperienza nella prosa, Jacopo Gassman ci parla del suo debutto bolognese alla regia del Macbeth di Verdi

Macbeth (foto di Andrea Ranzi)
Macbeth (foto di Andrea Ranzi)
Articolo
classica

Cognome importante, Jacopo Gassman è il più giovane dei figli del grande Vittorio ma ha già alle spalle un solido percorso fatto di studi in università importanti, di sperimentazioni cinematografiche e dal 2005 di numerose regie di prosa che denunciano una curiosità intellettuale e un’inclinazione a scelte drammaturgiche poco scontate per la realtà italiana ma non solo. Mentre nei teatri italiani sta girando il suo ultimo spettacolo, The City del britannico Martin Crimp, anche librettista d’elezione delle incursioni operistiche di George Benjamin, Jacopo Gassman sta ultimando le prove del Macbeth di Verdi, il suo debutto come regista lirico, in programma al Comunale Nouveau di Bologna il prossimo 12 aprile con repliche fino al 18 aprile. Accanto a un regista debuttante, un direttore d’orchestra rodato come Daniel Oren che guiderà un cast con protagonisti Roman Burdenko ed Ekaterina Semenchuk, ai quali si alterneranno George Gagnidze e Daniela Schillaci, accanto a Antonio Poli (Macduff) e Riccardo Fassi (Banco). Il nuovo allestimento avrà le scene di Gregorio Zurla, i costumi di Gianluca Sbicca, le luci di Gianni Staropoli, i video di Marco Grassivaro e i movimenti scenici preparati da Marco Angelilli.

A Bologna le prove stanno entrando nel pieno, quando abbiamo incontrato Jacopo Gassman per parlare di questo suo imminente debutto.

Jacopo Gassman durante le prove di Macbeth (foto di Michele Lapini)
Jacopo Gassman durante le prove di Macbeth (foto di Michele Lapini)

Prima gli studi di regia cinematografica, poi molte regie teatrali (dal 2005 e con riconoscimenti importanti) e adesso l’approdo alla regia lirica: un esito inevitabile? Lo hai cercato?

«L'occasione è arrivata un po' fortuitamente, ma ne sono felice. Mi hanno chiamato dal Teatro Comunale di Bologna e la cosa mi ha fatto molto piacere, perché anni fa Luca Ronconi, che ho avuto la fortuna di conoscere negli ultimi anni e che provava simpatia e stima per il mio lavoro, mi incoraggiò a tentare la regia d’opera per il modo in cui vedeva le mie regie di prosa. La pulce nell'orecchio me l'ha messa lui una decina di anni fa».

Hai preso qualcosa dal Ronconi regista e regista lirico in particolare?

«Ronconi pensava alle sue regie anche attraverso lo spazio. Lo spazio è pensiero. E nell'opera, per il calibro di tutte le componenti che ne fanno parte, lo spazio diventa chiaramente decisivo».

Parlando di spazio, quello del Comunale Nouveau è certamente singolare e non facile. Come ti sei trovato?

«Il Comunale Nouveau è certamente uno spazio particolare, non necessariamente teatrale. Soprattutto da regista di prosa mi affascina molto questa “scatola”, questo strano formato cinemascope, tutto sviluppato in larghezza. Abitare quello spazio insolito è stato sicuramente una fonte di ispirazione. Abbiamo sviluppato diversi livelli di sipari in profondità, sipari neri e poi, a proposito di Ronconi, vari carri che entrano in scena portando visioni e proiezioni fantasmatiche sul grande LED-Wall che fa da fondale».

È la tua prima regia, ma non sei comunque digiuno di opera, vero?

«No. Personalmente ho sempre amato l’opera. Ne sono sempre stato un grande amante e uno spettatore».

Veniamo al tuo imminente debutto a Bologna con Macbeth: un titolo sul quale speravi di lavorare?

«Non l’ho scelto io ma chiaramente sono molto felice del fatto che, tra tantissime opere possibili, il Macbeth è un ponte un po’ più morbido per che viene dalla prosa come me, perché alla base c'è un autore come Shakespeare».

Macbeth (foto di Andrea Ranzi)
Macbeth (foto di Andrea Ranzi)

Come ti sei preparato ad affrontare questo lavoro?

«Per studiare questo Verdi inevitabilmente non si può non tornare a Shakespeare e a quello che è un mondo a me noto e sul quale mi sono formato. Per quanto l’opera di Verdi sia diversa, necessariamente sono partito dal Macbeth shakespeariano».

Macbeth è una montagna altissima da scalare. Da dove è iniziato il tuo viaggio?

