Tutte le correnti di Bergamo Jazz
Un bel successo di pubblico ha salutato l’ultima edizione firmata da Dave Douglas, che lascia il testimone a Maria Pia De Vito
L’aria ancora fresca di questo inizio di primavera ci ha accompagnato tra le vie di Bergamo, girovagando tra teatri, auditorium e altri luoghi per seguire alcuni dei diversi appuntamenti che hanno abitato il fitto cartellone della 41esima edizione del Bergamo Jazz Festival.
Manifestazione che si conferma tra le più attrattive del panorama italiano – e il folto pubblico presente ai diversi appuntamenti lo testimonia – questa edizione è stata l’ultima firmata dalla direzione artistica di Dave Douglas che, per il quarto anno consecutivo, ha tracciato le linee caratteristiche di un programma che pareva racchiudere, come in un ideale otre dei venti di omerica memoria, differenti correnti stilistiche di un panorama musicale alquanto variegato. Naturalmente sappiamo che il passaggio dalla teoria dei nomi sulle locandine alla pratica dell’ascolto del singolo concerto può riservare più di una sorpresa, e così è stato anche in occasione dei diversi appuntamenti che abbiamo seguito nelle giornate tra il 21 e il 23 marzo.
Va detto innanzitutto che, una volta sciolto l’otre, non siamo stati travolti da nessuna sconvolgente tempesta, piuttosto siamo stati trasportati da brezze musicali più o meno intense e variegate, a partire dalla bella festa dedicata a Gianluigi Trovesi, artista bergamasco al quale è stato regalato il palcoscenico del Teatro Sociale in Città Alta per celebrare i suoi 75 anni e una carriera lunga e multiforme, in parte evocata nei due set che hanno animato la serata del 21 marzo.
Gianluigi Trovesi: 75 anni di un pendolare della musica
Colloquiando amabilmente con il pubblico che gremiva il teatro, Trovesi nella prima parte del concerto ha intrecciato il suono del suo clarinetto con il pianoforte di Anat Fort, proponendo brani dall’immediata suggestione come l’iniziale “Song of the Phoenix” della pianista israeliana, per poi ampliare la gamma timbrica grazie all’arrivo della chitarra di Paolo Manzolini, del basso elettrico di Marco Esposito e della batteria di Fulvio Maras. Una compagnia di vecchi amici – alla quale si è aggiunto il clarinetto di Annette Maye e i profumi free della tromba di Manfred Schoof – impegnata a rievocare le atmosfere di brani quali, tra gli altri, “Gargantella”, dove il sapore ritmico della tarantella ha trovato una declinazione piacevolmente personale.
Per la seconda parte del concerto la Bergen Big Band ha segnato con compatto dinamismo il clima musicale, assecondando l’attenta guida di Corrado Guarino, artefice anche dei nuovi arrangiamenti di lavori nodali del repertorio trovesiano come “From G. to G.”, “Dedalo” o “Hercab”.
Il giorno successivo, venerdì 22 marzo, abbiamo seguito la giovane contrabbassista Federica Michisanti, vincitrice del Top Jazz come miglior nuovo talento del 2018, impegnata con il suo Horn Trio – con Francesco Bigoni al sax tenore e clarinetto e Francesco Lento alla tromba – a rievocare le atmosfere tratteggiate dall’originale impasto timbrico che ha caratterizzato il recente lavoro discografico Silent Rides. Sostenuta con attenta misura dai due compagni di viaggio, Michisanti ha saputo sparpagliare nell’atmosfera raccolta dell’ex Oratorio di San Lupo linee musicali dall’interessante originalità, ben rivestite dal suono morbido e armonicamente saldo del suo contrabbasso.
Federica Michisanti, contrabbasso e melodia
Il doppio concerto della serata ha invece messo a confronto due correnti musicali affatto differenti, partendo dal fascino di un veterano del jazz come Archie Shepp, 82 anni il prossimo maggio, che sul palcoscenico del Teatro Creberg – sede che sostituisce ormai da qualche anno il Teatro Donizetti in ristrutturazione – ha offerto le diverse anime del suo lungo percorso artistico, tra voce e sax, con alcuni momenti di coinvolgente intensità – per esempio nel brano “Revolution” – affiancato con funzionale discrezione dal pianista Pierre-Francois Blanchard, dal contrabbassista Matyas Szandai e dal batterista Hamid Drake.
