Una “Commedia” dantesca senza Paradiso

Presentato a Bologna il “Trittico” di Puccini dopo trent’anni di assenza. Mirabile la direzione di Roberto Abbado con cantanti di classe. Non convince fino in fondo la trasposizione dantesca di Pier Francesco Maestrini

Gianni Schicchi (Foto Andrea Ranzi)
Gianni Schicchi (Foto Andrea Ranzi)
Recensione
classica
Bologna, Teatro Comunale Nouveau
Il Trittico
05 Luglio 2024 - 12 Luglio 2024

L’omaggio del Teatro Comunale di Bologna all’anniversario pucciniano passa attraverso la Manon Lescaut che ha inaugurato la stagione 2024 lo scorso gennaio, una ripresa di Tosca in aprile presentata anche a Wiesbaden, il Trittico in questi giorni di luglio e La fanciulla del West nel prossimo gennaio, ad apertura del cartellone 2025. Se si esclude Tosca, che è in assoluto l’opera più rappresentata a Bologna negli ultimi 40 anni, gli altri titoli sono sempre stati latitanti, dovendosi risalire alla Manon Lescaut di Daniele Gatti nel 2002, al Trittico di Riccardo Chailly del 1993 e alla Fanciulla del West di Daniel Oren nel 1989 per rintracciarne i precedenti.

Grande era dunque l’attesa per la nuova produzione che porta Il tabarro, Suor Angelica e Gianni Schicchicongiuntamente in scena nella stessa sera: eventualità non scontata, se anche nel caso in esame il primo annuncio prevedeva giorni contigui per i tre titoli, proposti singolarmente come aperitivi estivi.

Il primo interrogativo che si pone un regista di fronte al Trittico pucciniano è se farne uno spettacolo concettualmente unitario, con un filo rosso a unire i tre titoli fino a collocarli eventualmente in una scena fissa, oppure evidenziarne le differenze per contrapposizione. Pier Francesco Maestrini, al suo secondo Trittico (il primo a Lecce nel 2002), sceglie ora la soluzione aggregante, trovandovi lo spunto nel progetto dantesco tanto vagheggiato da Puccini ma non realizzato. Se il soggetto di Gianni Schicchi è effettivamente legato alla Divina Commedia, gli altri due vi alludono simbolicamente, con quelle anime dannate che, nell’inferno del Tabarro, si ammazzano di lavoro, o la monaca che, nel purgatorio di Suor Angelica, espia la sua colpa di ragazza madre. Ed ecco allora il barcaiolo Michele che all’inizio del Tabarro si atteggia a Caronte, il traghettatore d’anime perdute, mentre sullo sfondo i peccatori del IV cerchio infernale fanno rotolare pesanti macigni; ecco il convento di Suor Angelica costruito a ridosso della spiaggia da cui s’innalza la montagna del Purgatorio; ma Schicchi? Il genere della commedia sarebbe il pretesto addotto da Maestrini per considerarlo alla stregua della terza cantica dantesca; ma, all’atto dei fatti, di paradisiaco non c’è poi proprio nulla nelle scene e nelle proiezioni di Nicolás Boni, ispirate alle celebri illustrazioni dantesche di Gustave Dorè, del quale prende però anche qui soltanto le immagini più truci e sofferenti.

Se dunque Il tabarro funziona bene nella sua epica trasposizione infernale, se Suor Angelica sopporta ancora il rinvio alle anime dei suicidi trasformate in piante (ma è pur essa immagine dantesca tratta dall’Inferno), un Gianni Schicchi recante sullo sfondo la bolgia dei falsari, con corpi nudi in eterna disperazione, alternata a una Firenze arroventata dal fuoco come l’infernale città di Dite, impone invece allo spettatore un marchio visivo capace d’annientare la brillantezza dei dialoghi e della musica, fino a nausearlo per l’insistenza su quei corpi lividi e straziati. Insomma, un progetto realizzato tecnologicamente in maniera esemplare, ma sovrapposto, anzi imposto a una drammaturgia che non riesce ad accoglierlo e accettarlo fino in fondo.

