Cercando il suono autentico di Donizetti

Alla vigilia dell’apertura del Festival Donizetti Opera con un nuovo allestimento del Roberto Devereux un bilancio con Riccardo Frizza, direttore musicale del festival dal 2017

Riccardo Frizza (Foto Gianfranco Rota / Photo Studio UV)
Riccardo Frizza (Foto Gianfranco Rota / Photo Studio UV)
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classica

L’edizione annuale del Festival Donizetti Opera, in programma a Bergamo fra il 15 novembre e il 1° dicembre, segna un anno di svolta, dopo l’annunciato cambio di direzione artistica. Dopo dieci anni lascia il timone Francesco Micheli, direttore artistico fin dalla nascita del festival. Intanto però il festival continua seguendo la traccia segnata dalle edizioni più recenti e anche quest’anno saranno tre le produzioni liriche del cartellone – Roberto Devereux, Don Pasquale e Zoraida di Granata per #donizetti200 – alle quali si aggiunge la ripresa di LU OperaRave e i concerti “casa e bottega” con i giovani allievi della Bottega Donizetti. 

Sul podio del Roberto Devereux che inaugura il festival il prossimo 15 novembre al Teatro Donizetti con le due stelle del belcanto come John Osborn e Jessica Pratt si ritroverà Riccardo Frizza, da sette anni direttore musicale del festival. Bresciano, classe 1971, formazione musicale al Conservatorio di Milano e all’Accademia Chigiana di Siena, Frizza si è imposto negli anni come uno dei direttori d’orchestra più autorevoli nel repertorio belcantista italiano anche a livello internazionale. A pochi giorni dalla prima, con lui abbiamo parlato di come il Donizetti Opera è cresciuto negli ultimi anni, dell’opera che dirigerà in questa edizione e dello sviluppo futuro del festival.

In questi anni com’è cambiato il festival Donizetti Opera, soprattutto da un punto di vista musicale? 

Da quando ho assunto l’incarico di direttore musicale, oltre all'internazionalizzazione dei cast, il lavoro più grosso che abbiamo fatto è stato sull’orchestra. Abbiamo fatto delle scelte sul coro, avviando una collaborazione con il Coro dell'Accademia della Scala, che sta diventando sempre più solida ogni anno. Ormai da quattro anni abbiamo preso questa decisione, perché abbiamo dovuto affrontare alcune situazioni piuttosto complesse da gestire e con difficoltà legate alla non facile reperibilità di un coro di buon livello. I teatri di tradizione non possono avere compagini stabili e quindi in occasione di ogni festival non era facile reperire coristi free lance che potessero assicurare la propria presenza per riuscire a dare una continuità al lavoro e garantire una certa qualità. Quello che invece eravamo riusciti a fare con l'orchestra, lo abbiamo realizzato alla fine stabilendo una collaborazione con l'Accademia della Scala. 

Lei ha inaugurato anche il Donizetti in versione originale con la creazione dell’orchestra Gli Originali. Come mai questa scelta per un compositore non di età barocca o classica? 

Gli Originali sono originali veramente! Cioè l’orchestra non suona su copie ma su strumenti davvero dell’epoca di Donizetti. È vero che questo tipo di scelte non si fa mai con i compositori dell’Ottocento ma proprio per questo volevamo inaugurare interpretazioni storicamente informate soprattutto per capire i suoni autentici dell’epoca di Donizetti. Credo sia importante capire cosa succede anche a livello di sonorità, di effetti, di colori. Fra l’altro i primi decenni dell’Ottocento sono un periodo storico in cui gli strumenti musicali, soprattutto gli strumenti a fiato, hanno subito un grande sviluppo tecnico. Se si pensa che la prima opera di Donizetti da studente è del 1817 e l'ultima del 1845-46, si capisce come l’orchestra abbia subito una grande evoluzione da uno strumentario ancora barocco o classico a strumenti moderni. 

Guardando indietro ai suoi sette anni come direttore musicale, quali sono stati i momenti che ritiene più significativi? 

