«Non so da dove cominciare…» ha ammesso, grattandosi la testa, Helmut Lachenmann alla vista del microfono che Enzo Restagno gli ha passato nel buio del palco del Teatro Vittoria. «Un compositore non ha niente da dire, non è un predicatore; un compositore a un certo punto deve fare, rischiare nella propria solitudine, senza aver paura di tornare e ritornare continuamente agli elementi che più gli sono familiari». Eppure di cose da dire Lachenmann, memoria storica dell’avanguardia europea, ne ha tantissime, e non serve fargli domande, perché i concetti sgorgano dalla sua voce esattamente come le note dalla sua mano, quando si mette a suonare Webern al pianoforte per illustrare in che senso la nozione di serie si sia trasformato, nella sua musica, in quello di famiglie sonore.
«Un compositore non ha niente da dire, non è un predicatore; un compositore a un certo punto deve fare».
A ridosso di un concerto meraviglioso, in un giorno strano e importante per la musica dal vivo, il 16 ottobre scorso, Lachenmann ha parlato senza sosta davanti a un pubblico che lo ha ascoltato in religioso silenzio per quasi due ore: il fatto che l’appuntamento si intitolasse Musica come magia infranta – come il libro che raccoglie scritti e interviste del compositore tedesco (LIM, 2019, a cura di Pietro Cavallotti e Luigi Pestalozza) – doveva farlo presagire.
Solo l’anno scorso il Festival EstOvest – Le Strade del Suono aveva portato a Torino e a Genova Michaël Lévinas, uno dei massimi esponenti dello Spettralismo; quest’anno è toccato all’«ultimo fossile del serialismo», come il compositore tedesco si è autodefinito con sprezzante ironia.
Lachenmann è fine teorico, oltre che compositore prolifico, e molto ha scritto sulla teoria musicale (in italiano, oltre al volume già citato, sono disponibili Helmut Lachenmann: percorsi di musica d'oggi, del 2011, a cura di Enzo Restagno, e il preziosissimo Alla ricerca di luce e chiarezza, epistolario con il maestro Luigi Nono che l’editore Leo Olschki faceva uscire nel 2012).
– Leggi anche: Lévinas e l'essere del silenzio
Alcune delle sue tesi le conosciamo bene, ma sentirle articolare dalla sua viva voce, dal suo colorito italiano, è un vero piacere: comporre musica equivale a pensare musica, significa costruire uno strumento che viene ogni volta rimesso a nuovo e poi «strapazzato». Gli strumenti sono come animali o minerali cangianti a seconda di ciò che gli si fa suonare, e il compositore rimarrà sempre un parassita rispetto a essi. La musica è magia infranta; i suoi elementi costitutivi, un accordo di do maggiore, per esempio, sono come amuleti mutevoli a seconda dell’uso che se ne fa. Il concetto di forma è interessante solo fino a un certo punto, per un compositore; la forma è semplicemente l’esito di una vita. «Adoro il titolo dell’opera di Morton Feldman, The Viola in My Life»: lo ha detto spesso Lachenmann, e venerdì scorso lo ha ribadito, sottolineando che un possibile titolo alternativo per la serie di brani che il Quartetto Arditti ha poi eseguito avrebbe potuto essere The Cello in My Life. Perché il quartetto, per Lachenmann è un unico, gigantesco, strumento a sedici corde.
Lo hanno dimostrato alla perfezione Irvine Arditti (violino), Ashot Sarkissjan (violino), Ralf Ehlers, (viola) e Lucas Fels (violoncello) con un concerto perfetto, conclusosi con un applauso che a sala gremita – di questi tempi, lo sappiamo, è tristemente semplice registrare un tutto esaurito – probabilmente non sarebbe stato così fragoroso.
