Charles Mingus, una guida all'ascolto in 10 pezzi

Il 5 gennaio del 1979 moriva in Messico Charles Mingus: 10 pezzi imprescindibili di un gigante del jazz

Charles Mingus, guida all'ascolto
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Il 5 gennaio del 1979, a Cuernavaca, in Messico, ci lasciava Charles Mingus.

Contrabbassista, compositore, figura centrale del jazz a partire dal secondo Dopoguerra, Mingus è stato uomo vulcanico e geniale, capace di sintesi straordinarie e di propulsioni geniali, legato a doppio filo con la tradizione e costantemente proiettato in un presente che già ribolliva di futuro.

Per ricordarlo abbiamo scelto 10 brani chiave della sua intensa carriera, 10 brani imprescindibili di Charles Mingus.

Sì, lo sappiamo, 10 sono pochi, ma non abbiamo dubbi che chiunque le ascolti sia spinto inesorabilmente a ascoltare anche molto altro!

1. "Ysabel's Table Dance" (da Tijuana Moods, 1957)

Nell’amato Messico (era nato in una città dell’Arizona al confine) si chiude l’esistenza di Mingus.
E l'amato Messico di confine è al centro del disco Tijuana Moods, pensato come un viaggio sonoro in cui l’inclusione di elementi sonori di derivazione ispanica stimola Mingus a fare evolvere formalmente la struttura stessa dei brani, lasciando che gli ostinati ritmici trovino spazi e temi adeguati per fare esplodere la loro carica ipnotica e fisica e dando così confini nuovi ai territori delle ribollenti improvvisazioni collettive.

2. "Duke Ellington’s Sound of Love" (da Changes One, 1974)

Due giganti del jazz sono sempre presenti nella concezione musicale di Mingus. Sono Charlie Parker e Duke Ellington, che il giovane Charles ascolta per la prima volta alla radio già agli inizi degli anni Trenta e con cui collaborerà per Money Jungle (dopo una sfortunata e litigiosa apparizione nell’Orchestra del Duca nel 1953). È un legame forte, quello con Ellington, di carattere metodologico e artistico, reso dalle varie composizioni del Duca incluse nel repertorio mingusiano e nelle stesse composizioni di Mingus che sono un evidente omaggio al maestro. Una delle più emozionanti è questa.

3. "Folk Forms No.1" (da Charles Mingus Presents Charles Mingus, 1960)

Mingus e blues, un binomio apparentemente ovvio, anche se in realtà è un’affinità che si consolida solo alla metà degli anni Cinquanta, quando la coscienza afroamericana trovava nuove modalità comunicative attraverso il recupero di un lessico vicino al rhythm’n’blues e alle forme responsoriali del gospel, in una dinamica che porterà rapidamente alla codificazione di formule hard bop.
Gli elementi blues e folklorici entrano nell’universo espressivo di Mingus in modo estremamente personale, come dimostra “Folk Forms No. 1”, tra gli episodi polifonicamente più travolgenti di tutto il songbook mingusiano, specialmente nella versione registrata per la Candid in quartetto con Eric Dolphy e Ted Curson, capolavoro visionariamente a cavallo tra tradizione e free.

4. "Goodbye Pork Pie Hat" (da Mingus Ah Um, 1959)

Parlavamo di influenze e omaggi. Quello a Lester Young, morto da poche settimane, è uno dei grandi classici di Mingus, inciso nel capolavoro Mingus Ah Um. Non ha bisogno di molte altre presentazioni.

5. "Solo Dancer" (da The Black Saint And The Sinner Lady, 1963) 

Dato che stiamo parlando di capolavori, non può mancare The Black Saint And The Sinner Lady, suite ambiziosa, canto doloroso che vuole essere danzato – non a caso le sezioni portano indicazioni tipicamente coreografiche – e rito lacerato di una individualità divisa e disperatamente alla ricerca di umanità (con conseguenti implicazioni sociali e politiche che si riverberano a più ampio spettro). Non possiamo non farvelo ascoltare per intero.