Sono molto affezionato a tutte le inaugurazioni fatte in questi anni. Però ci sono stati anche dei momenti molto toccanti, come ad esempio l’esecuzione del Requiem di Donizetti davanti al famedio del cimitero di Bergamo nel 2020, l’anno della pandemia: è stato un momento davvero molto importante per tutti, perché anche in orchestra e nel coro c’erano molte persone che avevano perso familiari. Quell’evento ha significato molto per tutti noi e ha dato un senso di appartenenza al festival, a Donizetti e alla città, cementando moltissimo tutte le forze, la voglia di lavorare insieme, la voglia di fare bene, di credere in questo autore. Gli effetti si sono visti nella crescita dell’orchestra anno dopo anno. 

Quest'anno lei apre il festival con il Roberto Devereux, un titolo che lei ha già affrontato a San Francisco qualche tempo fa. Come giudica quest’opera nella produzione di Donizetti? 

Roberto Devereux è, secondo me, la più grande opera italiana di Donizetti. Perché la ritengo la più grande? Certamente anche Lucia di Lammermoor è una grande opera, ma ha soprattutto un grande soggetto e, a mio parere, resta una grande lezione musicale di Donizetti su una struttura abbastanza tradizionale, classica, post-rossiniana per così dire, cioè introduzione, scena e cabaletta, con la ripetizione di quest’ultima. Lucia è costruita in gran parte così, su queste strutture molto tradizionali che troviamo già in Semiramide o in Ermione di Rossini. Il Donizetti del Devereux è un Donizetti che smonta le strutture per adattarle a una drammaturgia: la forma è più malleabile e la musica più funzionale alle esigenze del soggetto in maniera molto più forte, segnando un salto di qualità nel melodramma italiano e aprendo la strada a Verdi, che porterà ad ulteriori sviluppi. Nel Devereux i recitativi sono tutti a secco, cioè per tantissime battute non c’è niente o quasi a sostenere le voci, c’è solo canto senza accompagnamento. Non trovo altre opere di Donizetti dove non ci sia un accompagnamento a sostenere il canto: qui Donizetti lascia davvero alla voce e al teatro esprimersi in maniera diversa rispetto alle sue opere precedenti e in maniera superiore all’Anna Bolena ma anche alla Maria Stuarda

Il cast sarà particolarmente importante, con John Osborn nel ruolo del titolo e Jessica Pratt in quello di Elisabetta. Parlando di cast, il Festival Donizetti Opera negli anni recenti è riuscito a portare a Bergamo dei nomi importanti nel panorama internazionale. Come ci siete riusciti? 

Prima di tutto grazie al fatto che ormai il festival è considerato anche a livello internazionale come una vetrina importante oltre che luogo deputato a interpretare Donizetti in una certa maniera. Ci siamo dati delle regole che non si devono mai infrangere e che prevedono l’esecuzione di una certa partitura come Donizetti l’ha concepita e scritta, seguendo un percorso filologico. Ad esempio, il Roberto Devereux di quest’anno sarà quello della prima esecuzione al Teatro di San Carlo di Napoli nel 1837. Abbiamo deciso di fare la prima versione e non la contamineremo con tagli o cambiamenti introdotti in seguito dallo stesso Donizetti. Lo stesso criterio lo abbiamo adottato anche per le altre opere che abbiamo eseguito nelle scorse edizioni: quando abbiamo deciso di fare il Marin Faliero nella seconda versione di Parigi, abbiamo eseguiamo quella partitura con l’aggiunta scritta per Parigi piuttosto che le piccole modifiche e i tagli o le aggiunte del compositore. Questa è l’impronta scientifica che perseguiamo e che gli artisti moderni apprezzano moltissimo. Anche il pubblico ormai è educato a questo tipo di approccio e lo pretende. Andare a sentire la classica Lucia con molti tagli non è più accettato da nessuno: il pubblico è diventato maturo da questo punto di vista. 

Il vostro metodo si appoggia anche al grande lavoro sulle edizioni critiche delle partiture donizettiane sostenuto dalla Fondazione Teatro Donizetti. Un’altra delle attività a cui lei ha dato impulso? 