«È vero: il Macbeth si può affrontare da tante angolature. A me personalmente, tornando a Shakespeare, ha impressionato una frase che pronuncia Macduff quando entra nelle stanze di Duncan e vede il cadavere del re: “Orrore! Orrore! Preparatevi a una nuova Gorgone”. La Gorgone è ciò che, per antonomasia, non possiamo guardare negli occhi se non restandone pietrificati. E questa frase di Macduff in Shakespeare mi ha aperto uno squarcio che fa un po' da viatico a questo viaggio anche registico che abbiamo fatto in questo lavoro».

Dove ti ha portato quel viaggio?

«In un inabissamento nel grande territorio del rimosso. Macbeth è il viaggio di una coppia o di due individui vittime di una psicopatologia complementare. Non a caso poi sviluppano due disturbi complementari del sonno: lui diventa un insonne e lei una sonnambula. In realtà è davvero un viaggio perturbante come ciò che ci è stranamente familiare per quanto sconosciuto: per questo parlo di rimosso. È un viaggio alle radici del male, ma è un male che inevitabilmente è dentro tutti noi».

Macbeth (foto di Andrea Ranzi)
Macbeth (foto di Andrea Ranzi)

Hai messo Macbeth e Lady sul lettino dello psicanalista: cosa hai scoperto?

«La critica da quattrocento anni si interroga su quale sia il trauma che scatena il comportamento criminale di questa coppia. Forse un figlio morto o una genitorialità mancata. In Macbeth c'è certamente il tema della paternità mancata, molto chiaro in Shakespeare ma anche in Verdi. Quella di Macbeth è anche la storia di un uomo impossibilitato a essere padre, che sublima questa sua impotenza andando a uccidere, a sostituirsi a tutti i padri: prima Duncan, il padre della patria, al quale taglia la testa in modo simbolico e non solo, quindi Banquo, che non è solo il suo migliore amico ma è anche un padre, di cui tenta di uccidere la dinastia. Poi vuole uccidere Macduff, ma riesce solo a eliminare la sua famiglia... Nell’opera di Verdi "Pietà, rispetto, amore" è forse l'unico momento, sublime, bellissimo, in cui vediamo una piccola fessura di fragilità in quest'uomo. Nel mio spettacolo Macbeth avrà improvvisamente un’allucinazione con bimbi che lo circondano in una sorta di girotondo: i bimbi che non ha potuto avere, i bimbi che ha ucciso, il bambino che lui stesso non è mai riuscito ad essere... chissà…»

Macbeth (foto di Andrea Ranzi)
Macbeth (foto di Andrea Ranzi)

Insomma, il tuo non sarà uno spettacolo classico, “come da libretto”.

«Non mi sarei mai sognato di fare un Macbeth con le spade o con le corazze. La battaglia finale sarà una battaglia di sguardi: i due eserciti si guarderanno a lungo. Il mio sarà uno spettacolo fatto di astrazioni, di allusioni. Giocherà moltissimo con il tema della luce e del buio: Macbeth è una tragedia, un’opera chiaroscurale. Non a caso Raphael Holinshed, dalle cui Chronicles Shakespeare stesso si ispirava, scrisse di King Duffe, un modello per Macbeth nella tragedia shakespeariana. Narra la leggenda che, quando King Duffe venne ucciso, calò sul regno un’eclissi di sole lunga sei mesi. Questa storia mi ha molto incuriosito e ispirato uno spettacolo che sarà un progressivo andare dalla luce verso il buio. Un'eclissi di sole che diventa anche un’eclissi di senso. Già nell'ouverture vedremo Macbeth in silhouette che guarda noi, prima che noi guardiamo lo spettacolo».

Un gioco di specchi…

«Un aspetto affascinante del Macbeth, sia quello shakespeariano che quello verdiano, è la sensazione che, mentre lo leggo o lo ascolto, sono a mia volta osservato. Macbeth nel guardarlo ti ri-guarda. Quando si alza il sipario sulle streghe, quelle streghe stavano già lì a guardare noi, da sempre. Parto da questo perché evidentemente nella mia regia ho scelto di sondare soprattutto un aspetto di carattere psicologico o psicanalitico. Mi interessa soprattutto il viaggio della psiche di quest'uomo e di questa donna. Prima parlavo della Gorgone perché in realtà la cosa interessante è che questa coppia diabolica in realtà ci accompagna attraverso la sua potenza distruttrice anche attraverso un viaggio visionario. Macbeth è un distruttore ma è anche un visionario».

È un visionario che ha anche ispirato la chiave visiva dello spettacolo?