Protagonista del secondo set era invece Terence Blanchard, artista pluripremiato ai Grammy e reduce dalla nomination agli Oscar per la colonna sonora del film BlacKkKlansman di Spike Lee. La vena creativa del trombettista, nutrita di innesti elettronici e impasti fusion e declinata nella dimensione strumentale del suo E-Collective – Charles Altura alla chitarra, Aaron Parks al pianoforte, David Ginyard Jr. al basso e Gene Coye alla batteria – è parsa in questa occasione un poco appannata, segata da una patina di manierismo che ha reso un po’ monotona la performance, fatta eccezione per l’alterno balenare del fascino timbrico della tromba dello stesso Blanchard, e qualche vivace spunto di Altura e Parks.
Sabato 23 il nostro peregrinare tra i saliscendi delle vie del centro di Bergamo ha preso le mosse dal clima suggestivo dell’Accademia Carrara, uno spazio popolato da opere che offrono un viaggio nell’arte dal Rinascimento alla fine dell’Ottocento. Qui, incastonato nell’angolo di una sala del percorso espositivo, il duo formato da Pasquale Mirra e Hamid Drake ci ha trasportato in un mondo evocativo, tratteggiato dagli intrecci timbrici scaturiti da vibrafono, batteria e percussioni. Strumenti sollecitati dai due musicisti grazie ad un’affinità coltivata da una collaborazione ormai consolidata, in un percorso di ascolto giocato tra pattern melodico-ritmici reiterativi dal fascino immediato.
Mirra/Drake, patrimonio di umanità jazz
Atmosfera totalmente differente quella che abbiamo respirato nella seconda tappa della giornata dove, tornati nell’ambiente più intimo dell’ex Oratorio di San Lupo, abbiamo seguito il violoncello di Anja Lechner in un peregrinare espressivo che ci ha accompagnati ora nel classico respiro barocco della Suite N. 1 in sol maggiore di Johann Sebastian Bach, ora nell’interlocutorio Luciano Berio di Les mots sont allés…, un “recitativo per violoncello solo” parte di una serie di omaggi dedicati al celebre direttore d’orchestra Paul Sacher. Come una sorta di raffinato rabdomante, con il suo archetto la Lechner ha poi alternato passaggi di misurata improvvisazione a evocazioni contemporanee dell’ucraino Valentyn Syl'vestrov, per poi ritornare al Settecento di Karl Friedrich Abel, plasmando un’oasi musicale stilisticamente “altra” rispetto al respiro generale del festival.
Dopo l’efficace dialogo tra ance offerto dal duo Novotono, protagonista dell’appuntamento preserale ospitato nel salone d’onore del Museo Bernareggi, dove i due fratelli Adalberto e Andrea Ferrari hanno offerto il loro personale intreccio melodico-timbrico tra clarinetti e sax documentato dall’album Overlays, il programma si è di nuovo trasferito al Teatro Creberg.
Qui abbiamo seguito un doppio set ancora segnato da un connubio stilistico in un certo senso antitetico. Nella prima parte della serata il sax tenore di David Murray ci ha trasportato nel suo jazz elegante, profumato di espressioni dal gusto stilisticamente connotato, assecondato con solida partecipazione da David Bryant al pianoforte, Jaribu Shahid al contrabbasso e Eric McPherson alla batteria, regalando momenti di particolare efficacia in brani, tra gli altri, come “Let the Music Take You”, e chiudendo il suo spazio con una coinvolgente incursione free.
Altra aria si è invece respirata nella seconda parte, quando Dobet Gnahoré, cantante, danzatrice e percussionista originaria della Costa d’Avorio, ha coinvolto il pubblico con la sua energia variopinta incanalata da un impasto musicale dove suggestioni africane venivano immerse in un impianto world music. Animata dal sapore pop-rock della chitarra di Julien Pestre, dall’elettronica edulcorata di Pierre Chamot e dall’incalzante drumming di Mike Dibo, la performance di danza e canto dell’artista ivoriana ha offerto diversi brani incentrati su temi ora a sfondo sentimentale (“Love”) ora sociale (“Afrika”, “Education”), alternato testi in inglese, francese e idiomi dalla sua terra. Una miscela musicale energica, efficace nel suo genere, alla lunga forse oltremodo omogenea.
Nei giorni di nostra presenza a Bergamo, infine, era nell’aria un certo profumo di cambiamento, che si è condensato in chiusura del festival – avvenuta domenica 24 marzo – nell’indicazione di Maria Pia De Vito, musicista impegnata già da qualche anno nella direzione artistica della sezione jazz del Ravello Festival, quale nuovo direttore artistico della manifestazione. Un passaggio del testimone di segno deciso rispetto a quadriennio di Douglas, un mutamento che immaginiamo possa portare una brezza di aria nuova su questo storico festival o meglio – e ci venga perdonata la suggestione scontata ma inevitabile – un vento dal sud profumato di mediterraneo.
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