Ciò deve aver condizionato non poco la concertazione di Roberto Abbado. Ha fatto meraviglie nel Tabarro, con un’orchestra in stato di grazia (un’orchestra che egli ben conosce, per tante frequentazioni liriche e sinfoniche negli ultimi anni, ed ora pure quale direttore principale della Filarmonica del Teatro Comunale di Bologna). Bene anche il pathos privo di smancerie nei tanti siparietti di Suor Angelica. Ma in Gianni Schicchi la lucentezza dell’orchestrazione pucciniana risultava annullata all’orecchio dalle tinte scure e grevi pervenute attraverso l’occhio. Per il resto, non una sbavatura (tranne qualche cantante di contorno che occasionalmente se ne andava per la sua strada), ma l’abilità di modellare il suono senza bacchetta, con le sole mani, facendo cantare ogni singolo strumento fin nelle parti interne.

Sul palcoscenico, cantanti di buono e buonissimo livello (ma qualche voce un po’ sgraziata in alcune parti secondarie). L’ineffabile Piero Rattalino scherzava – nel suo libello L’ente lirico va in trasferta – sul delirio vissuto da un direttore artistico nell’unica occasione del suo mandato in cui si trova a dover riempire una locandina più lunga di tre normali messe assieme, per un totale di 36 voci (cui si aggiunge, come a Bologna, l’eventuale seconda compagnia in alternanza ai titolari): giocoforza rimandare al sito web del Teatro Comunale per l’elenco completo. Ma non possiamo trascurare, in una rapida passerella, i tre protagonisti del Tabarro – Franco Vassallo, Chiara Isotton e Roberto Aronica – tre voci possenti, sicure, perfettamente intonate ai rispettivi personaggi: persino Aronica riusciva a mettere il suo particolare timbro tenorile, fattosi oggi duro e spigoloso, al servizio della sofferenza di quello scaricatore di porto cui la giovinezza è tolta, mentre Vassallo, nella truculenza baritonale del suo personaggio, ha saputo rimanere sempre al di qua dell’eccesso.

Quanto a Isotton, la sua preziosa voce sopranile ha dato il meglio nella seconda opera: un’Angelica debole o forte, disperata o speranzosa, secondo il mutare della situazione, trovando in Chiara Mogini (sostituta in extremis di Marianna Pizzolato come Zia Principessa) un vero muro psicologico di grande effetto, benché sminuito dalla presenza in scena di un suo doppio mimico (uno dei tanti dettagli registici presi dalla Divina Commedia che il pubblico non sa però cogliere al volo, distraendosi così nel cercare di dargli il giusto significato).

Un sostituto di lusso anche fra i protagonisti di Gianni Schicchi: il tenore Francesco Castoro promosso dalla seconda compagnia per rimpiazzare l’annunciato Giorgio Misseri. Con il soprano Darija Augustan, ha costituito la coppia giovane ideale: voci morbide e sicure, a fronte di una recitazione un po’ impacciata per entrambi, che non stonava però negli unici due personaggi ingenui e puri della vicenda. A riempire istrionicamente la scena ci pensava quel grande cantante e grande attore che è sempre più Roberto De Candia: un artista dalla carriera ormai lunga e variegata (era persino in una parte di contorno già nello Schicchi bolognese del 1993!), un interprete che sa adattarsi pienamente alle mutevoli situazioni, e che qui – protagonista di un’opera comica dirottata sul grottesco – ha saputo astenersi da qualunque buffoneria, demandata piuttosto ai gretti e avidi esponenti della famiglia in simulato lutto, e ai tanti diavoletti infernali che li aizzavano. Uno dei quali ha suggellato lo spettacolo col commiato più dantesco che potesse immaginarsi, quando, sull’accordo finale, ha rivolto al pubblico le terga ignude e «del cul fatto trombetta».

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