«Nello spettacolo sviluppiamo dei meta-livelli che rimandano ad altro come in una sorta di viaggio citazionistico. il gioco di allusioni alla storia dell’arte sarà evidente. Ad esempio, la Gorgone evocata dopo il delitto di re Duncan per noi sarà la Medusa di Caravaggio, che apparirà sullo schermo guardando gli spettatori Un altro esempio: nella grande scena del banchetto si presentano i commensali vestiti molto sobriamente in nero con dei guanti bianchi e portano sul loro petto dei vestiti regali, dorati, ma non li indossano. Ho voluto citare la performance Embodying Pasolini con Tilda Swinton e i costumi dei film di Pier Paolo Pasolini. Volevo sottolineare la precarietà dell’incoronazione di Macbeth come precari sono i costumi di cui gli invitati si liberano davanti alla manifestazione della follia del nuovo sovrano. I cento abiti dorati, mai indossati ma portati precariamente sul petto dai commensali, accatastati in una pila che allude alla Venere degli stracci di Michelangelo Pistoletto».

Vedremo un lettino da psicanalista sul palcoscenico?

«Un lettino no, ma la psicanalisi ispira la seconda visita di Macbeth alle streghe: verranno portate in scena due sedie e uno specchio, e le apparizioni saranno piuttosto gli stessi personaggi del mondo di Macbeth: l’elmo rappresenta Macduff, che apparirà in abiti borghesi e di siederà di fronte Macbeth guardandolo fisso negli occhi (come nella performance The artist is present di Marina Abramović, per continuare con il gioco delle citazioni). Poi arriverà un bimbo con una camicia rossa continuando con il gioco di sguardi. Mi sembra più interessante interrogarsi su cosa rappresentano le streghe oggi. Le streghe siamo noi con il nostro rimosso, con ciò che anche a noi di noi è ignoto. Se vogliamo nello spettacolo c’è anche un po’ di neurologia».

Davvero?

«Nel grande LED-Wall sul fondo della scena, quando Macbeth fa visita alle streghe o ogni volta che si allude alla foresta, compaiono degli alberi che sembrano quasi dei gangli nervosi partoriti dalla stessa mente di Macbeth. Gli alberi sviluppano rami e mettono radici sempre più sviluppate quasi come metastasi. La foresta di Birnam finisce per essere un parto della mente di Macbeth e il LED-Wall rimanda al nostro sguardo i suoi contenuti inconsci. Leggendo i vari carteggi di Verdi sul Macbeth, mi ha fatto molto sorridere scoprire che Verdi nella messa in scena voleva impiegare il Fantascope, un dispositivo che permetteva di proiettare immagini su grandi superfici da lastre di vetro. Alla prima a Firenze però il proiettore non funzionò come sperava perché dovevano esserci comunque delle luci accese in sala e non si riuscì a vedere nulla delle immagini prodotte. Attraverso mezzi diversi vendichiamo la volontà di Verdi di utilizzare il Fantascope! (ride

Jacopo Gassman durante le prove di Macbeth (foto di Michele Lapini)
Jacopo Gassman durante le prove di Macbeth (foto di Michele Lapini)

Chi è Macbeth per te?

«Tutti considerano Macbeth come una sorta di guerriero feroce, a differenza di Amleto ad esempio. Per quanto mi riguarda, io lo considero un pensatore. Come emerge chiaramente nei suoi monologhi in Shakespeare, il problema di Macbeth è che condensa i tre tempi – presente, passato e futuro – dentro la sua mente. Prima di andare a compiere i delitti, ce li descrive. Ho in mente la visione del coltello che colpirà Duncan: Macbeth ci ha già descritto la morte e poi va a compierla. Ma quando l'uccisione è compiuta, lui già sapeva. Quello è il suo dramma, il dramma di vedere oltre, di vedere il futuro. Per questo parlo di una testa visionaria, che poi lo porta alla psicosi. È l’accelerazione del pensiero e del tempo. Questa dimensione è molto esplorata in Shakespeare».

Hai parlato molto di cosa c’è soprattutto in Shakespeare. Cosa manca invece in Shakespeare che si trova in Verdi?

«Verdi deve condensare la parola di Shakespeare come è giusto che sia. Quello che la parola non dice, lo dice la musica, che ci parla in maniera più irrazionale, più ineffabile, ma che giunge a noi attraverso altri “sensi”. I due Macbeth sono necessariamente lavori molto diversi, paralleli ma diversi. In Verdi c’è comunque un rispetto profondo per la tragedia di Shakespeare anche se attraverso un altro linguaggio. Rispetto alla tragedia di Shakespeare, Verdi immette anche qualcosa che attiene allo “Zeitgeist” del proprio tempo: siamo in pieno Risorgimento, ed è chiaro “Patria oppressa” riflette motivi legati a delle questioni politiche del momento. Da questo punto di vista, il Macbeth di Verdi è un lavoro molto più politico di quello di Shakespeare. È più “italico”. Personalmente non sono andato a sondare troppo quella dimensione politica. Mi interessa di più questo grande luogo inesplorato, che siamo noi stessi».

