Una prima europea di Philip Glass per l’inaugurazione del Festival dei Due Mondi
Iván Fischer ha diretto The Passion of Ramakrishna, su testi del mistico indiano vissuto nell’Ottocento
Per la seconda volta il Festival dei Due Mondi di Spoleto si è inaugurato con un concerto in Piazza del Duomo della Budapest Festival Orchestra diretta dal suo fondatore Iván Fischer, l’uno e l’altra oggi saldamente posizionati ai vertici della musica mondiale.
Conosciamo bene la magia che ogni volta nasce dal connubio tra la musica e questa piazza, ma sinceramente non avremmo mai immaginato che il grande mosaico del 1207 col Cristo benedicente sulla facciata del Duomo consonasse con i testi scelti da Philipp Glass per The Passion of Ramakrishna, dove vengono intonate queste parole: “è questa un’altra crocifissione” e “il sacrificio del corpo per la salvezza dei devoti”. Anche al di là di queste due frasi attribuite a due seguaci di Ramakrishna, ci sono vari punti di contatto tra il cristianesimo (e anche l’islam) e gli insegnamenti di quel mistico indiano vissuto tra il 1836 e il 1886, che credeva nell’unicità di Dio e quindi nella sostanziale unità delle religioni e nella validità di qualsiasi cammino intrapreso per raggiungere la Divinità. Personalmente, non essendo un esperto dell’argomento, sono stato colpito non tanto dalle implicazioni religiose dei testi di Ramakrishna quanto dal loro valore poetico, dalle loro fiammeggianti immagini visionarie e ancor più dal loro significato profondamente umano, semplice e toccante.
Per The Passion of Ramakrishna, di cui il festival spoletino ha offerto al suo pubblico la prima esecuzione europea, Glass aveva pensato in un primo momento di prendere a modello le Passioni di Bach e di comporre quindi un lavoro sinfonico-corale di ampie dimensioni, poi ha puntato su una struttura più semplice e su dimensioni più contenute (circa tre quarti d’ora di musica) ma qualcosa dell’intelaiatura bachiana è rimasta: pensiamo alla presenza di un narratore (che non è ovviamente un evangelista ma l’allievo prediletto del Maestro), ai brevi interventi di altri personaggi vicini al Maestro e soprattutto all’importanza del coro, che è l’elemento portante di questa partitura. L’dea più originale e di maggior fascino di Glass - potremmo definirla la sua carta vincente - riguarda proprio il coro, che è la voce di Ramakrishna e intona le sue parole. Non mancano momenti di poliritmia ma più spesso le voci del coro procedono all’unisono o su linee parallele, scandendo il testo il coro con solenne semplicità o talvolta anche con drammaticità, ottenuta sfruttando i contrasti dinamici resi possibili dalla grande massa corale utilizzata. Nonostante l’accostamento sia sicuramente un po’ audace, si può affermare che questo coro non è poi troppo lontano – mutatis mutandis – dall’antica monodia liturgica cristiana ed evoca sacralità e misticismo.
La combinazione parole-musica è efficace e suggestiva. Glass ci immerge nelle parole di Ramakrishna mettendosi devotamente al servizio del testo, senza pretendere di offrirne un’interpretazione personale e quindi inevitabilmente riduttiva ma anzi sfruttando l’impressione di oggettività che suscita la musica ripetitiva, che talvolta può apparire un po’ meccanica, ma non qui.
L’orchestra scandisce gli inconfondibili ritmi di Glass, molto incisivi e ripetuti più e più volte, che vengono interrotti da un altro ritmo che gli si sovrappone bruscamente e più avanti riappaiono identici o leggermente variati. Insomma è la musica minimalista tipica di Glass, sebbene in quegli anni - era il 2006 - il compositore statunitense stesse cominciando ad applicare tale formula stilistica con maggiore elasticità.
Con interpreti come Iván Fischer e la Budapest Festival Orchestra è perfino superfluo dire che l’esecuzione è stata di ottimo livello. Con loro collaboravano il baritono Peter Harvey (efficace Narratore), il soprano Maria Stella Maurizi (giovane vincitrice del concorso del Teatro Sperimentale di Spoleto, che ha interpretato con limpido lirismo l’ampio intervento della moglie di Ramakrishna) e il Coro dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia (alcuni dei suoi componenti avevano anche piccoli ruoli solistici) preparato da Pietro Monti.
Prima di Glass si era ascoltata ad apertura del concerto la Suite n. 4 per orchestra BWV 1069 di Johann Sebastian Bach. L’accostamento di Bach a Glass potrebbe sembrare piuttosto incongruo ma era giustificato dal fatto che – come già accennato – Glass inizialmente si è ispirato a Bach per questa sua Passion. E soprattutto, come ha affermato Iván Fischer in un’intervista, «Glass ha una tecnica compositiva simile a quella di Bach, motivi che si ripetono in modo ipnotico. È una tecnica di ripetizioni che in entrambi i casi è molto emotiva, ha un impatto emotivo immediato sull’ascoltatore e penso che sia una combinazione straordinaria». Però l’acustica della piazza è risultata troppo dispersiva per la musica del Settecento e non ha reso piena giustizia né a Bach né all’orchestra. Ma non sono mancati gli applausi, che sono risuonati ancora più fragorosi e prolungati dopo The Passion of Ramakrishna.
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