In programma il primo quartetto, “Gran Torso” (1971-2), Pression, per violoncello solo (1969-70) e “Grido” (2001), terzo e ultimo dei quartetti scritti per il mostruoso strumento a 16 corde concepito dal compositore. Un programma ideale per addentrarsi nella cosiddetta «musica concreta strumentale», ma inedito, in questa disposizione, per il Quartetto Arditti, come ci ha raccontato Irvine Arditti durante un’intervista concessa in esclusiva al giornale della musica prima del concerto.
C’è un rapporto stretto e duraturo tra l'Arditti Quartet e Helmut Lachenmann. Può dirci qualcosa sul programma di questa sera?
«È insolito, perché propone il brano per violoncello solo, Pression, tra il primo e l’ultimo quartetto di Lachenmann. Dico insolito perché il nostro attuale violoncellista [Lucas Fels] non aveva mai suonato Pression durante un concerto per quartetto. Di recente, però, ha lavorato a stretto contatto con il compositore alla riscrittura dello spartito. Fin dai primi giorni in cui ho lavorato con Lachenmann su Gran Torso, mi sono reso conto che erano necessari abilità tecniche straordinarie, in particolare per tenere correttamente lo strumento e l’arco. All’inizio non eravamo del tutto pronti, ricordo che dopo la nostra prima esecuzione del quartetto eravamo tutti d’accordo sul fatto che sarebbe stato necessario ancora molto lavoro. Lachenmann è un didatta eccezionale, e quando si tratta della sua musica è disposto a trascorrere molti mesi all’anno in giro per il mondo per lavorare a stretto contatto con gli strumentisti che intendono eseguirlo. È incredibilmente meticoloso quando impartisce le sue istruzioni, ma è al contempo molto paziente e la sua compagnia è davvero molto piacevole».
Ricordi la tua prima reazione quando hai visto la partitura per la prima volta?
«Devo essere sincero: non ho avuto una sensazione di shock o di sorpresa, perché era passato già qualche anno dalla prima assoluta del Berner Streichquartett, che suscitò grande scalpore [Arditti si riferisce alla prima esecuzione della seconda versione del quartetto, che risale all’aprile del 1978; la première della prima versione, invece, ebbe luogo il 6 maggio del 1972 e vide protagonista il Quartetto della Società Cameristica Italiana, a cui il brano è dedicato]. Avevo visto altri brani simili, ma nessuno raggiungeva simili livelli di integrità, sul piano del significato. Ammetto che ho compreso tutte le sue implicazioni solo dopo averlo suonato».
Per Lachenmann «più che dal suono [Gran Torso] si sviluppa dalle esigenze, meccaniche ed energetiche, della creazione del suono, e da lì deriva gerarchie strutturali e formali». Che indicazioni danno queste parole a un esecutore?
«Gran Torso si concentra sulle qualità grezze dei suoni che possono essere ottenuti con gli strumenti a corda della tradizione occidentale e su gesti che non fanno parte del consueto catalogo dei suoni prodotti tramite essi. Usare il tallone dell'archetto per pizzicare le corde o per percuotere la tastiera, raggiungere posizioni estreme lungo di essa per produrre diversi tipi di rumori, usare il corpo dello strumento per emettere suoni intonati o rumorosi e così via... Venire a patti con tecniche nuove, necessarie per produrre simili suoni, equivale a creare o distruggere un’esecuzione. Questo linguaggio inedito è qualcosa che il compositore ha studiato, elaborato e di cui può rendere conto con estrema precisione a se stesso e agli altri».
Grido, commissionato a Lachenmann dall'Arditti, è l’acronimo delle iniziali dei nomi propri dei quattro Arditti dell’epoca (GraemeRohanIrvineDOv), ma è anche un sostantivo o la prima persona di un verbo italiano. Verso chi è rivolto quel grido?