Macbeth (foto di Andrea Ranzi)
Macbeth (foto di Andrea Ranzi) 

Torniamo al mestiere di regista lirico rispetto alla tua lunga esperienza di regista di teatro. Ti senti in qualche modo limitato dalla grande macchina dell’opera?

«È davvero un altro sport. Ci si deve rapportare a una grande nave dove ci sono tante altre figure. Nella prosa, sei tu a gestire tutta la “baracca”. Qui hai il tuo ruolo: un regista lirico deve ragionare su come riproporre in maniera critica un'opera, sullo sviluppo del “concept”, sull’estetica attraverso la luce, attraverso lo spazio e anche attraverso il vuoto. Tutto questo è molto interessante per me. L’opera ha anche dei tempi molto più veloci e per me, che amo molto lavorare sul dettaglio fino alla maniacalità, è chiaro che su alcune cose devi un po' lasciar andare. È comunque un bel viaggio!»

Cosa vuol dire lavorare attraverso il vuoto?

«Il vuoto per me nel teatro come nell'opera è sempre fondamentale: il teatro, se ha un vantaggio rispetto al cinema o altri mezzi tecnologicamente (e non solo) più ricchi, è che ti mette di fronte a dei vuoti o a delle metafore. Basta una sedia in scena per mettere in moto il nostro pensiero. In fondo, il teatro finisce nella mente dello spettatore. Se ha funzionato, uno spettacolo si conclude se lo spettatore, andandosene a casa, continua a concluderlo ragionandoci nella sua testa. Ma lo fa proprio perché lo spettacolo ha lasciato dei vuoti da colmare».

Macbeth (foto di Andrea Ranzi)
Macbeth (foto di Andrea Ranzi) 

Per una volta hai a che fare non con attori ma con cantanti con tutti i vincoli che il canto impone al corpo. È stato facile?

«Mi affido alla loro esperienza e sto imparando molto da loro. Con un attore puoi andare a sondare determinate cose, mentre nell’opera la parte musicale e vocale deve prevalere e su quella io non devo intervenire. Ciò che posso fare è cercare di portare un po' dell’esperienza del lavoro con gli attori sulla prossemica o su una certa sobrietà del gesto, dell’espressione, che poi è quello che cerco di fare nella prosa. L’opera è comunque più grande della vita: non è sempre facile lavorare per sottrazione, ma cerco di farlo il più possibile, nei tempi compressi che ci vengono imposti. Come ho detto, a me piace lavorare sui vuoti, cioè sulla sottrazione, sul gesto essenziale».

Quale traguardo ti poni a livello personale per questo debutto?

«Quello che tento spesso di fare con il mio teatro. Mi piacerebbe, cioè, riuscire a raccontare non tanto il viaggio di due tiranni omicidi standocene comodamente seduti in platea, ma fare un viaggio “insieme” a loro. È quel ponte che mi interessa costruire. Non mi interessa un teatro che ci fa vedere i cattivi per rassicurarci che i buoni siamo noi».

Sempre più spesso accade che le regie, soprattutto quelle liriche, si allontanino da quanto prescritto dagli autori provocando spesso critiche molto vivaci. Da regista, come ti collochi rispetto a certe innovazioni drammaturgiche?

Macbeth (foto di Andrea Ranzi)
Macbeth (foto di Andrea Ranzi) 

«Nella prosa ho sempre il massimo rispetto per il testo e per l’autore. Non sono uno che smonta o ama provocare. Non mi interessa. Cerco di trovare un mio segno, ma restando sempre ben consapevole e tenendo sempre a mente che bisogna rispettare il pensiero originale alla base del lavoro. È chiaro però che facciamo il Macbeth di Verdi nel 2024 e necessariamente lo dobbiamo fare per un pubblico di oggi, per il nostro sentimento del tempo. Mi interessa ragionare e ipoteticamente, se ci si riesce, far ragionare o ragionare con le persone che vengono a vedere gli spettacoli».

Dopo Macbeth cosa desidereresti ci fosse per Jacopo Gassman regista lirico?

«Come anche nella prosa, mi interessano le opere che sono moltiplicatori di domande. Mi interessa qualunque opera permetta di poter ragionare in maniera critica rispetto anche al tempo nel quale viviamo. Per esempio, Wagner mi interessa molto dal punto di vista concettuale. Ad esempio, Parsifal è per me un viaggio straordinario. Però, anche Schönberg o Berg potrebbero essere nelle mie corde ... “scordate”! (ride) Ma in fondo anche un altro Verdi non mi dispiacerebbe proprio».

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