Un Falstaff nostalgico
Successo a Firenze per Mehta e Maestri
Recensione
classica
La parola al centro. Ora che va un po' di moda qui a Firenze parlare male del nuovo teatro alle Cascine, lasciateci dire che di sicuro, nell'acustica del vecchio teatro, il meraviglioso e callido libretto boitiano non lo si era sentito mai così scandito e croccante. Detto questo, c'è da registrare qualche trionfo del resto atteso, a partire da Zubin Mehta. Lui l'ha sempre fatto bene, arguto e arioso, stavolta un po' più posato e arrotondato forse, ma non, diremmo, per intimo cambiamento di visione, quanto per normale fisiologia di una lunga carriera direttoriale. Ed è stato accolto, all'inizio e alla ribalta finale, da una festa vivacissima, chiara risposta alle dicerie e dichiarazioni - ne abbiamo riferito - che sembravano mettere un'ipoteca sul proseguimento della sua presenza fiorentina. Non crepuscolare ma piuttosto garbatamente nostalgica, in chiave vittoriana, la messinscena, già vista a Bari nel 2013 (regia di Luca Ronconi, scene di Tiziano Santi, costumi, assolutamente deliziosi, di Maurizio Millenotti), con i macchinari d'archeologia industriale su cui s'inerpica e pedala l'azione, tutt'altro che frenetica, anzi, ricondotta ad un'economia essenziale e piuttosto pacata, mentre il finale riproponeva con grazia, tra nuances di verde e blu, l'idea dell'ultimo quadro come “sogno di Falstaff”. Un trionfo anche per il poderoso Falstaff di Ambrogio Maestri, che conquista con il suo carisma ma non fa dimenticare, almeno a chi scrive, visioni più eleganti e forse più sfaccettate del personaggio. Ricordiamo anche Yije Shi, Fenton fresco e delicato la cui voce corre peraltro con grande sicurezza, il convincente Ford di Roberto Di Candia, l'eccellente Cajus di Carlo Bosi. Successo ottimo e repliche fino al 12 dicembre.
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