«Effettivamente il titolo crea un rapporto di identificazione molto importante tra il brano e il quartetto. I suoi membri furono rivestiti di un ruolo decisivo sia durante la fase delle prove che rispetto all’ispirazione, in fase di scrittura. In effetti, Grido è un titolo molto rappresentativo: il brano è stata una risposta alla mia esplicita richiesta di un quartetto molto più sonoro (sonorous) rispetto agli altri due. In particolare, a fare da catalizzatore è stato un concerto indimenticabile a Taxco, in Messico, nel 1993. In programma c’era il secondo quartetto Reigen Seliger Geister. L’Arditti fu ospitato per una settimana a Città del Messico, su invito del festival ISCM. Fummo accompagnati a Taxco in macchina la mattina del giorno del concerto: avevamo tutto il tempo per fare un’ultima prova. Purtroppo, nessuno ci disse che la chiesa in cui stavamo suonando era un importante edificio storico. Assieme a noi, quindi, sono arrivate orde di turisti giapponesi, americani ed europei, tutti intenti a visitare la chiesa, fotografarla… e ovviamente a condividere la propria esperienza. Non abbiamo potuto fare la prova perché l’invasione della chiesa è continuata quasi fino all’inizio del concerto, previsto per le 18…».
Perdeste la calma?
«Decisamente: eravamo piuttosto arrabbiati, ma non finisce qui. Nel frattempo, all’esterno della chiesa, i membri di un gruppo locale iniziarono le proprie, di prove, in vista di un concerto che sarebbe iniziato dopo il nostro. All’insaputa degli organizzatori, quel giorno, a Taxco, iniziava un’importante festa religiosa: ecco spiegati tutti quei turisti e i continui arrivi di pellegrini nella chiesa de La Santa Prisca e quel suono di chitarra elettrica che copriva interamente il nostro Lachenmann».
Decideste di rischiare comunque?
«Dovetti prendere una decisione dolorosa per noi, per il pubblico – che voleva ascoltare quel brano – e ovviamente per Lachenmann – quando venne a sapere dell’accaduto!».
Con cosa sostituiste Reigen seliger Geister?
«Con un brano di Schnittke, che si andava ad aggiungere ai brani di Estrada e Ligeti già previsti. A ogni modo, fu questo divertente episodio a ispirare Lachenmann nella scrittura del terzo quartetto, che stavolta doveva essere necessariamente più rumoroso. Per rispondere alla tua domanda: il terzo quartetto urla in faccia agli altri due!».
Come stai vivendo gli effetti della pandemia di Covid-19? Immagino che il quartetto abbia ridisegnato i suoi metodi di lavoro. Cosa pensi che il mondo della musica classica possa imparare da questa drammatica situazione?
«È molto difficile continuare la vita nel modo che ritenevamo normale fino a qualche mese fa. Forse dobbiamo abituarci ad abbandonare il vecchio concetto di "normale". Quanto a noi, abbiamo trascorso sei mesi senza suonare insieme, ma quando abbiamo ripreso, ad agosto, è stato come se quella separazione non ci fosse mai stata. Personalmente, ho progredito nella stesura di un libro sulla mia vita, e ho lavorato con molti compositori. Ogni settimana rappresenta una sfida di adattamento alle restrizioni imposte dalla pandemia in tutti i Paesi del mondo».
«È molto difficile continuare la vita nel modo che ritenevamo normale fino a qualche mese fa. Forse dobbiamo abituarci ad abbandonare il vecchio concetto di "normale"».
Una volta ha affermato che «fintanto che si continuerà a scrivere quartetti d’archi, l’Arditti avrà una sua funzione». Qual è lo stato di salute della sua formazione?
«In questo periodo, più che in altri, mi sembra piuttosto chiaro che moriremo tutti! Fortunatamente si tratta di un processo graduale e che non riguarda solo l’Arditti! Quando, nel 1999, il quartetto fu insignito del premio Ernst von Siemens, mi chiesi a cosa servisse. Mi fu detto: «ma è il coronamento di una carriera incredibile, di un’intera vita!». «Ma io non sono pronto a smettere!»: risposi così, e ancora oggi mi sembra la risposta migliore.