Quando sono arrivato a Bergamo, una delle mie prime richieste è stata quella di conoscere lo stato delle Edizioni Critiche Nazionali delle opere di Donizetti. Il contratto della Fondazione con l’editore Ricordi era scaduto ormai da dieci anni ma l’abbiamo subito rinnovato e ricominciato un prezioso lavoro sulle edizioni critiche. Per noi è un’attività molto importante. Ogni anno produciamo una nuova edizione critica ma quest'anno ne avremo addirittura due: quella del Roberto Devereux curata da Julia Lockhart e quella nuovissima del Don Pasquale curata da Roger Parker e Gabriele Dotto. 

Lei dirige soprattutto opere del belcanto: non è un po' riduttivo dal punto di vista di un direttore d'orchestra essere un accompagnatore di voci? 

Innanzitutto, fare belcanto e dirigere belcanto non vuol dire essere un accompagnatore di voci perché io le voci non le accompagno: le voci le dirigo dal primo giorno in cui arrivo in teatro. Io lavoro su un certo tipo di discorso musicale con le voci; quindi quello che si vede alla fine è un risultato di un lavoro di settimane che evidentemente non si può ridurre a un mero accompagnamento. È un lavoro su ogni singola frase che inizia in sala prove e dura settimane. Interpretare un compositore come Donizetti è molto complesso. Le dico la verità: dirigere un’opera di Strauss è molto meno complesso perché Strauss scrive assolutamente tutto, mentre Donizetti non scrive assolutamente niente e quindi occorre un bagaglio culturale e interpretativo per farlo in maniera corretta. Occorre conoscere l'autore, conoscerne lo stile per poter tirar fuori qualcosa dalle sue partiture. Non è semplice come può sembrare. Le dico di più, i direttori artistici dei più importanti teatri internazionali, ogni volta che devono mettere in repertorio un'opera del belcanto devono sempre affrontare il problema di trovare un direttore d’orchestra adatto, che conosca quello stile, mentre per Don Giovannioppure per un’opera di Wagner la scelta è meno complessa. 

L'anno prossimo il Festival Donizetti Opera volta pagina con il cambio di direzione artistica. Lei resterà come direttore musicale?

Non so ancora cosa succederà e quindi aspetto di capire come si muoverà la Fondazione. Se ci saranno le condizioni per restare, sicuramente sarà una posizione che mi piacerebbe mantenere perché penso che Donizetti sia un autore che ha ancora molto da dire. C'è ancora molto da studiare, molto da scoprire, e tutto questo lo rende un compositore molto interessante dal punto di vista musicale. Però evidentemente se resterò dipenderà dalle condizioni. 

Parlando di futuro, secondo lei cosa resta da fare ancora? 

C'è ancora moltissimo da fare: opere da riportare in auge che oggi sono finite nel dimenticatoio, ma che hanno avuto un grandissimo successo all’epoca. Questo è accaduto per mille ragioni ma spesso perché non si sono mai individuati interpreti per poterle riportare alla luce: storicamente le opere entrano in repertorio anche grazie a interpreti in grado di affrontare le complessità di certi ruoli, com’è stato con la Callas per Norma o Medea oppure con la Sutherland per Lucia. E poi c'è ancora molto lavoro da fare sull'orchestra con strumenti originali: occorre migliorare questa strada per portare avanti il nostro lavoro su esecuzioni storicamente informate. Il repertorio di primo Ottocento è la cerniera fra Classicismo e Romanticismo e, come interpreti, dobbiamo porci delle domande anche molto concrete, come, ad esempio, con quanto vibrato devono suonare gli archi? Oppure quale clarinetto si deve usare in un’opera del 1825 piuttosto che del 1837: quello con 5 chiavi o quello con 12 chiavi? C'è ancora tantissimo da fare. Il lavoro è inesauribile. 

Un titolo donizettiano che le sta a cuore e che ancora non è riuscito dirigere? 

Mi piacerebbe dirigere il Dom Sébastien: un grande titolo, un grand-opéra che mi piacerebbe molto poter fare un giorno. 

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