6. "Pithecanthropus Erectus" (da Pithecanthropus Erectus, 1956) 

Sin dalla metà degli anni cinquanta, il mondo controverso, a tre colori (leggetevi l’autobiografia Peggio di un bastardo e capirete) di Mingus si fa visione dell’umanità, urla la discriminazione razziale come in quello che è cronologicamente considerato il primo vero caposaldo della discografia del nostro, Pithecanthropus Erectus, un disco pazzesco, specialmente nei dieci minuti della piccola suite omonima, con squarci anticipatori del free, una frenesia antifonale quasi orgiastica assecondata da un gigante del sax contralto come Jackie McLean…

7. "Myself When I Am Real" (da Mingus Plays Piano, 1963)

Mingus suona il piano. Ma non era un contrabbassista? Siamo nel 1963 e il musicista aveva da qualche anno preso a suonare personalmente questo strumento – che usava abitualmente per comporre – anche su disco. Questa gemma è una libera, emozionante, meditazione personale del musicista, che non a caso si apre con una improvvisazione come “Myself When I Am Real” (tanto per restare in tema di identità…)

8. "Alice’s Wonderland" (da Jazz Portraits, 1959) 

Nel 1958 Mingus viene chiamato dall’allora giovane regista indipendente John Cassavetes per la colonna sonora del film Shadows. Abbinamento stimolante: il regista è intenzionato a girare lasciando un grande spazio all’improvvisazione e il tema del film è incredibilmente mingusiano, con protagonista una ragazza afroamericana creduta bianca per i tratti somatici particolarmente chiari. Poco budget e incomprensioni varie fanno sì che nella versione definitiva del film la musica di Mingus non compaia, ma la musica originariamente composta per il film sarà usata in altri dischi: “Self Portrait In Three Colors” in Mingus Ah Um, “Nostalgia In Times Square” e “Alice’s Wonderland” nel sottovalutato Jazz Portraits.

9. "Orange Was the Colour of Her Dress, Then Blue Silk"  (da Charles Mingus Sextet at Cornell University, 1964) 

Nei gruppi/workshop di Mingus sono passati moltissimi jazzisti, solisti di grande valore, onesti comprimari, specialisti sottovalutati, da Thad Jones al già citato Mclean, da Booker Ervin a Don Pullen, passando per Jimmy Knepper, l’inseparabile batterista Dannie Richmond, il vulcanico Rahsaan Roland Kirk, il geniale Jaki Byard e molti altri. Un rapporto piuttosto speciale lega però Mingus a un altro gigante del jazz con cui ha scritto alcune pagine memorabili, Eric Dolphy, con cui condividerà gli immortali (loro, dal momento che a Dolphy restavano tragicamente pochi mesi di vita) concerti della tournée europea del 1964. Anticipata da una prova generale alla Cornell University (il nastro del concerto è stato pubblicato per la prima volta nel 2007) da cui scegliamo il tema, fantastico, di "Orange Was The Colour…".

10. "Fables of Faubus" (da Mingus Ah Um, 1959)

Nel 1957 il Governatore dell'Arkansas, Orval Faubus, utilizzava la Guardia Nazionale per impedire agli studenti afroamericani di accedere alla Little Rock Central High School. Un caso esecrabile e famosissimo nella lotta per i diritti civili dei neri. Alla figura di Faubus Mingus dedica il bruciante e ironico “Fables Of Faubus”. Inserito in Mingus Ah Um come strumentale (la Columbia non accettò il testo) e poi ripreso con piccola variazione nel titolo in Charles Mingus Presents Charles Mingus per la Candid, è diventato un classico. Chissà cosa direbbe Mingus oggi di Trump e dei suoi muri (fisici o meno) su quel confine col Messico da cui tutto era partito…

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